PIETRO ARETINO
NEI PRIMI SUOI ANNI A VENEZIA
LA CORTE DEI GONZAGA
PER
ALESSANDRO LUZIO
TORINO
ERMANNO LOESCHER
FIRENZE
Vi» Tornabuoni, 20
1888
BOMA
Via del Corio, 80?
PROPRIETÀ LETTERARIA
Torino - StaWlimento Tipografico VINCENZO BONA
AL PKOFESSORE
FRANCESCO ISTOVATI
Dedico a te queste pagine staccate dalla monografia, che da
lungo tempo vagheggio, su Pietro Aretino: e ti prego di accet-
tarle cornee tenue segno della più alta stimma e di vivissimo affetto.
Permettimi poi di spiegar brevemente per quali circostanze ho
creduto di anticipare questo fram^mento del mio futuro lavoro.
— Son oltre venVanni, da che Armand Baschet produceva nel-
l'Archìvio storico italiano UTia serie di documenti mantovani, che
gettarono molta luce sulla giovanezza dell'Aretino alla corte di
Clemente VII. Il Baschet prometteva di far quanto prima seguire
una seconda serie illustrante il soggiorno dell'Aretino a Venezia:
ma distratto dalle sue svay^iate ricerche letterarie non seppe tro-
varne mxxi il tempo ; finche quell'operosa esistenza venne pur-
troppo troncata da morte precoce.
Appunto allora io mi proposi, come om/iggio alla memoria del
dotto francese, avuta cortese adesione rfa//' Archivio storico italiano,
di completare la sua puUicazione interrotta: senonchè, volendo
accompagnare i documenti della necessaria illustrazione, mal-
grado la maggior sobrietà mi si allargò tra wuno la materia,
per modo da oltrepassare lo spazio che quel periodico poteva
accordarmi.
È così che il mio saggio, dopo esser giaciuto polveroso non
breve tempo, esce ora a parte in volume: e m'auguro richiamai
egualTYiente l'attenzione degli studiosi. — Benché comprenda un
ristretto periodo, di soli quattr' anni, esso tratta un punto im-
por tantissimo, si può dir decisivo, nella vita dell'Aretino. Sulla
scorta de' documenti mantovani, noi vediamo infatti come l'A-
retino non s'inducesse a fissare la sua residenza in Venezia, se
non dopo molte incertezze e i più penosi im^barazzi; e senza la
protezione dei Gonzaga sarebbe stato costretto a ramingay^e per
— IV —
V Italia, 0 fors' anche a '^arcare le Alpi. La mal riposta genero-
sità della corte di Mantova gli fece per più anni le spese, e spianò
la via a quell'insolente fortuna di cui Venezia doveva per l'A-
retino diventare la base: — primi i Gonzaga diedero allo sfac-
ciato avventuriero la piena coscienza della sua forza, e agli altri
Principi Vesempio d'una vergognosa tolleranza, d'una strana
paura per quella penna m^aledica.
Curiosissima a seguire, le relazioni che l'Aretino m^antenne
^ino al 1530 col Marchese di Mantova lumeggiano dunque inte-
ramente il periodo delle sue prime armi a Venezia: e i docu-
menti dell'Archivio Gonzaga, ricchi come sempre di colorito, di
particolari caratteristici, riparano alle lacune dell'epistolario stam-
pato, 0 aiutano a rettificarne le inesattezze. — Già dallo Chasles
e da altri l'Aretino è stato considerato come precursore del gior-
nalismi) ; ed anch'io, per quanto z documenti qui prodotti lo con-
sentivano, ho m^irato sin da ora a porre in rilievo la sua figura
da tale aspetto — che sarà poi tema al più ampio e meditato la-
voro, del quale vorrei questo saggio non apparisse troppo man-
chevole promessa.
Fiducioso almeno nella tua indulgenza, caro Nevati, mi ripeto
cordialmente
Mantova, 30 marzo 1888.
ALESSANDRO LUZIO.
SOMMARIO DEI CAPITOLI
L'Aretino a Mantova dopo la morte di Giovanni de' Medici (30 nov. 1526)
— Sua disperazione — Tentativi del Marchese Federico Gonzaga per riconci-
liarlo con Clemente VII — Pasquinate e pronostici satirici dell'A. — Caratte-
ristica speciale de' giudizi dell'A., considerato come precursore del giornalismo
— Rimostranze del Papa al Marchese per un libello dell'A. — Il Marchese si
esibisce a farlo ammazzare. — L'A. parte da Mantova.
n.
L'A. arriva a Venezia (25 marzo 1527) — Stringe subito amicizia con Tiziano,
che gli fa il ritratto — Canzone e pasquinata dell'A. sul sacco di Roma — Il
famoso sonetto del Berni contro l'A.
in.
Tentativo fallito dell'A. di andare in Francia alla corte di Francesco I —
Intraprende il poema della Marfisa^ in continuazione dell'Ariosto e a gloria di
casa Gonzaga (settembre 1527) — Amori mantovani dell'A. e compiacenza ver-
gognosa del marchese Federico (febbraio 1528).
IV.
Strana interruzione ne' rapporti dell'A. col Marchese — Maldicenze dell'A.
disgustato contro la corte di Mantova — Minacce del Marchese — L'A. si fa
perdonare — Manda in dono al Marchese un pugnale lavorato da Valerio vicen-
tino, e riprende la Mar fisa interrotta (ottobre 1529).
V.
L'A. fa chiedere dal Marchese al Papa e all'Imperatore, convenuti a Bologna,
un privilegio di stampa per la Marfisa — Loro rifiuto — L'A. è costretto a
riconciliarsi col datario Giberti (febbraio 1530) — Spiegazioni sul ferimento
dell'A. avvenuto a Roma nel luglio 1525.
VI.
Il Doge Gritti s'interpone fra il Papa e l'A. (aprile 1530) — Insediamento
definitivo dell'A. a Venezia — Stanze in lode di essa.
VII.
La casa dell'A. — Lusso di cui si circonda — Gli amici scapestrati e disce-
poli: Lorenzo Veniero, e la sua P. Errante.
Vili.
L'A. ottiene per Arezzo la protezione di Ferrante Gonzaga (agosto 1530) —
Nuovi disgusti col Duca Federico, che lo fa minacciare di pugnalate in mezzo
a Rialto — L'A. chiede ancora perdono — Sollecita dal Papa un beneficio in
Arezzo — Riconciliazione officiale con Clemente VII (settembre 1530).
IX.
Rottura completa fra l'A. e il Duca di Mantova (febbraio 1531) — Influenza
e fortuna sempre crescenti dell'A. a Venezia — Conclusione.
INDICE DEI DOCUMENTI
I. Lettera del Marchese Federico Gonzaga a Francesco Guicciardini. Di Man-
tova, 23 gennaio 1527.
IL Dispaccio dell'ambasciatore Francesco Gonzaga al Marchese Federico. Di
Roma, 26 aprile. — Risposta della Cancelleria ; di Mantova, 4 mag-
gio 1527.
IIL Lettera del Marchese Federico all'Aretino. Di Mantova, 28 maggio 1527.
IV. Lettera dell'Aretino al Marchese. Di Venezia, 7 luglio 1527. — Can-
zone e Frottola sul sacco di Roma.
V. Lettera del Marchese all'Aretino. Di Mantova, 8 luglio 1527.
VI. Lettera e. s. Di Mantova, 4 agosto 1527.
VII. Lettera e. s. Di Marmirolo, 15 settembre 1527.
Vili. Lettera e. s. Di Mantova, 11 ottobre 1527.
IX. Lettera e. s. Di Mantova, 4 novembre 1527.
X. Lettera e. s. Di Mantova, 10 novembre 1527.
XI. Lettera e. s. Di Mantova, 20 novembre 1527.
XII. Lettera e. s. Di Mantova, 11 dicembre 1527.
XIII. Lettera e. s. Di Mantova, 3 gennaio 1528.
XIV. Lettera e. s. Di Mantova, 5 febbraio 1528.
XV. Lettera e. s. Di Mantova, 26 febbraio 1528.
XVI. Lettera di Pietro Aretino all'ambasciatore Jacopo Malatesta. Di Venezia,
s. d. (27 gennaio 1529).
XVII. Dispacci da Venezia dell'ambasciatore Jacopo Malatesta; 26, 29 gen-
naio 1529.
XVIII. Dispaccio da Venezia di Jacopo Malatesta al castellano G. J. Calandra;
14 febbraio 1529.
XIX. Lettera di Pietro Aretino al Marchese Federico. Di Venezia, 12 aprile 1529.
XX. Lettera del Marchese a Pietro Aretino. Di Mantova, 24 aprile 1529.
XXI. Lettera dell'Aretino al Marchese. Di Venezia, 10 settembre 1529.
XXn. Lettera e. s. Di Venezia, 2 ottobre 1529.
XXIII. Lettera e. s. Di Venezia, 3 dicembre 1529.
XXIV. Lettera del Marchese a Giambattista Malatesta, oratore a Bologna. Di
Mantova, 8 dicembre 1529.
XXV. Lettera dell'Aretino al Marchese. Di Venezia, s. a. (dicembre 1529).
XXVI. Lettera dell'Aretino a Jacopo Malatesta. Di Venezia, s. a. (7 gennaio 1530).
XXVII. Lettera dell'Aretino al Marchese. Di Venezia, s. a. (febbraio 1530).
XXVIII. Lettera del Marchese Federico al Vescovo di Verona, datario Giberti,
Di Mantova, 8 febbraio 1530.
— vili
XXIX. Lettera del datario Giberti al Marchese. Di Verona, 9 febbraio 1530.
XXX. Lettera del cancelliere marchionale (G. J. Calandra) al datario Giberti.
Di Mantova, 11 febbraio 1530.
XXXI. Dispaccio dell'ambasciatore J. Malatesta al Marchese (con accluso un
biglietto dell'Aretino, s. d.). Di Venezia, 12 aprile 1530.
XXXII. Lettera dell'Aretino al Marchese. Di Venezia, 20 aprile 1530.
XXXIII. Lettera di Federico Gonzaga, Duca di Mantova, a Pietro Aretino. Di
Mantova, 20 giugno 1530.
XXXIV. Dispacci da Venezia dell' ambasciatore Benedetto Agnello; 11 luglio,
16 agosto 1530.
XXXV. Lettera dell'Aretino al Duca di Mantova. Di Venezia, 19 agosto 1530.
XXXVI. Lettera del Duca di Mantova a Ferrante Gonzaga. Di Mantova, 24
agosto 1530.
XXXVII. Lettera del Duca di Mantova all'Aretino. Di Mantova, 24 agosto 1530.
XXXVIII. Lettera di G. J. Calandra all'ambasciatore Benedetto Agnello. Di Man-
tova, 16 settembre 1530.
XXXIX. Lettera dell'Aretino al Duca di Mantova, Di Venezia, settembre 1530.
XL. Lettera del Duca di Mantova all'ambasciatore Francesco Gonzaga. Di
Mantova, 28 settembre 1530.
XLI. Dispaccio dell'ambasciatore Agnello al Calandra. Di Venezia, 4 ot-
tobre 1530.
XLII. Dispaccio dell'ambasciatore Francesco Gonzaga al Duca di Mantova.
Di Koma, 11 ottobre 1530.
XLin. Lettera di Pietro Aretino all'ambasciatore Agnello. Di Venezia (24 ot-
tobre 1530).
XLIV. Dispacci dell'ambasciatore Agnello. Di Venezia 1531-1533.
APPENDICE
I. L'Aretino pittore.
II. Il sacco di Roma descritto nei Ragionamenti dell'Aretino.
ni. I poemetti osceni del Veniero.
rV. Feste veneziane nel 1530.
Il 30 novembre 1526 moriva a Mantova Giovanni de' Medici, ferito
a Governolo; e di questa gravissima perdita, che gettò la desolazione
e lo scompiglio nelle terribili hande^ più d'ogni altro sbalordito ed
oppresso restò l'Aretino, che s'era visto mancare tra le braccia il suo
protettore potente, l'amico e compagno di orgie e d'amori più che pa-
drone. Presso Giovanni de' Medici, l'Aretino aveva trovato sicuro ri-
fugio, costretto a partirsi da Koma, malconcio e stroppiato dal pugnale
di Achille della Volta i); e per l'intimità singolare che a lui, primo
de' grandi avventurieri della stampa, aveva accordato l'ultimo de' grandi
capitani di ventura, l'Aretino si era promesso non solo l'impunità per
ogni insolente sua audacia, ma chi sa anche qual avvenire luminoso
di ricchezze e di onori 2). Un colpo di falconetto, de' primi tirati dai
*) Mazzuchblli, Vita di P. A., Padova 1741, p, 26; cfr. Baschet, Documents
concern. la personne de m. P. A. in Arch. st. it, serie 3', tomo III, parte 2»;
e Virgili, Francesco Berni, Firenze 1881, p. 108. — L'A. fu ferito gravemente
da due pugnalate nel petto la sera del 28 luglio 1525.
') Nel capitolo al Duca Cosimo {Opere burlesche, Usecht 1771, III, 22) l'Are-
tino garantisce che Giovanni l'avrebbe fatto signore d'Arezzo:
Egli che meco per la sua mercede
Non aveva spartita cosa alcuna,
Qual informar se ne può chi noi crede,
Sotto Milan dieci volte non ch'una
Mi disse: Pietro, se di questa guerra,
Mi scampa Dio e la buona fortuna,
Ti voglio impadronir della tua terra.
Ma piace al destin ladro ch'io pur sia
Povero e vecchio, ed ei morto e sotterra.
Luzio — Pietro Aretino 1
— 2 —
lanzichenecchi a Governolo, aveva rotto con la giovane vita del temuto
condottiero le speranze ambiziose del suo confidente, del suo parassita;
e l'Aretino si trovò solo, odiato, indifeso, senza asilo e senza mezzi,
mentre tutta Italia ardeva d'una guerra sterminatrice.
Resi a Giovanni gli estremi onori, e celebratene le lodi con una
sincerità di dolore che gli dava accenti di vera e vigorosa eloquenza i),
l'Aretino dovè pensare a' casi suoi, volgersi attorno odorando il vento
infido per vedere in qual luogo avrebbe potuto riparare, a chi offrire
i suoi servigi con qualche probabilità di fortuna. Di tornare a Roma
non gli passava neppure per il capo; sovr'essa si sapeva diretta la
marcia degli imperiali, assetati di preda e di strage ; e senza ciò l'Are-
tino, in disgrazia del Papa e del datario Giberti, che aveva maggior-
mente provocati ed offesi all'ombra di Giovanni de' Medici, si sarebbe
esposto a certo pericolo, a un nuovo attentato di sicari. Nessun'altra
corte italiana gli presentava prospettiva migliore fuori di Mantova:
e là avrebbe avuto di grazia poter rimanere, era anzi quello il porto
tranquillo che s'era già augurato tra' disgusti e le amarezze di Roma,
componendo La Cortigiana ^j. Ma il marchese Federico Gonzaga, che
*) Basti ricordare la stupenda lettera sulla morte di G. de' M,, con la data di
Mantova 10 dicembre 1526 (Aretino, Lettere, Parigi 1609; I, 5).
') Nel codice magliabecchiano, CI. VII n" 84, ci è conservata la prima reda-
zione di questa commedia, che dovè essere composta tra il febbraio e il luglio
del 1525, dopo cioè la battaglia di Pavia e prima del ferimento dell'Aretino
Infatti nel prim'atto, là dove viene in scena quel « furfante che vende istorie »
fra le altre che grida v'è anche la presa del Me : e in più luoghi sono onorevol
mente ricordati il Papa e il Datario. Il codice è come autografo, recando corre
zioni di pugno dell'Aretino : e questa prima redazione offre molte e assai notevoli
varianti con la Cortigiana, quale si ha a stampa nel rimaneggiamento che ne
fece più tardi l'Aretino a Venezia. Appunto in quella scena del terz'atto, dove
Flaminio e Valerio passano in rassegna le corti italiane perchè ne risalti maggior
gloria a Venezia, noi troviamo invece nella prima redazione che Flaminio (ossia
l'Aretino) dichiarava allora di preferir Mantova sopra ogni altra corte. « Anderò
< a Mantova, dove la ex.^ del Marchese Federico non nega il pane a ninno, et
< ivi mi tratterrò tanto che N. S. acconci le cose del mondo, non sol d'Italia, e
« poi ritornerò, ch'io son certissimo che sua S.^ rileverà le virtù come fece Leon
« suo fratello. » — È certo questa commedia che l'Aretino aveva inviato al Mar-
chese, il quale ne lo ringraziava così, dell'agosto 1526: « Io mi vado pigliando
€ spasso in la vostra dotta comedia, vero spechio de la corte moderna et di la
< vita humana presente, la cui lettione non vi potrei dir quanto mi delecta. »
(Arch. Gonzaga, Copialettere dei Marchesi, Lib. 287 ; lett. 22 agosto. Tutti i
doc. inseriti nel testo, e quelli a parte, che non abbiano altra indicazione, s'in-
tendono tratti dall'arch. mantovano).
— 3 —
aveva tanto accarezzato l'Aretino quando a Koma era in auge, e si
piaceva ancora della sua conversazione mordace e de' suoi scritti, non
volle più saperne di accettarlo, per non tirarsi a' fianchi un uomo di
tal fatta, che l'avrebbe guastato con Clemente e col Giberti: addu-
cendo a pretesto che gli anni volgevano disastrosi, il mantovano era
stato disertato dal passaggio de' lanzichenecchi, e dalle inondazioni
del Po ; distrutte le rendite, stremato l'erario, quindi già troppo obe-
rata la corte. Il Marchese non lo respinse tuttavia ; gli concesse ospi-
talità pel momento, e tentò qualche via di riconciliarlo col Papa ^).
L'Aretino — scriveva il Gonzaga al Guicciardini luogotenente pon-
tificio in Parma — non si cura di ritornare a Koma : vuole soltanto
qualche dimostratione che gli provi la sua serviti! con casa Medici
non esser affatto perduta. E il Marchese soggiungeva con calore che
ci andava anche del decoro del Papa a quietare costui, perchè si era
in tempi in cui giovava più la lode che il biasimo; e poi infine il
ferimento dell'Aretino, se non ordinato, tollerato e impunito dal Da-
tario e dal Pontefice, era cosa « brutta e nota a ciascuno. »
11 Guicciardini promise di adoperare i suoi buoni offici -): e in-
tanto l'Aretino passò qualche tempo a Mantova nella più penosa in-
certezza, sfogandosi a buttar giù versi e prose, con una fecondità che
il Marchese diceva miracolosa, perchè in un mese lo vedeva fare quanto
non avrebbero messo assieme in dieci anni tutti i letterati d'Italia ! ^).
Naturalmente in questa sbalorditola produzione non potevano non
1) Doc. I.
') Già all'Aretino stesso il Guicciardini aveva scritto (14 nov. 1526): e Spero
« in Dio che vedrovvi riconciliato seco, secondo il merito de la vostra virtù. »
Leti, scritte ai sig. P. A., Venezia, Marcolini, 1551; I, 9.
') Di questo tempo dev'essere il sonetto che troviamo nel cod. marciano CI. XI
it, n» LXVI a e. 434 v:
Sett'anni traditori ho via gettati
Con Leon quatro et tre con ser Chemente,
E son fatto nemico de la gente
Più per li lor che per li miei peccati
Et non ho pur d'intrata dui ducati
Et son da men che non è Gian Manente,
Onde nel e... se ponete mente
Ho tutte le speranze de papati.
Se le ferite vacasser ne havrei
Per diffender l'honor di miei patroni
Motu proprio ogni dì ben cinque o sei.
— 4 —
aver larga parte degli scritti satirici, de' soliti libelli : ed uno di essi
era già arrivato a Roma, proprio in tempo per distruggere l'effetto
delle raccomandazioni del Marchese. Insieme a una disperata^ un ca-
pitolo cioè pieno di imprecazioni e di vituperi a tutta la corte pa-
pale ^), egli aveva composto uno di que' giudizi che dovevano diven-
tare una specialità dell'Aretino, ora per altro quasi affatto sconosciuta:
su' quali è perciò necessario premettere qualche schiarimento.
Ma benefici, offici et pensioni
Hanno bastardi et furfanti plebei
Che i Papi mangeriano in duo bocconi.
E i suoi servitor buoni
Muojon di fame, come che facc'io.
Cosa da renegar Domeneddio.
*) Questa « Disperata di P. A. » l'abbiamo nel cit. cod. marciano a e. 255 r,
ed è una serqua di terzine velenose e rabbiose contro tutto e contro tutti. Fra'
primi malmenati è il cardinal fiammingo Enkefort, creato da Papa Adriano, e
ribattezzato Trinkefort dall'Aretino come dal Berni; e via via altri cardinali, il
viceré Lannoy che nel marzo del 1527 concluse un armistizio col Papa, ecc.
Io son crutiato e in colera sì forte
Che vivo e senza sai mi mangeria
Quel gaglioffo fiammingo Trincaforte
Vorrei che fusse officio di Pasquino
A la Marcha donar la pelle bona
Di quel ladro ladron de l'Armellino
Vorrei che fusse legato per pazzo
El nostro raesser Carlo imperatore
Che lassò re Francesco ire a sollazzo
Vorrei che '1 viceré fusse squartato,
0 tornasse homo d'arme come gli era
S'egli ha coi preti lo acordo firmato
Vorrebbe la rovina di Roma e di Clemente — « Più misero et da poco di
Adriano » — veder il clero tagliato a pezzi e Italia fantesca di Spagna, ciò che
iu breve s'avverò pur troppo. Non risparmia che due prelati, Ercole Gonzaga e
Benedetto Accolti d'Arezzo; e dice d'esser così in furia
Poi eh' è successo nel capitanato
Dopo la morte del signor Giovanni
Bernardin da la Barba schiericato
Per gratia e per bontà di Papa Janni.
Al Da la Barba si trovano per altro dirette parecchie lettere adulatorie delI'A.
(II, 18, 227).
— 5 —
Gli astrologi solevano al principio d'ogni anno pubblicare i loro
pronostici, che redatti in forma più o meno sibillina, con più o meno
abile ciurmeria, avevano diffusione grandissima non solo nel volgo,
ma tra le classi più elevate e nelle corti. Questi pronostici erano chia-
mati judict, e per lo più si dividevano in tanti paragrafi o capitoli:
capitolo del tempo, de' raccolti, degli stati e signori, della guerra...;
e così via via davano su tutto delle predizioni con un gergo arruffato,
che la credulità generale s'affannava a decifrare. Non mancavano per
vero gli scettici e i beffardi, che facevan magari spiritose parodie di
questi judict^): ma ciò non toglie che se ne stampasse un numero
infinito di copie 2), e che anche i Principi commettessero a' loro am-
basciatori di comperare quanti ne uscivano ^). Orbene l'Aretino, con
uno di que' presentimenti di modernità onde lo Chasles vide in lui
^) Il cod. mare. cit. a e. 134 v. ne ha una graziosa, tutta predizioni burlesche,
che finisce cosi: « Li astrologi diranno quest'anno più busie assai, et non seguirà
* uno quarto di quello haranno ditto. »
*) Cfr. FuLiN, Nuovi doc. per servire alla si. della tipogr. venez. in Arch. Ve-
neto, tomo XXIII, parte II. Nell'inventario d'un fondo librario del 1480 che egli
reca figurano molti Jiidicii, per il prezzo di 2, 4 e al più 5 soldi.
') Sigismondo Golfo scriveva da Ferrara ad Isabella d'Este il 7 gennaio 1494:
€ Ha vendo m.'"'* Petro Bono Ad voga rio compilato uno judicio de le cose che hanno
€ a succedere in lo anno presente me è parso... farlo transcrivere et mandarlo a
< la Ex. V. » — Dello stesso Advogario inviava un judicio al marchese Fran-
cesco nel 1499 (24 dicembre) un Pietro del Bruno: «Essendo andato a visitare
« maistro Pietro Bon da l'Avogaro sciapendo che quella è desiderosa di ve-
« dere li Juditij gè ne adimandai uno per la S. V. et così gè lo mando et un
< altro per Madonna Marchesana; benché non sia costume de darli fora se non
< lo primo di Vanno tuttavia lui me l'ha dato molto volentieri. » — Egual-
mente l'ambasciatore Angelo Germanello scriveva da Roma 5 genn. 1523 al mar-
chese Federico: « Mando doi Judicij ad la Ex. V. li quali son de li primi che
« siano dati fora: capitando de li altri li mandarò subito. » E il 25 nov. 1525:
« Mando ad la V. Ex. alligati ad questo uno judicio novo de l'anno futuro. » —
Il Marchese poi dava quest'ordine a Francesco Gonzaga il 27 nov. 1526: « Ap-
« presso se sono stampati judicij de l'anno futuro mandaticine uno d'ogni sorta
« di quelli che verranno. » (cfr. in Baschet, l. e. doc. XXXI, la risposta). —
Fra le lettere al Bembo ve n'ha una di Andrea Garisendo del dicembre 1517
che dice: « Le mando un altro judicio novo di un nostro valente astrologo bo-
« lognese novaraente pubblicato. Vedrà che minaccia assai mali. * (cfr. Gian, Un
decennio della vita di m. P. Bembo, Torino 1885, p. 146 n.). — Tre giudizi, del
1517, del 1522 (scritto dal Gaurico) e del 1524 son riferiti nelle Storie Senesi
del Tizio.
acutamente un precursore del giornalismo i), comprese per primo il
partito che si poteva trarre dall'uso invalso di questi giudizi^ dove
se ne fosse fatto un genere nuovo, lasciate da parte le astruse
ciarlatanerie degli astrologi, per arrogarsi invece davvero quel giu-
dizio su tutto e su tutti, che oggi ha elevato la stampa a un potere.
I suoi pronostici erano quindi qualche cosa di molto simile alle ri-
viste annuali satiriche de' nostri giornali umoristici : non si fondavano
già su vane contemplazioni del cielo e degli astri, ma erano argute
e piccanti divinazioni, basate nella sua larga conoscenza degli uomini
e della vita contemporanea, nell'abilità di sfruttare il pettegolezzo e
lo scandalo, i secreti di anticamera di tutte le corti, nel suo genio
infine di libellista. Ond'è che questi giudizi dell'Aretino erano cercati
più avidamente d'ogni altro da' Principi, desiderosi di esservi nomi-
nati con onore, e di vedervi lacerati i loro nemici ; e siccome spesso
colpivano giusto, ottennero a Pietro — egli fu naturalmente il primo
a conferirselo — persino il vanto di profeta.
D'altronde l'Aretino non aspettava soltanto l'epoca fissa del ca-
podanno per emettere i suoi giudizi ; via via che gli avvenimenti si pre-
sentavano, ei li gettava là con delle lettere in foglietto volante, che
anticipavano gli articoli politici de' nostri giornali, e ne avevano la
prontezza, l'opportunità, l'acume, lo stile incisivo e mordace ^), Nelle
sue lettere è facile ravvisare quelle d'occasione che doverono esser
*) Ph. Chasles, Étud. sur W. ShaJcfpeare, M. Stuart et VArétin, Parigi, 1851,
p. 382.
') Quando TAretino era nel campo di G. de' Medici il Marchese di Mantova
gii scriveva, 7 ag. 1526: « Vi ringratio infinitamente de l'officio che fate in avi-
« sarmi le cose che accadono, e quanto più frequentarete tal officio tanto maggior-
« mente vi restarò obbligato. Et pregovi che non solamente mi avisate le cose
« che accadono ma anche li pareri et juditii vostri, li quali saranno extimati
€ da me quanto un oracolo proprio. Di questo non vi potrei pregare più di core
€ di quel che faccio. » — E ancora il 22 agosto: « Non lego mai cosa che tanto
€ mi diletti quanto il scriver vostro, maximamente poi che per amor mio vi ha veti
€ lassato intrar nel capo il spirito prophetico. Che si ben li agenti mei che sono
« in campo havessero potuto, il che non potriano, agguagliar la loro diligenza
< con la vostra in scrivere le cose che occorreno alla giornata et che si vedeno
€ publicamente, non posso già aspettar né da loro né da altri quello che dal
« vostro facondissimo et presago ingegno, dal quale intendo così ben lo advenire
« come il presente. Et però tanto più vi prego che perseverati in el cominciato
« officio. » {Copialett., Lib. 287). Il qual officio si rassomigliava precisamente a
qaello do' nostri giornalisti in tempo di guerra.
— 7 —
pubblicate alla spicciolata ^) : e l'intero epistolario in sei volumi rap-
presenta quasi la collezione degli articoli quotidiani di questo mera-
viglioso giornalista, che seppe imporsi al suo tempo, attinger larga-
mente a' fondi segreti di tutte le corti, crearsi de' tributari, degli
abbonati tra' Principi, dominare letterati ed artisti in ricambio di
reclame e per solidarietà di combriccola.
Preoccupando sempre l'opinione pubblica — e interpretandola spesso
— con i giudici su ogni fatto più in vista, l'Aretino raggiunse una
grande popolarità, perchè quegli scritti volanti si vendevano e grida-
vano per le vie: e_ nella scena IV del^ijn^att<LilellaL.£or^(aw^^
quel fur£anta-clia--g£Jide_^istorie, par giàjli_se.ntire il venditore giro-
vago di giornali, il nostro strillone. « A le belle istori e^ istorie, istorie,
« la guerra del Turco in Ungheria, le prediche di Fra Martino, il
« Concilio, istorie, istorie, la cosa d'Inghilterra,, la pompa del Papa
« e de l'Imperatore, la circumcision del Vaivoda, il sacco di Roma,
*) Per es. nel primo libro quelle a Re Francesco sulla battaglia di Pavia, al-
l'Albizzi sulla morte di Giov. de' Medici, al Papa e all' Imperatore sul sacco di
Roma, ai signori Veneziani (p. 269), ecc. Quest'ultima, a stampa in foglietto vo-
lante, si trova nel Cod. Ambrosiano H. 245 in f. con a tergo l'indirizzo, di pugno
dell'Aretino stesso, ad Agostino Ricchi. — Era forse dell'Aretino un giudizio
sulla morte di Leone X che l'Equicola comunicava al Marchese Gonzaga; Man-
tova, 12 febr, 1522: « Mandoli questo iudicio facto perla morte di Papa Leone
sancta memoria. V. S. il veda che ne harà piacere. » — L'Aretino era già assai
conosciuto pel suo genio satirico, e ne è prova una lettera bizzarra, conservata
all'Archivio di Firenze fra le carte strozziane (filza 133, a e. 255, che si com-
pleta con la e. 114 àeìVApp. IX). Pietro, che dopo l'elezione di Adriano VI s'era
ritirato a Firenze col cardinal Medici, finge di ricever notizie di Roma dall'amico
Pasquino; il quale, in data 31 luglio 1522 gli scrive: « Aretino carissimo sa-
« Iute ecc. Quanto dolore abbia accresciuta la vostra partita da Roma, m" Pa-
« squino il sa et mai à fatto parola et porta la gramaglia Et per mia fé
« che gli avete renduto ingratitudine, che sapete quanto utile et honore vi à
« dato. Pure Roma meterà questa con l'altre isventure, e se non fussi che le pro-
«< cessione li danno alquanto di consolatione per la imbarcatione del Papa s'im-
« picherebbe » Prosegue descrivendo umoristicamente una di queste ladre e
divote processioni, in cui dice esser state portate attorno delle strane reliquie:
« la schufia de l'Unico Aretino quondam S^e ^j Nepi, il brachiere de Flischo,
« la cintura della mammà di Trani, la statua equestre del S^'e Renzo (di Ceri)
« intagliata di pane fresco, la palota la quale fu cavata da la natica al conte
« Anibale (Bentivoglio ?) a le mura di Bologna, il bubone di Colonna ecc. »
Finisce con l'irridere agli sforzi impotenti che si facevano per soccorrere i valo-
rosi difensori di Rodi, onde si erano — dice — spedite « sino agli antipodi staf-
« fete per agunare i signiori cavalieri erranti. »
« l'assedio di Fiorenza, lo abboccamento di Marsilia con la conclu-
« sione, istorie, istorie, » In un dispaccio di Jacopo Malatesta amba-
sciatore mantovano a Venezia troviamo la seguente curiosa notizia:
« È anche in questa terra un povero homo che va vendendo li giu-
« ditij per Rialto, che parmi bavere un humore malinconico più
« presto che altrimente, el quale si è obligato alla 111."* S."* voler
« perdere la testa se per le prime lettere che veneno di Lautrech
« non si ha nova che Francesi habbin rotti spagnoli » (Venezia,
19 marzo 1528). — Vediamo così disegnarsi chiaramente le forme
rudimentali della stampa periodica : e l'Aretino è come l'Omero nella
folla oscura ed anonima de' primi giornalisti.
Sugli ultimi del 1526 essendo dunque a Mantova, l'Aretino non
mancò di fare il suo giudizio per l'anno nuovo: e l'intitolò in nome
di Pasquino al Marchese di Mantova. Ce ne rimane appena un fram-
mento: però da lettere posteriori del Gonzaga sappiamo che gli av-
venimenti seguirono così conformi alle predizioni dell'Aretino, che
quello poteva ben dirsi « il più veridico judicio » fosse stato « fatto
già molti anni » e l'autore esser tenuto per « il miglior astrologo
che sia », per « propheta divino ! » ^). Questo frammento lo troviamo
nel prezioso codice marciano già ricordato e che avremo più volte a
citare (CI. XI, it. n.« LXVl) a carte 255 v:
Judicio over pronostico de mastro Pasquino quinto evangelista del anno 1527.
Al S. Marchese de Mantova Petro Aretino
Signore, la castronaria del Gaurico et di quel bestiolo che sta col conte Ran-
gone et gli altri giotti ribaldi, vituperio de le prophetie, m'hanno questo anno
fatto diventare philosopho: a la barbacela di quella pecora de Abumasar et di
Ptolomeo io ho composto il judicio del 1527 et non sarò bugiardo come son li
sopraditti manigoldi, che la minore et di meno importanza menzogna che habino
detto è stato il diluvio, per cui dubitando il focho s'aparechiò a diffendere Thonor
suo nel Cardinale de Monte et Rangone et omnium prelatorum. Io non son per
dirvi così a minuto ogni favola, ma toccheremo de cose più importante; siche le-
gete et credete et nolite timere, perchè sete tropo homo da bene maxime a questi
tempi.
Capitolo primo de la dispositione del aere et introiti del sole. Secondo la op-
pinione di moderni interpreti dei pianeti, dico de Zulian Leni et Ceccotto geno-
vese, lo introito del sole sarà ne la prima taverna ch'egli troverà, chome il ma-
nigoldo appare, et usciranne irabriaco in termine di otto giorni al meridiano
') Dee. in, XIV.
- 9 —
vostro horologio di Mantua. L'aere sarà molto disposto a corrompersi per la fe-
tida materia dei piedi et fiato de todeschi tracannanti in vino italico. La quarta
de la primavera (secundo Thoraaso Philologo da Ravenna) sarà ventosa come el
sexo di Jacomo da San Secondo. Et haveremo neve et brine frigidissime le quali
dannificheranno molto i seminati et frutti et le quatrupedi bestie, et saranno di
gran naufragio a li hortagii ducali nel ferrarese, così a li armenti del detto. Et
porta periculo de infetarse i bovi, pecore et castroni de Jacopo Salviati et de l'Ar-
mellino. Il Duca de Camerino pecoraro aumenterà oves et boves de l'aer tempe-
perato (Manca il seguito)
Come si vede, l'Aretino comincia col deridere il Gaurico ^) ed un
altro astrologo; poi allude bizzarramente al gavazzare che le orde te-
desche avrebbero fatto nella povera Italia, e di questo passo con ori-
ginali scappate satiriche, che oggi in parte ci sfuggono, doveva segui-
tare accoccandola a tutti, specialmente al Papa, Cardinali, Prelati.
Per modo che quando quel « libretto » fu conosciuto a Roma, si restò
indignati e sorpresi di vederlo dedicato al Marchese di Mantova, ca-
pitano della Chiesa ; e il confessore del Papa andò a farne rimostranze
all'ambasciatore Francesco Gonzaga 2). Il Marchese, che aveva pur tro-
vato in quel giudizio tante belle cose, fece rispondere di non saperne
nulla e di aver già bruscamente licenziato l'Aretino, respingendo le
insistenti sollecitazioni con cui s'era esibito per suo cortigiano. L'aveva
tollerato dopo la morte di Giovanni de' Medici, e aveva talvolta pre-
stato orecchio per svago alle sue composizioni ; ma non aveva per si-
mile bestia una tenerezza qualsiasi... e si offriva bellamente di farlo
ammazzare con un buon colpo sicuro e discreto, di cui non sarebbe
trapelato mai nulla. Se l'Aretino è scappato dalle mani d'altri —
conchiudeva il cancelliere gonzaghesco la sinistra e tortuosa pro-
posta — non scapperà dalle nostre. Roma era alla vigilia del sacco,
e questa lettera non fu certo recapitata. Sarebbe stato edificante sen-
*) Sul Gaurico a cui la professione dell'astrologia giudiziaria non impedì di
diventar vescovo veggansi Tiraboschi, St. d. leti, il, Venezia, 1824, VII, 650
e un articolo del Ronchini negli Atti e Mem. delle EB. Beput. di st. patria
per le prov. modenesi e parmensi, voi. VII, fase. 1. — Del Gaurico ho trovato
nell'Arch. Gonzaga un giudizio del 1509, diretto al marchese Francesco, vera-
mente ridicolo. Gli predice infatti un'infinità di belle cose, proprio per quell'anno
in cui il Marchese venne imprigionato da' Veneziani I.... « Et questa sua opinione
« la fortifica con voler far gagliarde scomese. » (lett. di Girolamo Casio a Isa-
bella d'Este; Bologna 27 febr. 1509).
*) Dog. il
— 10 —
tire la risposta da parte del Papa all'offerta del Marchese, che ci dà
il miglior documento delle relazioni dell'Aretino co' Principi del suo
tempo. Lo accarezzano, lo pagano e gli preparano nell'ombra il pu-
gnale. Buon per lui che era partito già da Mantova per Venezia, e
il Marchese che poi si mostrava così volonteroso sicario aveva fornito
all'Aretino i mezzi del viaggio: cento scudi, del broccato e del raso ! ^).
IL
L'Aretino arrivò a Venezia il 25 marzo 1527 ^), ed entrando nella
meravigliosa città delle lagune nulla poteva fargli presentire che non
ne sarebbe mai più partito, che vi sarebbe rimasto per quasi trent'anni,
stendendo di là, come da covo sicuro, le sue reti su tutte le corti ita-
liane, instaurandovi il suo incontrastato dominio di avventuriero.
Infatti l'Aretino era andato a Venezia senza idea prefissa di stabi-
lirvisi, ma solo per vaghezza di nuovi luoghi e in cerca di fortuna.
Da' registri di lettere del marchese Gonzaga non appare menomamente
che l'avesse raccomandato, come è stato asserito, al Doge Gritti od
anche al suo ambasciatore Malatesta : l'Aretino partendo da Mantova
vi aveva lasciato i cavalli ^), che gli avevan servito nel campo, quand'era
a fianco di Giovanni de' Medici ; e si ri serbava certamente di ripren-
^) « Cento scudi et cert'altre cose » dice il cancelliere (doc. II); e l'Aretino
{Lettere, I, 10) del 24 aprile 1527 scrive al Cavalier da Fermo (Guerrieri):
« Se voi, signor Vincenzo, quando per parte di sua Eccellenza mi deste i cento
« scudi, il broccato et il raso, mi haveste veduto il cuore... non vi maraviglia-
« vate punto del mio non haver fatto motto nel ricever Toro e la seta , perchè
* interponendosi la indegnità mia a la splendida bontà del Marchese di Mantova,
« tocca dalla coscienza del suo poco merito, si vergognò ecc. »
') In una lettera del 25 marzo 1537 (1, 83) scrive: « questo giorno fornisce
« i dieci anni, che io ricovrato sotto il lembo de la clemenza venetiana l'ho ce-
< lebrata sempre. »
') Lett. all'ab. Gonzaga, da Venezia 8 giugno 1527 (I, 14): « Si degnerà la
« S. V. di accettar in dono il barbaro giovanetto, che io venendo qui lasciai
« nella stalla di quella, perchè la città mi è talmente piaciuta, che bisogna che
« me ne procacci uno di legno, s'io voglio cavalcar per queste acque. »
— 11 —
derli al ritorno, sia che il Marchese avesse al line consentito di tener-
selo in corte, o da Venezia avesse preso le mosse, come disegnava più
tardi, per andare in Francia. Appoggi potenti a Venezia non aveva
dunque : ]ion vi era tuttavia affatto ignoto, perchè da Koma il nome
dell'Aretino, del portavoce di Pasquino, dell'autore de' giudizi^ si era
sparso per tutta Italia; e il buon Sanudo ^), infaticabile sempre, in
un suo zibaldone di poesie, aveva trascritto parecchi sonetti dell'Are-
tino e in lode di lui ; ed uno tra gli altri in cui Pasquino piangeva
la partenza del suo Pietro, costretto ad andare ramingo per aver osato
dire la verità di vili favoriti nella corte pontificia 2).
Poco dopo il suo arrivo, l'Aretino ebbe la fortuna d'incontrar Ti-
ziano, di stringersi con lui di quell'amicizia, quella camaraderie sin-
golare che doveva durar per la vita, e che allora nella condizione
precaria in cui si trovava potè forse più di tutto decidere l'Aretino
a fermarsi in Venezia. Solo tre mesi dopo egli può mandare al Mar-
1) A proposito del quale in un dispaccio dell'amb. Malatesta s'incontra questa
notizia stranissima (29 genn. 1529): « Il Sanuto è gentilissimo, come ha parlato
« tre volte con una persona lo afrunta che lo impali, et è doto et saria in re-
« putatione in questo stato se non fusse tale vitio. Io solea haver uno servitore
« al quale gli donava tre mozenighi la septimana, ma era obligato correre le
« lanze tre volte. Costui è famosissimo nel mestiero qui. »
') È il cod. marciano CI. IX it. n*» 369, tutto di pugno del Sanudo. Vi si tro-
vano parecchi sonetti dell'Aretino , che avremo occasione di citare , 0 a lui rife-
rentisi; fra' quali il seguente, che dovè esser scritto su' primi del 1526, poco dopo
la partenza di Pietro da Roma, in seguito alla pugnalata di Achille della Volta.
n sonetto è a e. 171 v:
Pasquin quest'anno l'Aretino ha perso
Né per lui è chi dica sua ragione,
Se inteso non sarà da le persone
Il suo dir elegante ornato e terso.
La colpa non è sua, perchè a riverso .
Vide ogni cosa andar senza ragione
E per difetto de un mulo poltrone
Di Roma fu caciato e va disperso.
Per dir la verità d'uno sfratato,
D'uno ch'à facto di suo e... tanto
Che ascese al grado del datariato.
E se la lingua sua rafrena alquanto
E per paura che Achilìe li ha dato
È lo stesso codice in cui il Sanudo ci ha lasciato un primo saggio di biblio-
grafia dei poemi cavallereschi, cfr. Giornale storico dsJla leti, it, V, 181 e sgg.
— 12 —
chese di Mantova il suo ritratto eseguito da Tiziano^): inaugurando
quella società di mutuo profitto, in cui il sommo artista metteva i
suoi stupendi lavori, e l'Aretino la sua abilità, la sua influenza di
giornalista, mediatore co' Principi, dispensiere di fama. Non è a me-
ravigliare che Tiziano subisse così di primo acchito l'ascendente del-
l'Aretino, quando si pensi alla simpatia irresistibile che dovevano
esercitare le sue qualità geniali straordinarie ^) ; quando si tenga conto
del grande sentimento artistico di Pietro — quale molti critici d'oggi,
che vanno per la maggiore, potrebbero invidiargli — ; quando si sappia,
-cosa ignorata finora, che anch'egli aveva esordito come pittore a Pe-
rugia 3). E un pittore mancato poteva allora, meglio che oggi, im-
pancarsi a critico. Ma v'è di più: Tiziano non era ancora stato a
Roma, e quindi doveva avere per lui speciale attrattiva la conoscenza
dell'Aretino, che col suo linguaggio caldo, colorito gli portava le im-
pressioni fresche, vivaci di tante meraviglie dell'antichità e dell'arte
contemporanea ; lo metteva nel segreto della perfezione raggiunta da
que' grandi pittori con cui l'Aretino era vissuto in molta intimità in
casa Chigi, alla corte di Leone e di Clemente. Senza dire che l'Are-
tino nel non breve soggiorno a Mantova aveva potuto ammirare le
grandiose concezioni che Giulio Eomano andava prodigando ne' pa-
lazzi del Marchese: e tutto ciò formava argomento pe' piti geniali
colloqui tra lui e Tiziano. Al quale intanto l'Aretino mostrava come
bisognava fare per imporsi alle grazie de' Principi; e de' dipinti man-
'dati al marchese Gonzaga divisero il premio a metà, perchè Pietro
da buon sozio, appena avuta la sua parte, insistè vivamente perchè
il pittore non fosse dimenticato *).
Quel primo ritratto dell'Aretino, fatto da Tiziano, è andato perduto
con l'altro dell'Adorno ; ma i recenti biografi del Vecellio ^) hanno
creduto che in una tela posseduta dal conte Giustiniani di Padova
possa ravvisarsi « il primo studio del ritratto dell'Aretino che fu sì
accuratamente mandato a Mantova ». — Benché abbrunita e guasta
*) Doc. V. — Cfr. lettera di Tiziano al march. Gonzaga da Venezia, 22 giu-
gno 1527, in Cavalcaselle e Crowe, Tiziano, la sua vita e i suoi tempi (Fi-
renze 1877; I, 284) e Braghirolli, Tiziano alla corte dei Gonzaga in Atti del
ì Accademia Virgiliana, Mantova, 1881, p. 68.
*) Su che vedi qualche buona osservazione del Panzacchi in un suo scritto, del resto
mediocre, premesso al grottesco dramma di Paulo Fambri (P. A., Milano 1887).
') Vegggasi Appendice, I.
*) Doc. VII.
') Cavàlcabelle e Crowe, op. cit., p. 287.
- 18 —
dal tempo e da' ristauri, soggiungono, « rappresenta senza dubbio le
« fattezze dell'Aretino da giovane, in cui spicca il bel naso aquilino,
« l'occhio grande e aperto, la fronte alta e spaziosa, circondata da una
« foresta di capelli spessi e ricciuti. Sotto la folta barba nera vedesi
« il collare della bianca camicia. Indossa una veste con rivolto di
« pelliccia e il giustacuore di colore scuro. »
V'è però un sonetto dell'Aretino, che può forse escludere questa
identità, poiché ci mostra che il suo primo ritratto eseguito da Ti-
ziano lo presentava in atto di gettare l'alloro : e non v'ha dubbio che
si tratti del dipinto mandato a Mantova. 11 sonetto è nel cod. mar-
ciano, CI. XI, it. n° LXVI a e. 435 r, con questa didascalia: « P. Are-
tino pel suo ritratto dipinto che zetta la laurea girlanda. »
Togli il lauro per te, Cesare e Omero,
Che impera tor non son, non son poeta,
Et lo stil diemmi in sorte il mio pianeta
Per finger no, ma per predire il vero.
Son FAretin, censor del mondo altero, , »
Et de la verità nuncio e propheta,
Chi ama la virtù con faccia lieta,
Di Titian contempli il magistero.
Et quel ch'idol s'ha fatto il vicio borrendo
Chiuda per non vedermi gli occhi suoi,
Che anchor ch'io sia dipinto io parlo e intendo.
Federico Gonzaga, io adoro voi
Et il signor Giovanni anchor tremendo:
Ch'altri non c'è che '1 meriti tra noi.
Mentre l'Aretino posava pel suo ritratto, Koma era a fuoco e sacco ;
e dinanzi a questo avvenimento, che lasciava percossa ed attonita tutta
Europa, egli non poteva tacere : interprete della commozione pubblica,
scrisse subito il suo giudizio, il suo articolo, in forma di lettere al
Papa e all'Imperatore ^). A Cesare, magnificando la straordinaria for-
tuna, che gli dava prigioniero il Pontefice, quando ancora non era
« ben rinchiuso il carcere » di Ee Francesco, dirigeva esortazioni alla
clemenza, perchè la rovina non procedesse più oltre, perchè non incru-
delisse nel castigo di cui Dio l'aveva fatto strumento sul suo vicario;
— e al Papa, con una compunzione che fa sorridere nell'Aretino, con-
sigliava di rivolgersi « a Gesìi con i preghi e non a la sorte con le
querele ». Era necessario che « la licentia de i peccati del Clero »
1) Lettere, I, 11-12.
— 14 —
fosse scontata dal sommo pastore ; e Clemente doveva sommettersi a' de-
creti di Dio, che dandolo in mano all'Imperatore gli additava chiara-
mente di congiungere ormai « le voglie papali con i voleri cesarei »,
e uniti rivolgere « la catholica spada inverso il fiero petto de l'Oriente. »
Ma assai più notevoli sono le due composizioni poetiche, una can-
zone e una frottola, che sul sacco di Koma l'Aretino indirizzò al Mar-
chese di Mantova ^). Malgrado le improprietà, le scorrettezze, ed anche
qualche stramberia della forma, la sua canzone ha tratti vigorosi, elo-
quenti di commozione sentita ^) : quella Eoma ingrata, a cui egli stesso
aveva predetto ed augurato lo sterminio, l'Aretino l'amava con cuore
di artista, vi aveva passato i più begli anni della giovinezza, ed ora
airappronderne la vera lacrimevole rovina si sollevava di patriottico
sdegno '^), a sfogare il quale — diceva — sarebbe ben bisognato che
le parole fossero spiedi e archibugi. Egli descrive con efficacia, benché
un po' di maniera, lo spettacolo orrendo della città saccheggiata, chiede
atterrito a Dio come mai abbia permesso tante nefandezze contro i suoi
santuari, le sue vergini; e in un'apostrofe a Carlo V lo scongiura
perctìè richiami le sue barbare schiere, rialzi la Koma de' Cesari e
pensi infine a pacificare l'Italia e il mondo, acciò tanto sangue sparso
non abbia a gridare vendetta ne a sollevargli addosso tutta l'Europa
in uno sforzo estremo e disperato contro la sua strapotenza. — La
canzone termina mestamente col prostrarsi sulla tomba di Giovanni
de' Medici, dopo la cui morte Roma non fu più nostra.
Chi lo direbbe? Mentre l'Aretino piange ed invita a piangere l'ec-
cidio della commun patria, più miserando della rovina di Gerusa-
lemme, di Troia, di Cartagine, e la sciagura di tanti incliti spiriti,
fuggiti da Roma a mendicare per l'Italia ; insieme all'elegia commossa
1) Doc. IV, V.
') Freddissima e scolorita al confronto, checché dica il Virgili, op. cit, p. 178»
è la descrizione del sacco che fa il Berni neìV Orlando Innamorato.
') Nel cit. cod. Sanudo, a e. 193 r, si ha anche traccia di poesie dell'Aretino
contro il Cardinal Pompeo, dopo l'insulto dei Colonnesi:
Visto ho i sonetti di Pietro Aretino
Con l'usato suo stil sdegnoso e intento
A dir le meraviglie e '1 tradimento
Del Cardinal Pompeo fatto assassino,
Che messo ha Cristo e i suoi santi a bottino,
E '1 lume della fede ha quasi spento,
Del che Sciarra Colonna hor sta contento
Del suo parente e d'ogni suo vicino
— 15 —
e' dà fuori la pasquinata insolente. In tanto disastro pubblico l'Are-
tino presenta il suo compare sempre gaio e mordace : e fa raccontare
a Pasquino il brutto quarto d'ora che anch'esso ha passato a Koma.
Capitato tra l'unghie degli spagnuolij Pasquino ne ha sofferto di tutte
le sorte da quegli scherani che volevano a ogni costo cavargli denari
dal... corpo; e s'è salvato come d'incanto, appena da un suo forziere
nascosto per celia ha tirato fuori i sonetti del profeta Aretino. Tutti
anzi allora gli hanno fatto festa, ma Pasquino poco fidandosi di quella
razza d'amici è scappato di soppiatto: ed eccolo ora a sfogare il suo
umore contro l'esercito della lega, gentaglia raccogliticcia, tolta alle
vanghe, debellatori di galline e ladri di villaggi, che lasciarono as-
sassinar Roma, seguendo a rispettosa distanza i lanzichenecchi e gli
spagnuoli, senza osar loro precludere la via, o coglierli e massacrarli
mentre erano intenti alla preda dell'infelice città. Pasquino non dimen-
tica il Giberti, il nemico dell'Aretino, il maldestro politico e consigliere
di Clemente e chi sa quant'altre doveva dirne, descrivendo il sacco
di Roma ^), ma nel codice marciano la frottola Fax vobis è incompleta.
Pare fosse stampata in Siena: e sappiamo da un amico e conterraneo
dell'Aretino '^) che il Papa nel ricevere quella pasquinata se la lasciò
piangendo cadere di mano « con esclamare: è possibile che si patisca
« che un Pontefice si laceri in sì crudel maniera? Confessamo il torto
« fatto a l'Aretino, e il comportammo per importarci più Gian-
« matteo, ministro de i nostri secreti che lui, che in luogo di amico e
« non di servitore lo tenevamo » E già Clemente, nelle ore ango-
sciose passate in Castel S. Angelo, mentre Roma era devastata, aveva
deplorato — se si ha a credere a Sebastiano del Piombo — che
l'Aretino non gli fosse più a fianco, e non avesse potuto più in tempo
*) Una descrizione sguaiata ma originalissima del sacco di Roma è nei Ragio-
namenti, seconda giornata della 2* parte (ediz. Cosmopoli, 1660, p. 262 e sgg.);
V. Appendice, II.
^) Leu. sor. al sig. P. A., I, 409: Girolamo Montaguto scrive da Roma 5 di-
cembre 1527 (è evidentemente errata nella stampa la data del 1537): « Messer
« Pietro, io son vivo e non lo credo, sì mi parse esser gettato fuora di una fi-
« nestra, essendo d'Arezzo, nel darsi a N. S. il Pax vobis che la persuasione de
« maligni più che lo sdegno vi ha fatto uscir de la penna, stampato per quel
« che si pensa in Siena. E così vituperosa novella oimè che piangendo se lo è
« lasciato cader di mano Sua Beatitudine ecc. Per Dio che se bene sono decano
« de i camerieri non ardisco e tremo andandogli dinanzi ; sì lo avete acorato in
« la vendetta di sì strana manifattura, del che se ne dole con cotesta Illustris-
« sima Signoria di mala sorte, e piaccia a Cristo che il tutto si risolva senza
« vostro danno e dispregio. »
— 16 —
sentire il libero giudizio di quel gazzettino ambulante : e tra una folla
di secretari che avevan perduto la testa, non sapendo come scrivere
una lettera opportuna all'Imperatore, Papa Clemente aveva rimpianto
la penna facile e brillante, da giornalista, dell'Aretino ^).
E qui a proposito della frottola Fax vohis credo appormi al vero
ritenendo che il famoso sonetto del Berni contro l'Aretino dovett' es-
sere composto in questa occasione, come una replica giustamente san-
guinosa allo sguaiato pasquillo che aveva tanto accorato il Pontefice.
Verrebbero così interamente rimosse le parecchie difficoltà incontrate
dal Virgili nel riporre qualche anno più tardi questo sonetto, cioè
nel 1531 2). Nel qual anno, come si vedrà in seguito, l'Aretino s'era
riconciliato col Papa e col Giberti, e al contrario l'aveva rotta col
Gonzaga, a cui il Berni nella sua rovente invettiva avventa una frec-
ciata pungentissima ^). Ora l'Aretino nel 1527 non solo era il favo-
rito del Marchese, ma a lui precisamente aveva intitolato quel giu-
dizio mordace per cui il Papa aveva fatte delle rimostranze, nonché
la canzone sul sacco di Koma, e fors' anche quella stessa frottola, che
certo gli aveva inviato e il Marchese trovò « piacevolissima ». Dal
sonetto del Berni è facile ravvisare che egli insorge in difesa del Papa
e del Datario ingiuriati nella loro disgrazia;
Il Papa è Papa e tu sei un furfante
non vuol già dire, come stiracchiatamente è costretto a interpretare
*) Leti. scr. alVA.y I, 11-12: « Son doi giorni — scrive Fra Bastiano il 15
€ maggio 1527 — che Papa Clemente, mangiando in castello piti presto pan de
€ dolori che vivande magnifiche, disse con un sospiro che si fece sentire: Se
« Pietro Aretino ci fusse stato appresso, noi forse non saremmo qui peggio che
« prigioni, però che ci avrebbe detto liberamente ciò che si diceva in Roma de
e lo accordo cesareo trattato per il Feramosca et il vice Re di Napoli, tal che
€ noi non avremmo posto la nostra buona volontà in mano de tali. * — E più
tardi: « Sua Santità ha fatto imporre a tutti i dotti che faccino una lettera a lo
€ Imperatore, recomandando a la maestà sua Roma, ogni dì saccheggiata peggio
€ che prima; e il Tebaldeo insieme con gli altri serratisi per tal cosa in gli studi
€ hanno fatto presentare le loro lettere a nostro Signore, il quale lettone quattro
€ versi per una le gettò là con dire che da voi solo era materia tal suggetto. >
') Virgili, op. cit., p. 247 e sgg. — Cfr. la sua edizione (Firenze 1885) delle
Rime, poesie latine e lettere del Berni, p. 62.
') Sul Marchese di Mantova fa anzi un bisticcio osceno, e nel 1531 Federico
Gonzaga era già duca, ond'è men plausibile ancora la supposizione del Virgili.
Cfr. il doc. XLIV che prova come sui primi di quell'anno l'Aretino avesse già
perduto la grazia del principe mantovano.
— 17 —
il Virgili, assegnando il sonetto al 1531, che l'Aretino restava sempre
un furfante, malgrado la deplorevole indulgenza di Clemente nel ri-
conciliarsi con lui ^). È assai più naturale, mi sembra, intendere : il
Papa, malgrado le sue disgrazie ed anche i suoi errori, è sempre
Papa, e tu resti eternamente un figuro. Così gli altri versi:
Giovammatteo e gli altri ch'egli ha presso
Che per grazia di Dio soh vivi e sani
convengono mirabilmente alle traversie passate dal Giberti nel 1527,
che, dopo il sacco, dato in ostaggio agli imperiali, corse pericolo di
esser scannato dalle feroci soldatesche, e riuscì per miracolo nel no-
vembre a ricuperare la libertà ^). Noi sappiamo che la frottola Pax
vobis non fu conosciuta a Roma prima del dicembre, onde nella sua
replica il Berni poteva ben dire con gioia che il suo padrone per grazia
di Dio era vivo e sano a dispetto dell'Aretino ^).
Si vorrà forse obbiettare che costui ne' primi tempi a Venezia non
poteva aver ancora quella corte di
leccapiatti
BardasBonnacci, paggi da taverna
a cui accenna il Berni? Ma l'Aretino, come non aveva tardato a co-
noscer Tiziano, così più facilmente potè mescersi alla società di tutti
i buontemponi e cattivi soggetti che pullulavano in Venezia, e de' quali
*) Scrive il Virgili che « in quest'anno 1531 qael verso potrebbe avere anche
« questo significato terribile (!!): — Il Papa di cui tu vanti la protezione, per
« non essersi vergognato di riconciliarsi con te, sarà sempre ciò non ostante Papa. »
') Gkegorovius, St. della città di Boma nel M. E., trad. it., Vili, 726.
') Se nel codice marciano il Pax vobis fosse completo, potremmo forse trovarvi
anche la ragione di que' versi del sonetto del Berni, allusivi alle sorelle dell'Are-
tino, pretese meretrici (cfr. Luzio, La famiglia diP. A. in Giornale storico della
letta., voi. IV, p. 369):
Di queste, traditore.
Dovevi far le frottole e novelle
E non del Sanga che non ha sorelle.
Cfr. Virgili, op. cit, p. 248. — Ho messo in corsivo in que' versi la parola
frottole, come un altro lieve indizio che la replica del Berni era ad una frottola
dell'Aretino.
Lwzio — Pietro Aretino 2
— 18 —
diventò subito il capo naturale. Si è visto che dal Marchese di Man-
tova aveva ricevuto in dono l'occorrente per fare ricchissime vesti; ed
eran proprio quelle che il Berni, con pittoresca espressione, dice:
accattate e furfantate
Che ti piangono indosso sventurate;
le stesse probabilmente con cui l'Aretino posò pel suo ritratto dinanzi
a Tiziano.
III.
Fra gli artisti che il sacco di Roma aveva disperso per l'Italia, uno
de' più riputati, Sebastiano del Piombo, era riparato a Venezia ; e l'Are-
tino che gli era amicissimo adoperò anche per lui i suoi buoni uffici
di mediatore presso il Marchese di Mantova. L'Aretino, il Tiziano e
il Sanso vino s'erano già costituiti in quel triumvirato che li rese in-
separabili per la vita.
I piccoli doni mantengono l'amicizia, e l'Aretino si ricordava al solo
protettore che allora avesse, il marchese Gonzaga, con presenti di vetri
di Venezia « bellissimi e di foggia molto nova » i); e come aveva
fatto pe' ritratti di Tiziano, così prometteva di procurargli dal Sanso-
vino « una Venere sì vera e sì viva, che empie di libidine — scri-
veva — il pensiero di ciascun che la mira » 2), e da Sebastiano del
Piombo un quadro di bella invenzione, fuori de' consueti soggetti sacri,
senza cioè che vi fossero « hipocrisie, ne stigmati, ne chiodi » ^). Dal
suo canto il Marchese di Mantova sovveniva a' bisogni dell'Aretino,
se non con grande larghezza, con molto cortese premura: e pe' ritratti
*) Doc. VI.
«) Lettere, I, 13; doc. VITI.
') Così le prime edizioni delle Lettere; in quella di Parigi 1609, che general-
mente seguiamo, la frase è un po' smorzata, sostituita da quest'altra « pur che
< non ci sien su chietarie. »
— 19 —
dei Tiziano mandò a donargli una ricca veste; a una domanda di ven-
ticinque scudi rispondeva col darne cinquanta ^). Ma ci voleva ben
altro per uno spensierato scialacquatore come Pietro: e vedendo che a
Venezia gli affari non s'avviavano ancora, come avrebbe desiderato,
trovando nel Gonzaga la stessa persistenza a schermirsi dal prenderlo
in corte, l'Aretino formò il progetto di recarsi in Francia. Da Gio-
vanni de' Medici era stato già presentato a Re Francesco, che gli aveva
fatto la più cordiale accoglienza, e si era doluto più tardi col grande
capitano che non gliel'avesse di nuovo condotto 2) ; e l'Aretino pensò
che, richiamandosi alla memoria del re liberale e magnanimo, non gli
sarebbe stato difficile ridestarne il favore, e trovare oltralpe quella for-
tuna che gli sfuggiva in Italia.
Un mese dopo da che aveva scritto con tanto ossequiosa deferenza
i suoi giudizi e i suoi versi per l'Imperatore, l'Aretino indirizzò per-
tanto un'epistola al Re di Francia, in nome d'Italia. Ci è conservata
anche questa dal cod. marciano CI. XI it. n<* LXVI ^): ed è la cosa
4) Doc. VII.
') Leti. scr. al sig. P. A., I, 6.
') A carte 435 r e sgg. — È uno de* Lamenti cosi in uso nella poesia poli-
tica del tempo:
Italia afflitta nuda et miseranda
Ch'or de' Principi suoi stancha si lagna
A te, Francesco, questa cartha manda.
Offesa m'hanno i miei più ch'Alamagna,
Gli miei m'hanno ferito il petto tristo
Et di lor mi doglio io più che di Spagna.
Et però dopo il scellerato acquisto
Di Carlo a te la tua divota corre
Specchiandose ne l'oltraggiato Christo
Vien per Christo e per me ch'ogniun ti brama
Et se indugi non metti al degno intento
Verrai, vedrai e vincerai
Che se avvien che tu venga a liberarlo
Dirà Pietro contento inanci a Dio:
Vado a Roma domane a incoronarlo
Son d'ossa in Roma i borgi ancho depinti,
Fatto è stalla di Dio l'excelso tempio.
Sono in catene i degni huomeni avvinti
Termina con lodi al conte Guido Rangoni e al Gonzaga, a cui l'Aretino mandò
subito copia di quest'epistola (doc. VI).
— 20 —
più infelice e tediosamente prolissa che si possa immaginare. L'Italia
vi espone in una serqua interminabile di sciatte terzine i suoi dolori,
le sue miserie, dipinge al Cristianissimo lo stato desolante di Roma,
inveisce contro le scellerate vittorie di Carlo V, e invoca soccorso dal
Re prode e cavalleresco, suo ultimo rifugio. — Ma fra tanto incal-
zare di avvenimenti non si poteva badare all'Aretino : non era giunto
il tempo in cui Francesco I e Carlo V si sarebbero disputato anche
costui, l'uno tentando di legarlo con le catene d'oro, l'altro conqui-
standolo con assegni di annue pensioni. Malgrado dunque il suo cam-
biamento improvviso dalla parte imperiale alla parte francese, l'Are-
tino nulla ottenne con la sua epistola, e vide bene che gli bisognava
restare a Venezia, e attaccarsi al Gonzaga che solo mostrava di vo-
lerlo efficacemente proteggere.
Per conciliarsene sempre più la grazia formò allora un grandioso
progetto: nient'altro che di accingersi a comporre un poema cavalle-
resco da far riscontro b\V Orlando Innamorato e al Furioso, e nel
quale tra le avventure d'armi e d'amori inserire i fasti di casa Gon-
zaga, che avrebbe trovato così il suo Ariosto. La Marfisa, quale ci
è rimasta, non è che un aborto, un informe abbozzo che non permette
neppure di scorgere le linee del primitivo disegno ; ma delle idee am-
biziose dell'Aretino nell 'intraprenderla abbiamo tuttavia documenti si-
curi. Fino dal settembre del 1527 vediamo il Marchese di Mantova
ringraziar caldamente l'Aretino del principio inviatogli della Mar-
phisa disperata (così allora pensava intitolarla): e nelle successive
lettere ^) è una stucchevole ripetizione delle più enfatiche ed esagerate
lodi per i saggi del poema che via via riceveva. Il Marchese era fe-
lice dell'onor grande che l'Aretino gli faceva nel comporre quest'opera,
da cui pensava sarebbe venuta immortai fama ad entrambi, e non si
saziava di sollecitarne le primizie, e per risparmiare al poeta la noia
del trascrivere aveva stabilito apposta un abile amanuense. Perchè poi
l'Aretino avesse il materiale storico, su cui ricamare le sue poetiche
invenzioni adulatorie, il Marchese fece compilare da un vecchio precet-
tore il sommario della genealogia di casa Gonzaga, con l'elenco cioè
degli antenati de' quali nella Marfisa si sarebbero intercalate le lodi
e celebrata l'apoteosi ^).
Di quanto la Marfisa conteneva a onore e gloria de' Gonzaga nelle
stampe frammentarie in tre canti al più, che l'Aretino diede del suo
*) Doc. VII, Vm, IX, XI, XII, XX.
•) Dot. XV.
— 21 —
poema, è disparsa ogni traccia; però che Pietro disgustatosi in breve
col signore di Mantova lasciò a mezzo l'opera, e la parte compiuta
intitolò a un nuovo padrone più promettente, il marchese del Vasto ^),
cambiando appena qualche verso nella sua dedica ampollosamente
adulatoria. Una stampa popolare, di cui ebbi altra volta ad occu-
parmi 2), basta tuttavia a stabilire questo fatto curioso che qualifica la
servile volubilità dell'Aretino. È noto che la Marfisa, per quanto può
raccappezzarsi da queir assordante guazzabuglio, prende le mosse dalla
morte di Rodomonte — a meglio simulare la continuazione dell'Ariosto,
che era nella mente dell'autore — e ci dà per prologo meraviglioso le
prodezze e le prepotenze che fa Rodomonte anche all'inferno. Quest'epi-
sodio strampalato ottenne immediatamente una certa popolarità, e ne
troviamo subito una stampa veneziana del 1532 ^), più tardi un'altra
di Fermo (1583), tutte due senza il nome dell'Aretino, e la seconda
presentata anzi come « inventione poetica di Christoforo Scannello detto
il cieco da Forlì ». Orbene è la prima appunto di queste stampe, che
ci conserva l'introduzione del poema, quel « principio, cioè, della
Marfisa disperata » che piacque tanto al marchese di Mantova.
Esposto l'argomento col sacramentale « Canto la donna invitta ecc. »
l'Aretino continua:
Ma la mia mente innamorata et vaga
Di celebrar Thonor del tempo antico
Nulla sa dir se prima non s'appaga
Ne l'util gratia vostra, Federico
0 magnanimo duca di Gonzaga,
Solo della malconcia Italia amico,
Doveria poi che in me non può il valore
' Aiutarmi ciascun a farvi honore.
Et perchè in questa età malvagia et fella
Unico splende '1 vostro nome pio
Sì come fé l'Egiptia età novella (sic)
Che si credette che il Sol fussi Dio,
Et non vedendo altra cosa più bella
Quello adorò, così proprio ho fatto io
Che non vedendo altro di ben fra noi
L'anima inchino solamente a voi.
1) Cfr. Virgili, op. cit, p. 242; e nel Fanfuìla delia Domenica, Anno IV, n"' 4.
^) L' Orlandino di P. A. in Giornale di filol romanza, III, p. 70.
') Che s'intitola: Opera yiova del superbo Rodomonte Be di Sarza che da
poi la morte sua volse signorizare Vinferno. In Vinetia, per Guilielmo da Fon-
taneto di Monferrà, ad instantia de Hipolito detto il Ferrarese, MDXXXII (Bibl.
Corsinìana).
— 22 —
Date favor dunque alla penna mia
Che lodar brama et con fervente zelo
Eì giemolo e quél ceppo onde usci pria
La vostra stirpe et per voi sbalza in cielo,
Ch'ogni chiara d'altrui genologia {sic)
Vince Thonor nel sempre verde stelo.
Ma da voi mi toglie hor l'alto Ruggiero
Che è delle spoglie del nemico altiero,
e di cui descrive l'ingresso trionfale a Parigi ^).
Ignorando quant'era passato fra l'Aretino e i Gonzaga per la com-
posizione della 3farfisa, la prima volta che parlai di questa stampa la
credetti uno de' tanti rabberciamenti popolari; e la dedica al Duca di
Mantova, un'arbitraria sostituzione di qualche guastamestieri, a cui
premeva ingraziarsi l'inclito principe. Ma ora è, parmi, evidente che
questa stampa ci rappresenta invece i due canti genuini della Marfisa,
quali furon dapprima scritti dall'Aretino e da lui inviati al Gonzaga.
Per le copie che questi ne aveva ordinato da amanuensi, nulla di più
naturale che fossero pubblicati anche contro la volontà dell'Aretino
stesso 2), quando cioè per le relazioni bruscamente troncate col signore
di Mantova (1531) egli aveva messo gli occhi su nuovo mecenate, a cui
dedicare il poema con relativa genealogia.
Dalle stanze recate si è visto di che misera broscia andasse in solluc-
chero il marchese Federico : eppure mentre l'Aretino gli ammanniva
di quella roba non v'era favore, di cui in pari tempo sollecitasse il
*) Nella Marfisa dedicata al Del Vasto, l'Aretino, aggiunta di nuovo una
stanza in onore del D'Avalos, rabbercia alla meglio questa stessa dedica fatta
pel Gonzaga:
Dovrebbe poi che in me non ò '1 valore
Aiutarvi ogni stile a farvi honore.
Dovrebbe il mondo quasi a fida stella
Il cor sacrare al vostro nome pio,
A guisa de l'egiptia età novella
Che bramando offerir gl'incensi a Dio
Adorò il sol, poi che luce piìi bella
Non vide in cielo, e ciò proprio ho fatto io ...
con quello che segue.
') Ossia, secondo il Veniero, in Ancona « per altrui ignorantia et maligna in-
vidia » e con un'infinità di errori (cfr. Virgili, Fr. Berni, p. 243). È da questa
prima edizione oggi sconosciuta che deve aver avuto origine la ristampa popolare.
— 23 —
Gonzaga, che questi non gli avesse prontamente accordato. Per racco-
mandazione di Pietro, fece prosciogliere da un'accusa di omicidio, e
accettò al suo servizio, un Taddeo Boccacci da Fano, soldato già alievo
di Giovanni De' Medici, e come fratello d'armi perciò con l'Aretino^);
infine... che più? Il Principe non sdegnò di prestarsi poco meno che da
mezzano al suo poeta. — Stando a Mantova nel febbraio del 1527,
Pietro s'era invaghito d'una Isabella Sforza: e in osceni sonetti aveva
celebrato quest'amore come un avvenimento, perchè tutt' immerso nei
vizi nefandi dell'epoca egli se la faceva poco con donne e preferiva altri
diletti erotici 2). Infatti pare che quest'amore per l'Isabella poco du-
rasse, 0 che per lo meno in Mantova l'avesse colpito del pari un bel
giovincello, che i documenti indicano semplicemente come « figliolo del
Bianchino ». L'Aretino si aprì liberamente col Marchese per queste
passioni tormentose, che gli avevan destato due suoi sudditi, dell'uno
e dell'altro sesso; e il Gonzaga mostrò tuttala miglior volontà di com-
piacerlo, affannandosi dei travagli amorosi del suo poeta, e desideroso
di lenirli perchè la Mar fisa disperata non ne fosse interrotta e per-
1) Doc. IX e X.
') Nel più volte cit. codice marciano a e. 434 v si hanno appunto questi due
osceni sonetti dell'Aretino, del primo de' quali ecco il principio e la chiusa:
Laudate pueri dominum, laudate
Hormai putti messer domenedio,
Poichò Isabella Sforza ha fatto ch'io
Ho car che l'uscio drieto mi serrrate
Et vo' mandar il bando
Come di novo è fatto l'Aretino
Servus servorum al sesso feminino.
Sullo stesso motivo è intonato anche il secondo:
Sia noto a ogni persona et manifesto
Come Isabella Sforza ha convertito
L'Aretin da ch'ei nacque sodomito,
Che San Francesco non potria far questo.
A ventun di febraro nel bisesto
Fu '1 gran miracol ch'havete sentito
In Mantova, e se n'è '1 mondo stupito
Ch'ella habbia fatto tal cosa sì presto...
Sì che in timpano et organo laudate
Isabella divina che a staffetta
V'ha dal vostro nimico liberate.
— 24 —
venisse presto « al laudato fine », ne egli avesse a restar privo del pia-
cere che provava per le composizioni dell'Aretino. Non risparmiò dunque
pratiche e tentativi per trarre a disposizione di Pietro gli oggetti delle
sue pene; ma il figliolo del Bianchino non parve troppo lusingato del-
l'onore, ed oppose invincibile renitenza, davanti alla quale il Marchese
non trovò « giusto né onesto il comandargli » ed insistere : di che si
scusava coli' Aretino, pregandolo ad accettare il suo buon animo!...
E basti aver sfiorato, senza rimestare più oltre, questa vergognosa com-
piacenza del Principe per 1 Aretino: i documenti parlano, mi sembra,
anche troppo chiaro ^).
IV.
Per l'anno 1528 l'Aretino pubblicò, come d'ordinario, il suo giudizio;
e il marchese Gonzaga nel riceverlo scriveva d'averlo trovato « una
prophecia dilettevole », né dubitava si sarebbe avverato come quello
dell'anno precedente 2). Doveva essere però assai più temperato e rive-
rente verso il Papa e la sua corte, perchè l'Aretino non aveva rinunziato
al desiderio di riamicarsi Clemente VII, e di quei giorni pregava il
marchese di Mantova a interporsi presso Sua Santità col mezzo di mon-
signor del Monte e del fratello cardinal Ercole Gonzaga. Evidentemente
a tali pratiche concilianti l'Aretino era indotto dalla sua condizione
non prospera a Venezia, dove era sempre costretto a vivere alla giornata,
e a far assegnamento soltanto sul signore di Mantova. I contributi del
quale per la vita chiassosa e sregolata che avrebbe voluto condur
l'Aretino erano, ripeto, povera cosa : e Pietro pensò di tentare un bel
colpo, una lotteria da cavarne parecchie migliaia di ducati. Come fosse
organizzata questa lotteria non appare; dovevano probabilmente en-
trarvi a part^ compar Tiziano, il Sansovino ed altri amici artisti : e il
Gonzaga concesse volentieri all'Aretino la patente necessaria per farla
*) Doc. XII, XIII, XIV, XV.
•) Due. XIV.
— 25 —
in Mantova, benché non si nascondesse la difficoltà di ottenerne così
vistosa somma come Pietro sperava ^). Ad ogni modo questi ne avrà
pur tratto un qualche profitto, con cui tirare innanzi quell'anno e sup-
plire a' sussidi del Marchese che vennero improvvisamente a mancargli.
Una strana interruzione si produce in fatti ne' rapporti di Federico
Gonzaga con l'Aretino: cessa di scrivergli, non mostra neppur più di
curarsi del poema a cui prima smaniava di veder raccomandata la fama
immortale della sua casa. Il Marchese fa splendidi doni a Tiziano 2),
fors' anche al Sansovino da cui ebbe finalmente la statua promessa di
una Venere attraentissima ^) ; ma per il loro amico più nulla. È vero
che il Marchese si faceva scusare più tardi, allegando che per otto mesi
non aveva avuto entrate dal suo stato*); ma l'Aretino era sdegnato che
non si rispondesse nemmeno alle sue lettere, che non si tenesse più
alcun conto della Marfisa.
Privato del più valido appoggio, Pietro cercò nuovamente d'entrare
in grazia del Ke di Francia; e aiutato dal conte Guido Rangoni questa
volta ne' suoi tentativi ebbe migliore successo. L'ambasciatore francese,
residente a Venezia, prese a proteggerlo ; e con più fondamento potè
1) Doc. IX, XI, XII.
*) Riporto questa lettera, sfuggita al Braghirolli, che scrive {mem. cit.) non
aver trovato del 1528 alcuna notizia sulle relazioni fra Tiziano e i Gonzaga:
< Bastavame, IH'"» et Ex"»" Signor, Signor mio obser.™», haver per molte
et diverse altre experientie conosciuta la grandezza de la munificentia et libera-
lità de la S. V. Ili""*, senza che di novo la me havesse più obligato et devincto
cum così nobel et honorevol presente, non indegno invero a cadauno alto et su-
blime principe, da me ultimamente cum ogni submissione et reverentia recevuto
insieme cum le humanissime et benignissime littere sue, quale ho collocato nel
centro del core mio. Et perchè so esser noto a V. Ill"^' S. la mia profesione esser
aliena di formar parole, che quanto più mi extendesse in referirli quelle immortai
gratie se conveneria seria cum lei un perder tempo et darli più presto noglia che
altramente, sapendo la innata magnanimità et libéralissima natura sua, la su-
plico si degni accettar el mio bon animo et promptissirao desiderio di servirla
sempre cum ogni mio potere in tutte quelle cose che V. 111°»* S. harà piacer di
comandarme, et io da per me cognoscerò doverli esser grate et accepte : alla qual
hurailmente mi aricomando.
In Venetia a i IJ di marzo 1528.
De V. Ili'"» S.
Servitor et schiavo
Ticiano. »
') Doc. XV.
♦) Doc. XVII.
— 26 —
l'Aretino trattare di andarsi a stabilire in Francia. Oh appena avesse
inesso 1 piedi fuori d'Italia n'avrebbe dette delle belle sui Principi no-
strani « che non haveano voluto cognoscerlo et aiutarlo » : si sarebbe
ben sbizzarrito sul loro conto, ed avrebbe fatto ridere re Francesco alle
loro spalle, senza dir altro che la verità. Diventato tutto di parte fran-
cese, l'Aretino affidava all'avvenire, che si prometteva brillante nella
corte di re Francesco, le sue vendette contro gli sconoscenti Principi
italiani ; e tra questi non sarebbe stato risparmiato neppure il Marchese
di Mantova, della cui freddezza aveva ormai troppo a dolersi. — Pub-
blicando nel 1529 il suo solito giudmo dell'anno, pieno di elogi per il
Rangone e l'ambasciatore francese che lo favorivano, Pietro scriveva
sdegnosamente a Jacopo Malatesta, agente mantovano a Venezia, che lo
mandasse se voleva al Marchese, ma quanto a se s'intendeva già sciolto
da ogni servitù, da ogni impegno con chi lo lasciava morire di fame ;
ne avrebbe più finito l'intrapreso poema. Padroni a Pietro Aretino non
sarebbero mancati : e così rinviava senz'altro il sommario della genea-
logia de' Gonzaga che aveva ricevuto per la Marfisa ^). Ma quel che è
peggio, sembra che l'Aretino avesse già incominciato a dir male, nel
suo giudmo, della corte mantovana, cioè di Carlo da Bologna ^\ di un
fra Benedetto, ed altri confidenti del Marchese, a' quali imputava forse
l'avarizia e la taccagneria che gli si usava ; e l'ambasciator Malatesta
ritenne opportuno che ad evitanda scandala si dovesse cercare di rab-
bonir l'Aretino. Sarebbe stato un peccato se fosse rimasto incompiuto
quel poema in cui non era solamente esaltato alle stelle il Marchese,
ma anche rammentato con onore qualcuno dei più eminenti della corte,
come il castellano G. J. Calandra ^). Parve infatti che l'Aretino si ac-
chetasse, ma in breve vedendo che lo si pasceva di belle parole senza
0 Doc. XVI
') Si veggano di costui alcune lettere umilissime che scrive all'Aretino (op. cit,
I, 34 e sgg.) tutto affannato a placarlo, e a protestargli la sua devozione e i
buoni offici che ha fatto sempre per lui col Marchese. Lo prega a scusare se non
gli si mandan subito i danari che chiede, perchò — dice — « qua stemo molto
€ male, ma la importanza vostra è tale che se lascierà ogni altra cosa perchò
€ la conosca il buon conto se fa de lei. » (Lett. 3 luglio 1529). Più tardi il Bo-
logna procurava all'Aretino un « disegno de Diana » di mano di Giulio Pippi
(lett. 25 ott. 1529). — Il gran segreto dell'Aretino fu sempre questo di essersi
procurato a fianco de' Principi siffatti agenti servizievoli, allacciati a lui dalla
paura e dall'ambizione. E di Carlo Bologna egli fece onorevol menzione nel Ma-
rescalco, Atto V, se. III.
') Doc. XVII. — Sul Calandra v. Bettinelli, Delle Lett. e delle Arti mantov.,
p. 106.
— 27 —
nulla di sodo, e' riprese le sue maldicenze contro Mantova, tantoché
con Tamb. Malatesta ebbe una vivissima scena, di cui questi in un suo
dispaccio dà interessante ragguaglio 1). L'Aretino, in casa dell'amba-
sciatore francese, presenti il Kangoni e un inviato fiorentino, è là
che sbriglia il suo umore sarcastico contro la corte mantovana: e il
Malatesta arrivando si sente motteggiare dai tre personaggi che hanno
ascoltato, divertendosi un mondo, la tirata dell'Aretino. Sorge allora un
fiero battibecco, e Pietro risponde impudente che ha detto la verità,
che sarà per dirne di peggio, come meglio gli pare e piace, senza
rispetto ne paura d'alcuno. E l'ambasciatore a ribattergli recisa-
mente che avrà a pentirsene, che dal Marchese può aspettarsi tal
lezione come non ha mai avuto, ne sarà sicuro neppure in para-
diso. Gridano un pezzo, finche gli astanti intervengono avviando un
altro discorso; e l'Aretino, malgrado la sua spavalderia, resta tutto
impaurito dalle « parole crudeli » dell'ambasciatore : e quando quésti
esce, gli va dietro umile e sommesso a pregarlo che non scriva nulla
dell'occorso al Marchese, lo compatisca se ha ecceduto per amore, per
gelosia de' favori del principe, per dispetto di non vedersi compensato
come merita della grand'opera incominciata , e finisce promettendo
che sarà in avvenire piìi riguardoso e prudente, e anche in Francia non
parlerà se non onorevolmente di Federico Gonzaga. In quella lettera
del Malatesta v'ò il più bel ritratto morale dell'Aretino: petulante
sfrontato che affila la lingua e la penna contro il padrone di ieri
che non lo paga più ; e ad un'intimazione minacciosa si raumilia, si
accovaccia chiedendo perdono. Come si vede, egli era già in auge,
andava liberamente per le case degli ambasciatori, accarezzato e ascol-
tato, si vantava di avere una certa influenza nel metter male fra un
principe e l'altro: e quand'anche questi si facevano a minacciarlo
sentivano tuttavia che era meglio tenerselo amico e partigiano.
Il Malatesta malgrado la promessa riferì al Marchese quanto era
passato con 1-' Aretino, e indi a poco avuta occasione di andare a Man-
tova ebbe dal Gonzaga un'ambasciata tale da dover fare rinsavire
del tutto messer Pietro. Come confessava più tardi egli stesso, il
Marchese per quelle due parole^ l'aveva semplicemente fatto minac-
ciare di torgli la vita 2); e l'Aretino mogio, mogio alla fiera ammo-
nizione portatagli dal Malatesta rispondeva assicurando che non
avrebbe mai più dato motivo di disgusto al principe mantovano. AI
1) Doc. XVIII.
-) Doc. XXV.
— 28 —
quale s'era già direttamente prosternato i), pentito e supplicante,
promettendo di riprendere il poema e inviandogliene nuovi saggi : e
il Marchese lo aveva di nuovo raccolto benigno, non nascondendo che
gli piaceva essere lodato, specialmente da ingegni insuperabili come
l'Aretino, ed esortandolo per suo bene a persistere nell'opportuno rav-
vedimento 2). La pace fu celebrata non solo col Marchese, ma altresì
co' suoi cortigiani, felici di non aver più a temere della maledica penna
dell'Aretino: e questi potè pompeggiarsi pel dì àelVascensa « d'una
« roba di velluto nero, fregiata di cordoni d'oro, con la fodra di
« tela d'oro, d'un saio e d'un giubbone di broccato », consegnatigli
dal Malatesta a nome del principe Federico, oltre a delle « calze d'oro
e di seta cremisi » di cui regalò una sua comare gentilissima. Quel
dono l'aveva fatto tutto ringalluzzire, non tanto « per la ricchezza
sua », quanto — scriveva al Marchese — perchè un così nobil signore
l'avesse giudicato « degno di portare gli abiti dei Principi ^) ». Di
simili doni ne riceveva ormai da più parti: il marchese di Musso gli
mandava nel giugno del 1529 cento scudi; altri scudi, un'impresa e
un saio di raso bianco poco dopo gli faceva avere il conte Guido
Rangoni *).
Per gareggiare di cortesia col Gonzaga, l'Aretino, che avendo
sempre più esteso le sue relazioni artistiche contava fra gli amici anche
il meraviglioso intagliatore Valerio Belli da Vicenza, pensò di fargli
eseguire un pugnale di finissimo e ricco lavoro da offrire al Marchese
di Mantova: e non ci vollero meno di sei mesi per condurlo a ter-
mine. Nell'ottobre del 1529 era spedito dall'Aretino per mezzo di un
suo servitore ^) : e Federico dello splendido presente ringraziava am-
mirato, non mancando di ricambiarlo con « alcune cose » che l'Are-
tino avrebbe goduto per amor suo ^). Maggior dono avrebbe fatto
1) Doc. XIX.
') Doc. XX, e fra le Leti. scr. al sig. P. A. un' altra del Marchese in data
1 giugno 1529 (I, 17).
') Lettere, I, 15: al Duca {sic) di Mantova, da Venezia 11 maggio 1529.
*) Lettere, I, 16-17.
") Doc. XXI, XXII.
") Lett. scr. all' A., I, 17. Lett. 23 ott. 1529, ripubblicata, al suo solito, come
inedita dal Bertolotti, Artisti in relazione coi Gonzaga, Modena 1885, p. 105,
il quale afferma a casaccio che l'Aretino « allora doveva trovarsi a B logna (!). »
— Questa lettera, come è data nella stampa raarcoliniana — perchè il copista
Bertolotti l'ha infiorata di qualche sproposito: teno per terrò, immortalia per
immortalità — corrisponde perfettamente all'originale conservato nel Copiaìett,
Lib. 299, e cosi altre due del Marchese che furon pure stampate da Pietro. Ciò
— 29 —
nel vicino natale, quando cioè, come l'Aretino gli annunziava, la
Mar fisa sarebbe Unita; e difatti sui primi del dicembre, Pietro of-
ficiò il Marchese a volergli ottenere il relativo privilegio di stampa dal
Papa e dall'Imperatore, allora convenuti a Bologna pel famoso con-
gresso — sul quale anzi il Gonzaga sollecitava un giudùio del-
l'Aretino ^).
V.
L'Aretino nel chiedere quei privilegi non si dissimulava che spe-
cialmente da parte del Pontefice non si sarebbe avuta la miglior dispo-
sizione di concedere a lui ciò che pure si accordava facilmente a
chiunque. È vero: confessava d'aver offeso e ingiuriato Papa Clemente;
ma non aveva avuto anche giusti motivi d'"esacerbazione ? D'altronde
se aveva sparlato del Pontefice era stato soltanto nelle pasquinate, nei
giudizi, in ciancie insomma destinate a effimera vita; mentre ora nel
poema che consegnava all'immortalità aveva inchiuso lodi e per il
Papa e per l'Imperatore. Potevano dunque fargli quella grazia, perchè
altrimenti avrebbe composto una ventina di stanze da levar il pelo a
sua Santità ed a Cesare. Vedesse il Marchese di Mantova di evitare
tanto scandalo e ottenergli il privilegio, che di poco momento a chi lo
dava era utilissimo per l'autore : certo, conchiudeva, che « la stampa
mi premierà et non i Principi 2). » Il Marchese mandò subito istruzioni
che prova come siano infondate le diffidenze di molti eruditi, che reputano quelle
lettere a lui scritte, pubblicate dall'Aretino stesso, non esenti da qualche sua
manipolazione. Come è ovvio osservare nel caso nostro, l'Aretino anzi non pub-
blicò che la minima parte delle molte lettere avute dal Gonzaga.
^) « In questo convento di Bologna aspetto cosa che venga dal vostro prudente
« judicio. » Leti. scr. aWA., I, 18. — Nicola di Trotti gli scriveva il 28 no-
vembre 1529 {ibid., I, 42): < Son stata a Bologna, dove ho veduti molti vostri
« subietti consimigliarsi benissimo a quelle rime e prose dove depinti sono; et
« in mille buon propositi sete stato ricordato da dame e gentilhuomini; e molti,
« che di voi non havean chiara notitia, per quei ragionamenti son restati vostri. »
') Doc. XXIII.
— 30 —
opportune a G. B. Malatesta, che aveva inviato a Bologna per il con-
gresso del Papa con l'Imperatore; ma, come ben temeva FAretino, la
domanda non trovò ne dall'imo né dall'altro accoglienza favorevole ^).
Opponevano che l'Aretino non aveva mai cessato di scriver male del
Papa e di sua Maestà, e anche di recente aveva « composto un testa-
mento in loro grandissimo obbrobrio ». L'Aretino negò d'averlo fatto
lui ; ma non restava meno che fossero suoi molti altri scritti satirici,
irriverentissimi in specie contro Clemente. Dopo tanto tempo da che era
partito da Koma per la pugnalata di Achille della Yolta, egli non
aveva mai potuto dimenticare a Venezia il danno patito nella per-
sona, e all'onta di veder impunito il suo sicario s'aggiungeva il
dispetto per le vane pratiche fatte più volto di riamicarsi il Pontefice.
Contro questo e contro il datario Giberti non aveva lasciato perciò oc-
casione di sfogare la sua rabbia, e con tanta più più violenza in quanto
ne' disastri di quegl'anni li aveva visti travolti e pressoché sommersi,
e poteva sicuramente irridere e insultare a' caduti, come s'è visto dalla
frottola sul sacco di Roma. Anche in quell'anno 1529, quando il Papa
s'era gravemente ammalato ed era corsa già la voce della sua morte,
l'Aretino aveva scritto un sonetto insolente 2), lanciando un'accusa vele-
nosa contro il suo mortale nemico, il Giberti, e i più scurrili oltraggi
contro tutto il sacro Collegio, non risparmiando una frecciata al Berni,
a cui dopo quel sanguinoso sonetto aveva giurato odio implacabile.
*) Doc. XXIV; e fra le Leti, scr, air A., I, 18 e sgg., due altre lettere del
Marchese in data 19 die. 1529 e 19 genn. 1530, di cui la prima si ha tal quale
nel Copidktt, Lib. 299.
') È ancora nel cit. cod. marciano a carte 437 r:
Fa noto et manifesto a tutta gente
Il vescovo bastardo di Verona
Che '1 Papa è morto come si ragiona
Ai diciasette ladri del presente.
El detto Gian Mattheo publicamente
Contessa a ognun come daben persona
Ch'ei solo ha fatto per far opra bona
Dal Sanga velenar mastro Chemente.
Il Bernia che a Roma ha negotiato
L'utile sancto sacro tradimento
N'ha in visibilio il datario advisato.
Et Dio volesse che come Chimento
Stesse il Collegio arcigaglioffo e ingrato
Che '1 mondo et Piero viverla contento.
— 31 —
Naturale perciò che gli si negasse ora il privilegio per la Marfisa : e il
Marchese di Mantova avvisò dispiacentissimo l'Aretino del cattivo esito
delle pratiche fatte. L'Aretino, fieramente irritato, rispose con una lettera
che è un piccolo capolavoro d'impudenza ^). — Immaginando il rifiuto,
diceva d'essersi subito pentito della dimanda di quella grazia, della
quale al postutto poteva fare benissimo a meno. Avrebbe al più perduto
l'utile di qualche scudo, ma le opere dell'ingegno non erano sottoposte
alle disgrazie dei Principi, e presto si sarebbe visto chi era l'Aretino.
L'imputazione che gli si apponeva di aver composto quel testamento
ingiurioso per il Papa e l'Imperatore era falsa: sapeva bene chi n'era
invece l'autore, gente cioè che mangiava il pane di sua Santità, ma non
voleva dir altro perchè non si credesse che sfogava qualche odio perso-
nale. Egli al contrario, se pure prima aveva sparlato di Clemente — ma
meno di tant'altri, come si poteva vedere confrontando i suoi scritti,
che avevano un' impronta troppo originale per non confonderli, con tutti
quelli usciti contro il Papa — ora aveva cambiato stile; e il giudizio
delVanno pel 1530, pubblicato come di solito, era stato tutto in favore
di sua Santità e di Cesare. Volesse dunque il Marchese scagionarlo e
difenderlo con tutti i mezzi che avrebbe ritenuto piii adatti... Ma qui
seguiva la stoccata anche pel Gonzaga. L'Aretino, che s'aifannava tanto
pel privilegio di stampa alla Marfisa, confessa che ha dovuto metterla
in pegno per duecento scudi ; avendola tra le mani, per disperazione la
brucierebbe ! È mai possibile che il Marchese lo riduca a questi
estremi? quando vorrà dunque assicurargli il pane? quando sarà morto?
La sua sorte col Gonzaga è peggiore anche di quella che ha avuto col
Papa: sperava una grande ricompensa per levare di pegno il poema,
Ma a dirlo lento lento
Cioè pian pian, del nostro messer Christo
Sia Vicario chi vuol che '1 sarà tristo
Se già sul papalisto
Non s'improntasse per rader i preti
Quella pazza animuccia di Ser Chieti.
Che tale sonetto fosse fatto nel 1529 per quella malattia di Clemente VII,
a cui si riferiscono tre sonetti del Berni {Bime, ed. cit., p. 57 e sgg.) lo prova
il seguente dispaccio dell'arabasciator mantovano a Venezia, 22 gennaio : « Questa
« notte il S." Duca d'Urbino per messo a posta ha avisato il Serenissimo come
« alli 17 del presente il Papa ha reso il spirito a Dio. Qua niuno ha tale aviso
« excetto Sua Sub**. » E su questa falsa voce, sparsa poi per Venezia, che l'Are-
tino compose il suo pataffio.
') Doc. XXV.
— 32 —
quando aveva donato al Marchese il pugnale lavorato da maestro
Valerio ; ma s'era ingannato e gli restava sulle spalle il debito con-
tratto per farlo. Ah il Marchese credeva troppo facilmente che per
contentarlo bastassero qualche saio ed un giubbone, scarti della sua
guardaroba : e chi aveva visto il pugnale e i presenti del Marchese
— aggiungeva più tardi l'Aretino in un biglietto all'ambasciatore Ma-
latesta ^) — non aveva avuto poco a meravigliarsi e a biasimare la tac-
cagneria del Principe. Con tutto ciò l'Aretino chiudeva la sua lettera
al Gonzaga, profferendosi ancoj-a a fargli lavorare una sella stupenda
anche più ricca nel suo genere del pugnale ; e non dimandava per ora
che cinquanta scudi.
Sempre tollerante e cortese, malgrado così sfacciata petulanza, il
Gonzaga mandò all'Aretino i cinquanta scudi, e fece proseguire dal
suo inviato a Bologna le pratiche pel privilegio della Marfisa : assi-
curando al Pontefice che l'Aretino non aveva scritto l'ingiurioso libello
attribuitogli ed anzi aveva composto in favor suo ì\ giudizio dell'anno,
e valendosi presso Clemente de' buoni uffici di mons. Vasoue, affezio-
natissimo a Pietro ^).
Con tutti i suoi spavaldi dispregi e i suoi inveterati rancori, l'Aretino
era troppo accorto per non vedere che a persistere negli attacchi contro
il datario Giberti si recava danno gravissimo : e mentre il Marchese
di Mantova perorava caldamente la causa di lui presso il Papa, Pietro,
essendo di quei giorni il Giberti andato a Venezia, mosso da improv-
visa ispirazione — che diceva divina. — andò a gettarglisi a' piedi, per
aver pace, per riconciliarsi. 11 pio prelato lo accolse con paterna bontà;
e l'Aretino per battere il ferro finché era caldo ne die subito avviso
al Marchese di Mantova 3), pregandolo a significare al Giberti il pia-
cere che provava per la riconciliazione avvenuta, e a farlo in termini
che mostrassero il suo vivo desiderio di vedere ormai favorito e rime-
ritato un uomo, per cui aveva grande stima ed affetto. Il Marchese
scrisse immediatamente nel modo che l'Aretino desiderava, ed alla sua
lettera *) dobbiamo la fortuna di veder chiarita dal Giberti stesso la
parte da lui presa nel mancato assassinio perpetrato cinque anni
prima dal suo familiare Achille della Volta. Esprimendo la soddisfa-
*) Doc. XXVI.
') Leu. 8cr. all' A., I, 62. — Lett. del Vasone da Bologna, 17 maggio 1530.
') Doc. XXVII.
*J Doc. XXVIII. — Cfr. Lett. scr. aWA., I, 21; lett. del Marchese in data
13 febr. 1530, anche questa conservata nel Copialett., Lib. 299.
— 33 —
zione che gli aveva recato la notizia della pace fatta con l'Aretino, il
Marchese si lasciò sfuggire una frase oscura, che racchiudeva un'insi-
nuazione contro il Giberti, a cui la pubblica voce, alimentata dalle
recriminazioni dell'Aretino, attribuiva una diretta responsabilità in
quel biasimevole fatto. Il Giberti addolorato rispose con una let-
tera nobile, dignitosa, che provocò da parte del Marchese le più
ampie scuse ^). Dopo aver rilevato, con molto fine ironia, la grande
premura che il Marchese s'era dato a rallegrarsi della seguita con-
ciliazione, il Giberti lo pregava a credere, con energica protesta, che
verso l'Aretino egli non aveva nulla a rimproverarsi di men che dice-
vole a un cristiano e ad un prelato. Quanto era stato fatto contro
Pietro, era avvenuto « senza ordine, senza consenso, senza saputa »
di lui, Giberti', e se n'era anzi così sdegnato ed afflitto che non
avrebbe mancato di punirne maggiormente l'autore, se non fosse stato
« sforzato dalli infiniti preghi. » Infatti Achille della Volta era ri-
masto egualmente a' servigi del Datario ^) : e da questa dichiarazione
è permesso arguire che al colpo contro l'Aretino avevano più o meno
concorso tutti i famigliari del Giberti, e probabilmente non ultimo
il Berni stesso, che anche più tardi dolente dell'assassinio fallito s'au-
gurava per l'Aretino
un pugnale
Miglior di quel d'Achille e più calzante.
*) Doc. XXIX, XXX.
') Noir Archivio di Stato di Bologna, tra le carte criminali, esistono gli atti
d'un processo fatto nel 1542 per omicidio contro Achille della Volta e Marcan-
tonio suo fratello; del qual processo ha dato appena un cenno il Mazzoni To-
SELLi, Eacconti storici estratti dalVArch. Crini, di Bologna^ Bologna 1870, II, 322.
Achille si mantenne sempre sulla negativa, malgrado le mille circostanze emerse a
suo carico, resistendo alla tortura con costanza ammirabile. Gli fu inflitta per più
giorni consecutivi e all'ultimo non reggendo più « dum ligaretur dixit: scrivete
« ch'io mi protesto che se io vi dicessi cosa alcuna me la farà dir il tormento et la
« febre. » Ne' suoi costituti, interrogato e an alias in urbetemporis S"» Clementis VII
« vulnera verit D. Petrum Aretinum et quibus vulneribus, respondit: Signor sì,
« che l'è il vero ch'io li detti doi ferite nel petto. » Eichiesto se lo stesso giorno
che ferì l'Aretino andò poi a trovarlo degente in letto, come nulla fosse, risponde:
« io non mi ricordo se fu quel dì o un altro, ma l'è vero ch'io l'andai a veder
« di poi che l'hebbi ferito, che non si sapeva ch'io fussi stato che l'havesse ferito. »
E in seguito, rettificando asseriva d'esserci andato perchè l'Aretino stesso ignaro
dell'untore del ferimento l'aveva fatto chiamare per esser raccomandato al Datario.
È questa una circostanza importante, che aggrava il tentato assassinio co' carat-
teri odiosi dell'agguato, della simulazione e del tradimento, senza che appaia de-
terminato da nessuna ragionevole causa.
Loiio — Ptttro Aretino 3
— 34 —
Ciò che al caso renderebbe la sua guerra contro l'Aretino non in
tutto così bella e nobile, come è parso, con solennità a volte sover-
chia, rappresentarla al suo recente biografo.
I
VI.
La pace col Datario, che ad ogni altro sarebbe parsa umiliante i),
rese felicissimo l'Aretino, che in quel carnevale si die tutto ai
sollazzi, agli amori, godendo con amici scapigliati i doni ricevuti
da più parti. Il conte Claudio Kangoni gli mandò delle maschere
di Modena 2), il Marchese di Mantova del broccato e della tela
d'oro; il conte Stampa una « veste di damasco sopra e sotto di
« velluto nero, dentro e di fuora listata del medesimo velluto » e un
« saio di velluto nero, in tutti i busti e per tutte le falde ricamato di
« cordoni d'oro ricchissimamente ^). »
Passato il carnevale tra le feste, le mascherate, i bagordi, l'Aretino
*) Quanto poco fosse sincera questa riconciliazione da parte dell'Aretino lo mostra
la velenosa invettiva ch'egli lanciò contro il Giberti, appena morto Clemente VII
(cfr. Mazzuchelli, p. 254), Ci è conservata in copia nel cod. marciano CI. XI it.,
n" XL, a e. 30: ha la data di Venezia 8 ottobre 1534; e dopo un grido selvaggio
di gioia per la morte del Papa, con cui viene a mancare la fortuna del nemico
Datario, erompe verso quest'ultimo nelle più violente e scurrili contumelie. Gli
getta in faccia la sua origine illegittima, le disgrazie d'Italia dovute alla sua in-
sipienza politica — purtroppo non a torto — , l'ipocrisia imposta alla corte e al
clero con le sue riforme, l'ingordigia nel beccarsi i più pingui benefizi. Con un
grottesco confronto fra se stesso e il Giberti, l'Aretino gli dice: « leggi l'Apoca-
« lisse che io ho fatto et i sette salmi, leggi la passione de Christo > ... e vedrai
chi di noi sia più religioso. Dopo aver accennato che malgrado le persecuzioni del
Giberti è arrivato a invidiabile fortuna presso tutti i Principi del tempo, l'Aretino
conclade: « attendi a viver, bastardaccio, ma perchè io spero di parlarti a bocca ti
« dico in ultimo che s'io ho parlato bugia di quanto scrivo, assassinami im'aUra
* volta ch'io tei perdono. »
') Leu. scr. alVA., I, 46.
') Lettere, I, 18.
— 35 —
a quaresima si decise di far penitenza solenne, dacché anche il Papa
s'era finalmente arreso a perdonargli, in seguito alle raccomandazioni
non solo del marchese Gonzaga e di monsignor Vasone, ma perfino del
Doge di Venezia. Ne ci voleva meno di così autorevoli appoggi, perchè
l'Aretino malgrado le sue promesse non aveva tralasciato del tutto di
scriver contro il Pontefice, e aveva anzi commesso l'imprudenza di
pronunziarsi contro gli aggressori di Firenze, e per la libertà della re-
pubblica, appunto allora votata all'estrema rovina nel congresso di
Bologna ^). Nella vita dell'Aretino quest'intromissione del Doge Gritti
a suo favore presso il Papa è un punto di capitale importanza. Fin
allora l'Aretino era rimasto a Venezia, senza avere da' reggitori della
Serenissima una prova di benevolenza o d'appoggio qualsiasi; ed egli
stesso diceva in una lettera del 20 aprile 1530 al marchese di
Mantova che il Doge non l'aveva mai prima visto ne chiamato ^).
Pare sia stato il Vergerlo che interessò il Gritti ad accettare d'esser ■
per l'Aretino mediatore col Papa ; ma certo è che da questa spiegata
protezione incomincia la vera e stabile fortuna dell'Aretino a Venezia.
Ormai non era più un semplice avventuriero, tollerato all'ombra
della libertà veneta, poiché il primo magistrato della repubblica si
degnava di sposare la sua causa, consacrando per così dire official-
mente la popolarità e la fama dell'autore dei giudizi^ del portavoce
di Pasquino. S'era dunque riconosciuto che egli poteva esercitare
un'influenza sull'opinione pubblica, e che non sconveniva assicurargli
asilo e protezione a Venezia, lasciando sbizzarrire la sua penna e la
sua lingua, che se si affilavano contro i Principi non trovavano invece
se non inni di ammirazione per la repubblica e i suoi governanti. E
l'Aretino comprese bene tutta l'importanza di questa deferente dimo-
strazione del Doge a suo riguardo; ed ei che poc'anzi parlava di andare
in Francia 3), dove di fatto pare lo si aspettasse da un giorno al-
^) Leu. sor. aìVA., I, 144; Paolo Guerretto gli scrive da Firenze 8 genn. 1530:
< Si sono viste più vostre cose che avete fatte a questi dì in laude di Fiorenza
« e biasmo de' tiranni, et in fra l'altre quel divino sonetto : Or tacete ser libri
« cicaloni. »
') Doc. XXXII. — Cfr. tra le Leti. scr. alVA., I, 14, una del Sanga a nome
del Papa che comincia : « Ne lo intendere Sua Santità qualmente il Serenissimo
« Gritti... si è mosso a chiamarvi, ecc. » Evidentemente erronea è la data del 1528
apposta a questa lettera, e accettata a occhi chiusi dal Mazzuchelli.
') Lett. cit. dal Guerretto che scriveva all'Aretino: « Donde son stato di con-
« tinuo li ho dato a viso di me... e massime da la corte di Pranza, donde ho avuto
« occasione molte volte... darle notizia di quanto huon nome quella è in ditta
- 36 —
Taltro, rinunziò per sempre ad ogni idea di allontanarsi da Venezia^
pronunziando VMc manebimus optime. Se anche Clemente VII, ria-
micatogli dal Doge, l'avesse di nuovo voluto a Roma, Pietro avrebbe
adesso rifiutato. « Io — scriveva al Gritti in una lettera che è come
la professione formale e solenne del suo insediamento definitivo a
Venezia ^) — « io che nella libertà di cotanto stato ho fornito d'im-
« parare a esser libero, refuto la Corte in eterno e qui faccio per-
« petiM tabernacolo agli anni^ che m'avanzano^ perchè qui non ha
« luogo il tradimento, qui il favore non può far torto al diritto, qui
« non regna la crudeltà delle meretrici (? !), qui non comanda l'inso-
« leoza dei ganimedi, qui, non si ruba, qui non si sforza, qui non si
« amazza. Perciò io che ho spaventati i rei et assicurati i buoni mi
« dono a voi, padri dei vostri popoli, fratelli dei vostri servi, figliuoli
« della verità, amici della verta, compagni degli strani, sostegni della
« religion, osservatori della fede, essecutori della giustizia... Principe
« inclito, raccogliete l'affettione mia in un lembo della vostra pietà,
« acciò ch'io possa lodare la nutrice de l'altre città e la madre eletta
« da Dio per fare più famoso il mondo... 0 patria universale, o li-
« berta comune, o albergo de le genti disperse, quanti sarebbero,
« Italia, i tuoi guai maggiori se la sua bontà fusse minore Dio
« vole che Venezia concorra d'eternità con quel mondo che si stupisce
« come la natura le habbia fatto luogo miracolosamente in un sito
« impossibile, e come il cielo le sia tanto largo de le sue doti, che
« ella risplende nelle nobiltà, nelle magnificentie, nel dominio, negli
« edificii, nei templi, nelle case pie, nei consigli, nella benignità, nei
« costumi, nelle vertù, nelle ricchezze »
Ma anche più notevoli di quest'inno in prosa sono alcune stanze
inedite dell'Aretino in lode di Venezia, che dovettero esser composte
nel medesimo tempo, ed esprimono eguali sentimenti, solo accentuando
di più il distacco che ormai intendeva di prender per sempre da Roma.
Ce le conserva l'importantissimo cod. marciano più volte citato (CI. XI
it., n° LXVI, a e. 433 e sgg.), e malgrado l'impudenza dell'esordio
è certo la poesia più nobilmente ispirata che rimanga dell'Aretino.
« corte, presso la Maestà del Re e dei grandi: et in vero io speravo nanzi me
« partissi de là voi arrivasti, che così lì si parlava. »
*) Lettere, I, 2. — È senza data e il Mazzuchelli, e dietro lui la turba pappa-
gallesca, la dà come del 1527. Ma è chiaro che fu scritta del 1530, dacché TAre-
tlno ringrazia il Doge d'averlo difeso * riducendolo in gratia di Clemente. »
37 —
P. A. in laude di Venetia.
Quel ch'hebbe in ascendente l'Evangelo
Ch'è chiamato censor del vicio borrendo,
Quel ch'hebbe in dote alma virtù dal cielo,
Il flagello de' Principi tremendo ^),
Quel ch'ama i buoni cum fervente zelo
Et che sempre li rei vanno fuggendo.
Dell' Aretin parl'io, liber sincero
Ardito et sol predicator del vero,
Pietro Aretino acerrimo molt'anni
Visto ha di Eoraa i templi e i colisei,
Gli archi, bei premi ia i marciali affanni,
E de la terra universa i trophei,
Nell'opre antiche le mine e i danni,
Le statòe sacre e i degni semidei,
Et spesso ha fatto gli occhi e rossi e molli
Visti ignudi di pompa i sette colli.
E l'altere memorie contemplando
Stupito u' parlan le pitture e i marmi,
Dicati al nome de' Cesari quando
Ogni clima espugnar per forza d'armi,
E seco e col pensier commemorando
Quel che vedeva et ciò ch'ha letto in carmi
Gli parca così guasta e cosi doma
Del ciel più magna et più stupenda Roma.
Et se '1 piacere a sé '1 rl^bava in parte
Che Roma spesso vide in propria idea,
Et hor mirando la materia hor l'arte
Converso in quella età lieto godea,
Poi tornando in se stesso a parte a parte
Non già del tempo avaro ei si dolca
Ma de la vile et hodierna prole
Et dolente dicea queste parole:
i) Il Cod. marciano CI. IX it. n" CCXIII ha una « Vita dello infame Aretino >
attribuita al Doni nel catalogo: nella quale si afferma che il sopranome di < Fla-
gello dei Principi » fu dato a Pietro da Clemente VII. Ma — soggiunge l'ano-
nimo libello — l'Aretino stesso mostrò in un sonetto quanta poca fede dovesse
darsi a quel Papa, nel cui nome diceva
Mutate lo L in aspiratione
Et udirete dir Papa che mente.
— 38 -
Alte ruine et mura ancho ammirande
Ch'oggi honorate le excellentie antiche....
S'un raggio di virtù fusse tra noi
Riche e superbe hoggi sareste voi.
L'ombre ch'errato havean da loco in loco
Secoli tanti infra tante mine
In eco trasformate a poco a poco
Rispondevano in voci alte e divine:
La non più nostra et bella Roma in gioco
Viverebb'anco e in pompa senza fine
Se i nostri indegnamente successori
Amasser più la fama che i tesori.
Come '1 cor aghiacciò nei cori ardenti
A quei che per virtù guadagnar l'ali,
Come successer le malvagie genti
A le genti famose et immortali,
Cadder di Roma i tetti onnipotenti
E i luoghi divi si férno mortali,
Né più è Campidoglio il Campidoglio
Che dòmo vide già l'umano orgoglio.
Ma se la stirpe de' moderni tanto
Non offendea Panticha architettura,
Roma che '1 mondo si fò servo intanto '
Che un secol vive et una etate dura
Saria con sua gran macchina in quel vanto |
Che a la eternità facea paura j
Di non poter seguirla eternalmente I
Di tempo in tempo et d'una in altra gente. !
Partissi l'Aretin, poi ch'egli vide i
L'empia generation de' tempi nostri j
Che d'una sì gran perdita si ride, |
Né c'è chi a dito altro che '1 vi ciò mostri j
E quando agli occhi suoi Vinegia aparse [
Così magno spettacolo e sì degno [
Lacrime il cor fuor da le luci sparse
Abassò i labri et inalciò le ciglia
Per la meravigliosa meraviglia.
E qui segue una descrizione enfaticamente barocca di Venezia : i
superbi palazzi in cui s'intrecciano i marmi, i mosaici, e gli ori;
l'arsenale ove si costruiscono
A porre il freno al gran furor de' venti
I legni senza numero e forbiti
Per Cristo spesso in le sals'onde usciti.
Ma tutto è nulla davanti alla bellezza delle sue donne, onde
... sotto il nero trasparente velo
Veggonsi in carne gli angioli del cielo.
* Dipingi, 0 Tician, spirto perfetto,
L'alte immagini lor, fanne altrui parte,
Gioveni delicati aprite il petto
Sacrando lor di voi la miglior parte,
Del nome lor col vostro ingegnio eletto
Kisonar fate le bramose carte,
Et toccha a voi che ad Apol state in grembo
Immortai Navagèro e divin Bembo.
Padri conscripti, benché tante e tali
L'Aretin meraviglie ha visto e vede,
Sino al thesor di quel che batte l'ali
In terra e in mar, pien di giusticia e fede,
A le vostr'alme maestà immortali,
Al cui valore ogni potentia cede,
Servo si fece et con dritto judicio
Vi voi far del suo ingegno sacrificio.
0 consuli, 0 tribuni, o senatori,
0 giustissimi padri, o padri egregi,
Voi tutti ne sembrate Imperatori
Et di consigli e d'armi havete i fregi,
Voi sete quelli, voi, che i tolti honori
Benderete a l'Italia e i summi pregi
Voi meritate raagior laude hormai
Che non fé chi di Koma hebbe il governo,
Perché l'antico honor vince d'assai
Il vostro bel reggimento moderno.
Mercè, Venetia, che tai figliuol hai
Che l'esser tuo amplierà in eterno.
Roma è già nulla et era onnipotente
Et tu vivi regina ch'eri niente.
E seguendo di questo passo, fra l'altre, con la pili grottesca adula-
zione dice del Doge :
reggerla il tuo Principe Andrea Gritti
Due Venetie, tre Eorae e quattro Egitti!!...
Ecco la chiusa:
Diria più oltre PAretin ma ingrato
Sarebbe al cener del figliol di Marte
— 40 —
In Mantova in sepolcro vii serrato
Dove Phidia e Prassitel non ha parte,
E perchè lui Giovanni è intitolato
Per tutto son colossi et statoe sparte,
Né fu il Mausoleo sì ornato come
L'urna sua fregia il suo famoso nome.
Mancherebb'ancho a quella gran bontade
Del magnanimo e invitto Federico,
Il qual virtù in questa ferrea etade
Solamente ha trovato ottimo amico^
Nacque il dì che nacqu'egli la pietade
Et sen venne con lui dal tempo anticho
La cortesia, la constantia e '1 valore.
Aiutatel voi muse a fargli honore.
Perdonategli o Padri venerandi
Che son gl'idoli suoi questi duo numi,
Un vive e regna e de inchiostri notandi
Brama di celebrarlo in più volumi.
L'altro è sotterra e vince imprese grandi
Sol col gran nome et passa mari e fiumi
E a l'altra vita stassi lieto e bello
Con Alexandro, Cesare et Marcello.
VII.
Alla conciliazione col Papa il Doge aveva posto all'Aretino per patto
« di levar dal suo libro (della Marfisa) tutte quelle cose in le quali
« dicea male di Sua Santità et in loco di quelle dir bene di lei » e del
Datario, e oltreciò che da buon cristiano dovesse confessarsi e comu-
nicarsi « il che non havea fatto già qualche anni ». L'Aretino promise
ed osservò fedelmente; e l'ambasciator Malatesta ce lo descrive in
una bellissima lettera « con la confession in mano et con lagrime alli
« occhi », che piangeva i suoi peccati, proponendosi di cambiar vita
interamente ^).
*) Doc. XXXI.
— 41 —
Il Papa gli aveva fatto sperare non solo il privilegio per la stampa
del poema, ma altresì un dono di somma cospicua ^). L'Aretino il
20 aprile ne scriveva trionfante al marchese di Mantova, annun-
ziando poi d'aver ricevuto di que' giorni dal marchese di Monferrato
principeschi regali per più centinaia di scudi. Era vero: partito da
Bologna, dov'era stato per l'incoronazione di Carlo V, il marchese di
Monferrato s'era recato a Venezia (l'Aretino pretendeva apposta per
veder lui) e aveva voluto che Pietro stesse sempre in sua compagnia,
l'aveva onorato ed accarezzato infinitamente, e nel lasciargli infine
splendidi doni l'aveva con insistenza richiesto a' propri servigi ^). Con
la sua mirabile scaltrezza l'Aretino magnificava questi favori e questi
inviti del marchese di Monferrato per stuzzicare l'amor proprio del
Gonzaga, ed eccitarlo una buona volta ad essergli mecenate più li-
berale.
Quando mai — ripeteva — avrebbe avuto qualche cosa di più
proficuo che non i soliti regali di vestiario? Non avrebbe lasciato
il marchese di Mantova ne per Ke, né per Papi, ne per tutti i
Principi del mondo: ma bisognava trattarlo più lautamente, non
tenerlo quasi affamato; o altrimenti la necessità lo avrebbe spinto
a prender partito con altro padrone, e accettare fors'anco le offerte
del marchese di Monferrato, che aveva chi sa quali riposti disegni
per deviarlo dalla servitù del Gonzaga. Ormai non aveva che l'im-
barazzo della scelta tra' protettori, la bottega era bene avviata.
Come lui v'erano pochi forestieri onorevoli a Venezia, aveva casa sul
Canal grande, cinque servitori riccamente vestiti, tavola sempre im-
bandita. Nessuno poteva vincerlo di cortesia: se il marchese di Mon-
ferrato gli era stato generoso, non aveva però voluto l'Aretino scapitare
al confronto, ed oltre ad un'impresa d'oro e un bel presente di profumi
già datigli, stava per mandargli un superbo specchio con medaglioni
magnifici di mano di Valerio vicentino. Era un dono da principe, che
a tutt'altri sarebbe costato un occhio del capo, e chi sa quanto tempo
perchè fosse finito ; e lui l'aveva avuto subito e per poco, tanto era
l'ascendente che esercitava e il favore che otteneva da tutti, dagli
artisti segnatamente. — Non erano fatue vanterie : realmente l' Aretino
poteva ora inorgoglire della più florida agiatezza, e aveva già preso
^) Leti. dlVA., I, 60. Marco di Nicolò scrive da Roma 5 maggio 1530 che
il Papa gli ha mostrato un sacchetto di cinquecento scudi, chiedendo se debba
0 no mandarli all'Aretino.
') Lettere, I, 18; e Lett. aWA., I, 57 e 68.
- 42 —
abitazione sul Canal grande in quella regia casa del nobile Domenico
Bolani, che ci ha con vivacità pittoresca descritto in una sua lettera
al padrone stesso, al quale forse con questa reclame pensava di pagare
il fitto 1).
« Egli, onorando gentiluomo, mi pare peccare nella ingratitudine,
« se io non pagassi con le lodi una parte di quel che son tenuto a la
« divinità del sito, dove è fondata la vostra casa, la quale habito con
« sommo piacere della mia vita, per ciò che ella è posta in luogo che ne '1
« più giuso né '1 più suso, ne '1 più qua ne '1 più là ci trova menda. Onde
« temo entrando nei suoi meriti, come si teme a entrare in quegli
« dello Imperadore. Certo, chi la fabricò le diede la perminenza del
« più degno lato ch'habbia il Canal grande. E per esser egli il Pa-
« triarca d'ogni altro rio, e Venezia la papessa d'ogni altra cittade,
« posso dir con verità ch'io godo della più bella strada e della più
« gioconda veduta del mondo. Io non mi faccio mai a le finestre , ch'io
« non vegga mille persone et altre tante gondole su l'hora dei mer-
« catanti. Le piazze del mio occhio diritto sono le beccarie e la pe-
« scaria, et il Campo del Mancino, il ponte et il fondaco dei Tedeschi:
« a l'incontro di tutti e due ho il Kialto calcato d'huomini da fac-
« cende. Hocci le vigne nei burchi, le caccie e le uccellagioni nelle
« botteghe, gli horti nello spazzo ; né mi curo di veder rivi che irri-
« ghino prati, quando all'alba miro l'acqua coperta d'ogni ragion di
« cosa, che si trova nelle sue stagioni. E bel trastullo mentre i con-
« duttori della gran copia dei frutti e de l'herbe le dispensano in
« quegli che le portano ai luoghi deputati. Ma tutto é burla eccetto
« lo spettacolo de le venti e venticinque barche con le vele, piene di
« melloni, le quali ristrette insieme si fanno quasi isola a la molti-
« tudine corsa a calculare e col fiutargli e col pesargli la perfettione
« loro. De le belle spose relucenti di seta, d'oro e di gioie super-
« bamente poste nei trasti, per non iscemar la reputatone di cotanta
« pompa non parlo ; dirò ben, io mi smascello de le risa, mentre i
« gridi, i fischi e lo strepito dei barcaiuoli fulmina dietro a quelle
« che si fan vogare da famigli senza le calze di scarlatto. E chi non
< s'haveria pisciato sotto vedendo nel cuor del freddo rovesciarsi una
« barca calcata di Thedeschi, pur allhora scappati de la taverna, come
« vedemmo il famoso Giulio Camillo et io ; la cui piacevolezza mi
*) Lettere, I, 169. — Di là godeva quello stupendo panorama sull'ora del tra-
monto, che ha descritto nella famosa lettera a Tiziano (III, 48).
_ 43 —
« suol dire che l'entrata per terra di sì fatta habitatione per essere
« oscura, mal destra, e di scala bestiale simiglia a la terribilità del
« nome acquistatomi ne lo sciorinar del vero, e poi soggiugne che
« chi mi pratica punto trova ne la mia pura , schietta e naturale
« amicitia quella tranquilla contentezza che si sente nel comparire
« nel portico e ne l'affacciarsi ai balconi sopradetti. Ma perchè niente
« manchi a le delitie visive, ecco ch'io vagheggio da un lato gli
« aranci che indorano i piedi al palazzo dei Camerlinghi, e da l'altro
« il rio et il ponte di San Giovan Grisostomo, né il sol del verno ar-
« disce mai di levarsi se prima non dà motto al mio letto, al mio
« studio, a la mia cecina, a le mie camere et a la mia sala. E quel
« che più stimo è la nobiltà dei vicini. Io ho al dirimpetto l'elo-
« quente magnificenza de l'honorato Maffio Lioni, le cui supreme
« vertù hanno instituito la dottrina, la scienza, et i costumi nel su-
« blime intelletto di Girolamo, di Piero e di Luigi suoi mirabili
« figliuoli. Hovvi ancho la Sirena, vita et anima dei miei studi.
« Hovvi il magnifico Francesco Moccinico, la splendidezza del quale
« è continua mensa dei cavalieri e di gentilh uomini ; veggomi acanto
« il buon M. Giambattista Spinelli, nella cui paterna casa si stanno
« i miei Cavorlini, che Iddio perdoni a la fortuna il torto fattogli
« dalla sorte. Ne mi tengo piccola ventura la cara e costumata
« vicinanza de la signora Jacopa. In somma, s'io pascessi così il
« tatto e gli altri sensi, come pasco il viso, la stanza che io
« laudo mi saria un paradiso, per ciò che io lo contento di tutti
« gli spassi che gli ponno dare i suoi obietti. Ne mi si scordano i
« gran maestri forestieri e della terra, che frequentano di passarmi
« dintorno a l'uscio, ne l'alterezza che mi solleva al cielo nell'andar
« giù e su del Bucentoro, ne del corso de le barche, ne de le feste per
« cui di continuo trìompha il canale signoreggiato da la mia vista.
« Ma dove si rimangono i lumi che doppo la sera paiono stelle sparse
« u' si vende la robba necessaria ai nostri desinari et a le nostre cene ?
« Dove le musiche che la notte poi mi grattano l'orecchie con la con-
« cordia de le lor consonanze? Prima si esprimerebbe il giuditio pro-
« fondo che voi havete nelle lettere e nel governo publico, ch'io po-
« tessi venire al fine dei diletti ch'io provo nelle commodità del vedere.
« Per ciò se qualche spirto nelle ciancio da me scritte respira con
« fiato d'ingegno, vien dal favore che mi fanno non l'aura, non l'ombre,
« non le viole e non il verde, ma le gratie ch'io ricevo da la felicità
« ariosa di questa vostra magione, nella qual consenta Iddio ch'io
« annoveri con sanità et vigore gli anni che deverebbe vivere un
« huomo da bene. »
~ 44 —
In questa casa l'Aretino restò per oltre vent'anni i), e sin da' primi
tempi la fece convegno a liete e chiassose brigate d'artisti, di avven-
turieri, di cortigiane. Nel novembre del 1529, scrivendo al mantovano
Girolomo Agnello che gli aveva mandato del vino squisito, l'Aretino
diceva di essersi veduta « tanta turba all'uscio » che pareva o ch'egli
facesse miracoli o là ci fosse il giubileo. I suoi servitori erano tutti in
faccende per riempire de' grandi fiaschi di quel vino da regalarne
quanti ambasciatori erano a Venezia — cominciando dal francese —
e, aggiungeva, « ciascun buon compagno si fa venir sete a posta per
« venire a tracannarne due o tre bicchieri E parmi un bel che,
« sendo in bocca fin de le p e de le taverne per amor de la sua dol-
« cezza che bascia e morde : e la lagrimetta che pone in su gli
« occhi di chi ne bee, mi fa lagrimare mentre ch'io ne ragiono con
« la penna. Hor pensate ciò che mi faria vedendolo saltare nel suo
« color brillante in una tazza di vetro puro ben lavata ». Davvero,
conchiudeva, che diventerò divino^ se potrò spesso farmi onore di vino
così fatto da dispensare, e da levarne il grido per tutta Venezia ^).
*) Nel sesto delle Lettere, p. 37, abbiamo il curioso congedo dell' A. al suo pa-
drone di casa, che viceversa l'aveva dato prima lui all'inquilino poco esatto ne' paga-
menti. La lettera è intitolata « Allo ecc. » ma che si tratti del Bolani si comprende
subito dalle prime linee: « Signore prestantissimo et honorando, io vi restituisco
« le chiavi di quella casa da me XXII anni habitata, con lo istesso riguardo che
« havrei usato se fusse suta la mia; né mi s'alleghi ninna ragione con tra al pio
« verci per tutto et l'esser da ciascuna parte in rovina » Ma egli l'amava egual-
mente, perchè là eran nate le sue figlie, là aveva composto i suoi migliori lavori ;
ed aveva fatto tutto il possibile per abbellirla. « Si guardi la camera, dove mi
« pensavo di tuttavia godermela, et vedrassi nelle figure del soffitto, nella poli-
« tezza del terrazzo et nelle altre cose del sopraletto et del camino che anco delle
« discort€sie con la cortesia mi vendico, » Si lagna amaramente di tailta villania
del padrone che mette alla porta un inquilino, garantito dall'Imperatore in per-
sona; e soggiunge in aria di trionfo: « intanto me ne vado con doppia somma
« di fitto alla stanza signorilmente commoda, all'habitatione che ho tolta in su la
« riva del Carbone » Era la casa in parrocchia di S. Luca, dove morì nel 1556
(cfr. Tassini, Curiosità veneziane, Venezia 1882, p. 131; e un articolo del me-
desimo, neU'^rc^. veneto, t. XXXI, fase. 61, Delle abitazioni in Venezia di P. A.).
Quella lettera al Bolani ha la data del gennaio 1551, onde è chiaro che l'Aretino
andò ad abitarne la casa nel 1529.
') Lettere, I, 17. — E nel dicembre del 1530, G. Rovero gli faceva avere del
vino d'Asti : « senza alcun suo carigo — scriveva — glielo lo darò condutto in
« sua casa, per non farla litigar col dazio, crudele troppo, de Venetia, e farò ogni
« estremo per dar buona guardia al burchio, acciò che li traditori barcaroli non
« glie lo adaquino. » Lett all' A., I, 59.
— 45 —
— Che importava a lui se in un brutto momento — come gli av-
venne nell'ottobre 1530 ^) — si trovava svaligiata la casa- da infedeli
servitori e cinedi che lo lasciavano al verde ? Egli aveva ormai ben
il modo di rifornirla ad altrui spese, e passata la spiacevole avventura
ritornava come prima spensierato e gaudente fra' suoi degni compagni
di gozzoviglie e di maldicenza.
Uno di questi, Lorenzo Veniero, appena ventenne, era sopra tutti
carissimo all'Aretino, che ne aveva fatto il suo scudiero, il suo al-
lievo migliore ^) : e il giovane patrizio, prostituendo il proprio in-
gegno, esordì, appunto nel 1530, sotto gli auspici dell'Aretino con la
P. Errante, a cui l'anno appresso faceva seguito col Trentuno o la
Zaffetta. La data del primo di questi oscenissimi poemetti — su cui
i bibliografi danno così scarse e arruffate notizie^) — si può, a me
pare, stabilire con sicurezza dal capitolo dell'Aretino al Duca di Man-
tova, che si legge nella raccolta delle opere burlesche *). — Tutto
occupato nel far gli onori di casa all'Imperatore, che reduce da Bo-
logna si trattenne in Mantova dal 25 marzo al 20 aprile ed elevò
allora il Marchese a Duca, Federico Gonzaga in risposta alle petu-
lanti richieste dell'Aretino l'aveva pregato a pazientare sino alla par-
tenza di Carlo V, dopo di che senza fallo avrebbe ricevuto un grazioso
presente. Ma il principe tardò dell'altro ancora ; ed è a tale occasione
*) Doc. XLI.
') Da una lettera dell'Aretino (III, 333) al magnifico M. Francesco Zeno appare
che era stato questo patrizio « a commettere il Veniero Lorenzo... a la cura » di
Pietro ; onde, si vantava, « è riuscita Sua Magnifìcentia de la stima che ognun
vede »!
') Cfr. Mazzuchelli, p. 208; Zeno, Lettere, III, 399; Virgili, op. cit, p. 259. —
10 ho potuto procurarmi la riproduzione fattane dal Liseux, Parigi 1883. È quanto
di più rivoltante può immaginarsi; roba, davvero, contro tutte le tentazioni dei
sensi. Dal contesto d^oiVErrante non si può rilevare quando precisamente fosse
scritta. Pure alcuni versi della dedica all'Aretino confermano, parmi, che uscisse
del 1530. Il Veniero infatti si raccomanda all'ispiratore Aretino
per quel terrore
Che ne' vitij de' Prencipi ognhor metti
Pel Ee, pel Papa, e per l'Imperatore
Che temon l'ombra de' tuoi gran sonetti.
11 poemetto dev'essere dunque anteriore alla pace solenne fatta col Papa in quel-
l'anno.
*) ed. Usecht, III, 38.
— 46 —
che si riferisce certamente lo sguaiato capitolo dell'Aretino, nel quale
appunto si accenna come a cosa recentissima alla promozione ducale.
Non so se l'indugiar tanto al venire
Quella faccenda li causasse '1 nome
Che '1 Marchese ebbe in Duca a convertire.
Certo il mal vien di qui: e se io come
Supplicai al Duca, chiamava il Marchese
Venivano le grazie a carri e a some.
Quel nome Ferrarese e Milanese
V'ara per rovinarmi trasformato
In Alfonso e Francesco buone spese *)
E comincio a bravare: il buono e '1 bello
Marchese manderammi presto presto
Una valigia inzeppata d'orpello
Ma perchè io sento il presente all'odore
Un'operetta in quel cambio galante
Vi \nando ora in stil ladro e traditore
Intitolata La Puttana Errante
Dal Veniero composta mio creato
Che m'è in dir mal quattro giornate inante
Il poemetto ei*a dedicato all'Aretino — al quale nondimeno si attri-
buiva una diretta partecipazione nell'opera, ond'ebbe a protestare
energicamente il Veniero nella Zaffetta ^) — e Pietro offriva V Er-
rante al duca di Mantova come una vera e appetitosa primizia, per
sollecitare l'atteso regalo. E infatti il 21 maggio il Gonzaga inviava
all'Aretino « alcune cosette », come attestato dell'obbligo grande, che
gli aveva per le sue « divine composizioni » in onor della casa ; e nel
tempo stesso lo rimproverava perchè « essendo passati tanti belli sub-
bietti » avesse lasciato « amutire messer Pasquino » egli che sapeva
« così bene far parlar le pietre ^) » — Collegando dunque il capitolo
al duca di Mantova co' documenti relativi al dono che l'Aretino aspet-
tava *), se ne trae per certo che V Errante dovè esser divulgata nella
primavera del 1530. Anche dopo la partenza dell'Imperatore da Man-
*) È una stoccata satirica a' Duchi di Ferrara e Milano , della cui generosità
l'Aretino non aveva ancora a lodarsi.
•) Virgili, p. 240. — La ristampa della Zaffetta, Parigi 1861, ho potuto esa-
minare per cortesia del ricco bibliofilo, march. Ippolito Cavriani. — Su' due poe-
metti osceni del Veniero veggasi V Appendice III.
») Lett. aWA., I, 21.
*) Doc. XXXI, XXXII.
— 47 —
tova, il Gonzaga lasciò passare un mese prima di attenere la sua pro-
messa: ed è quindi dall'aprile al 21 maggio 1530 che fu scritto il ca-
pitolo, con cui s'accompagnava l'Errante. Nel febbraio 1531 l'Aretino
era già in disgrazia del Duca. Se poi quel poemetto fosse inviato in
copia manoscritta od a stampa, è difficile stabilire, perocché i biblio-
grafi non hanno altra notizia che della supposta edizione del 1531 in
cui V Errante è unita alla Zaffetta: al secondo poemetto scritto dal
Veniero, con non meno ributtante sudiceria, per provare che il primo
era proprio tutta farina del suo sacco, senza che vi entrasse la mano del
diletto maestro.
Vili.
Aspettando anche dal Papa, non senza malumore pel ritardo, la
somma convenuta a suggello della pace fatta, l'Aretino attese a com-
piere la Marfisa, per cui aveva già assicurato il privilegio richiesto.
Federico Gonzaga, a crescer splendore alla nuova dignità ducale, tor-
nava ad accalorarsi di veder condotto a termine il poema, e ripren-
deva le sue generose abitudini verso l'Aretino per riaccenderne l'estro.
Il caldo in quell'estate era più che mai soffocante, e il Duca pregava
con insistenza l'Aretino che, a svago delle lunghe ed uggiose giornate,
gli facesse aver spesso sue composizioni, e soprattutto quant'altro
veniva scrivendo della Marfisa i). L'Aretino infatti gli mandò allora
le stanze della genealogia de' Gonzaga, inserite nel poema, oggi per-
dute e probabilmente distrutte insieme alle parecchie migliaia di stanze
che l'Aretino disse d'aver bruciato del poema 2). Ma allora essendo
ne' migliori termini col Duca di Mantova si affrettava a finir l'opera ;
ed essendo caduto malato nel luglio, l'Aretino, nel timore di avere a
soccombere, insistè vivamente coli' ambasciatore Agnello — che da
poco aveva sostituito il Malatesta a Venezia — perchè gli fosse dato
un amanuense da cui far trascrivere la parte compiuta. Erano, diceva,
nientemeno che 3500 stanze, e avendo « ogni cosa sottosopra » voleva
0 Doc. XXXIII.
') Lettere, III, 288.
— 48 —
che tante fatiche non fossero perdute e il mondo non restasse de-
fraudato di quel po' po' di roba i). In pochi giorni però si riebbe —
per i bisogni della malattia aveva avuto dal Gonzaga cinquanta scudi ;
— e del 19 agosto troviamo una lettera al Duca, molto importante,
in raccomandazione di Arezzo sua patria.
Come Clemente VII aveva a Barcellona e Bologna pattuito con l'Im-
peratore, la rovina della libertà di Firenze s'era già consumata: ai
3 di agosto era morto il Ferruccio, sconfitto a Gavinana e vilmente
trucidato dal Maramaldo; il 12 agosto Firenze « martoriata dalla
« peste e dalla fame, dilaniata da' partiti, venduta dal Malatesta ^) »
aveva capitolato con Ferrante Gonzaga, succeduto all'Orango. Orbene
in tanto disastro che piombava non solo su Firenze ma su quasi
tutta la Toscana, battuta dalle feroci e ladronesche truppe cesaree,
Arezzo benché imperiale e tornata in potestà delle proprie fortezze
non era punto rassicurata della sua sorte, o per dir meglio ignorava
in che mani sarebbe andata a cascare, tormentata dal « sospetto di
qualche insidia o trappola fiorentina o pretesca 3) » che le avrebbe
tolto r appena ricuperata libertà. A chi rivolgersi in quell'incertezza ?
Gli Aretini pensarono che nessuno poteva giovarli più cordialmente
e con più efficacia del famoso concittadino, stabilito a Venezia, che
s'elevava a sempre maggiore fortuna e potenza, e che sapevano spe-
cialmente favorito dal Duca di Mantova, fratello al capo dell'esercito
imperiale. Pare anzi che già un'altra volta gli avessero affidata
una missione presso il Gonzaga *) : e tanto più ora gli Aretini riten-
nero che Pietro sarebbe stato un abile e ascoltato intercessore. Ed
egli invero, lieto dell'occasione offertagli di mostrare in patria quanta
fosse la sua autorità ed influenza, scrisse subito al duca Federico
ne' termini più calorosi perchè ottenesse da Ferrante valida prote-
zione per Arezzo: nessun premio più caro avrebbe potuto ricevere
da' Gonzaga pe' suoi servigi, ne essi dargli prova più splendida della
benevolenza di cui l'onoravano. Gliene sarebbe venuta « tanta ripu-
tazione in la patria e fuora » quanta non poteva più desiderare: e i
suoi conterranei sentirebbero di dovere a lui — ignobile figlio di cal-
zolaio — la conservazione della libertà.
Il Duca di Mantova non pose indugio a esaudire le preghiere del-
*) Doc. XXXIV.
') Gregorovios, op. cit, vili, 792.
») Leti. 8cr. alVA., I, 55. — Lett. de' Priori d'Arezzo, 6 sett. 1530.
♦) Doc. XXXV.
— 49 —
l'Aretino, e dalla lettera mandata a Ferrante ^) parrebbe quasi che
si trattasse della patria d'un nuovo Omero, d'un nuovo Pindaro. Il
Duca Federico faceva presente al fratello che tutti i Gonzaga dove-
vano professare all'Aretino la più grande riconoscenza « per li degni
« preconij per lui celebrati della casa... et ili"' progenitori »: e la
patria di tant'uomo doveva perciò esser tenuta nella stessa conside-
razione d'una città del loro stato. A quel modo che insigni capitani
dell'antichità classica avevano risparmiato delle città anche nemiche
per rispetto alla tomba o alla memoria di poeti e filosofi, così in onore
dell'Aretino doveva essere rispettata e protetta la sua patria, tanto
piti essendosi serbata fedele all'Imperatore. Scongiurava dunque il
fratello ad usare ogni riguardo per Arezzo, acciò l'animo di Pietro,
ansioso per il pericolo della città natale, potesse ritornare « tranquillo
« et imperturbato per vacar meglio alli studi et compositioni » con
cui allietava il mondo e celebrava casa Gonzaga. — Così vive racco-
mandazioni non furono, per allora almeno, senza effetto; e i priori
di Arezzo, scrivendone a Pietro, lo proclamavano solennemente « ser-
« vator della patria ^) ».
L'Aretino poteva davvero gloriarsi di questo grande attestato di
benevolenza ricevuto dal Duca di Mantova; ma impenitente sempre
nella sua petulante insolenza poco stette a provocare l'ira e le facili
minacce del suo mecenate. Per essere più spedito nell'approntare la
stampa della Marfisa aveva chiesto al Duca che gli fornisse un
amanuense, come s'è visto ; e poiché si tardava a mandarglielo, scappò
a dire, presenti l'ambasciatore Agnello e Tiziano: che il non com-
piacerlo era una delle solite taccagnerie, per la miseria di due o tre
scudi — che per sollevare il Duca da tanta spesa li avrebbe mandati
del suo al tesoriere — e che, se lo stuzzicavano, ne avrebbe scritte delle
belle sopra una corte così gretta. Sebbene con queste impertinenze
l'Aretino avesse inteso di ferire, più che il Principe, i suoi servitori,
pure quegli ne fu sdegnatissimo: e commise senz'altro all'ambasciatore
di dire da sua parte all'Aretino che era omai stanco di lui, e non
ne avrebbe più tollerato l'incorreggibile maldicenza. Si guardasse
bene dal toccare anche l'infimo della corte: o « al corpo di Jesù
« Cristo li farebbe dare dece pugnalate in mezzo Realto ». L'ama-
nuense che voleva gli si sarebbe dato, ma non certo per timore delle
sue bravate. — L'ambasciatore si affrettò a fare la commissione.
1) Doc. XXXVI, XXXVII.
•) Lett. cit.
Lrzio — Pietro Aretino
— 50 —
dandole anzi un'aria di minaccia più oscuramente sinistra ; e Pietro
ne rimase allibito ed attonito ^). Era la seconda volta che dal signore
di Mantova riceveva di ambasciate simili: e nulla di più strano
quanto il vedere alternarsi con tanta facilità le carezze e i favori
più lusinghieri con le minacce di pugnalate. Le quali davvero pro-
ducevano nell'Aretino, per dirla col Berni, lo stesso effetto delle
mazzate a' cani <c Scosse che l'hanno son più bei che mai » ; e così
egli appena una settimana dopo quel brusco monito avuto dal Duca
tornava a sollecitarlo come nulla fosse ^). Avendo saputo esser va-
cante in Arezzo un grosso beneficio della rendita di quattrocento du-
cati l'anno, Pietro volle tentare di ottenerlo dal Papa per mezzo del
Gonzaga; e questi lo compiacque prontamente, scrivendo al suo am-
basciatore in Koma, perchè conducesse le pratiche in modo che almeno
l'Aretino fosse soddisfatto nel suo amor proprio^). L'ambasciatore
fece la domanda, e il Papa rispose che, per togliersi dattorno il gran
numero dei postulanti, aveva già conferito quel beneficio, ma che al-
trimenti sarebbe stato lietissimo di far cosa grata al Duca e all'Are-
tino: e Pietro si tenne più che pago della cortese risposta comuni-
catagli *).
D'altronde della benevolenza del Papa l'Aretino aveva avuto di
recente le migliori prove -, verso la metà di settembre, Mons. di Va-
sone, incaricato da Clemente di accompagnare Alessandro de' Medici
alla Corte Cesarea — dove si recava per definire la nuova posizione
creata a quel bastardo dalla caduta della repubblica fiorentina —
era passato a Venezia % e a nome del Papa « in casa de la Keina
di Cipri, sorella di Cornaro » aveva consegnato all'Aretino il famoso
breve per idi Mar fisa ^). Il Vasone v'aggiunse del suo il dono della
« più vezzosa e più vaga collana », e pare anche si proponesse di
I
*) Doc. XXXVIIL
*) Del settembre, senza indicazione del giorno, è una sua lettera al Duca, in
raccomandazione d'un uomo d'armi, per cui desiderava « un luogo de lancia spez-
zata. > Doc. XXXIX.
») Doc. XL.
*) Doc. XLII, XLIII.
') Mons. di Vasone scriveva il 22 luglio 1530 al Vergerlo; e Interim mi rac-
€ comandi al signor Pietro Aretino, dicendoli che attendi pure a ultimar l'opera,
« che il Breve sarà in ordine etiam più presto del bisogno... » (Cod. marciano,
ci. V, n" LXIII ; cfr. Morsolin , (Girolamo da Schio, Vescovo e diplomatico del
tee. XVI, Vicenza 1875, p. 105).
•) Lettere, I, 20. — A Papa Clemente, 20 sett. 1530.
— 51 —
procurargli dairimperatore un cavalierato ; ma l'Aretino che tirava al
solido se ne schermì ripetendo ciò che aveva detto nel Marescalco
che « un cavaliere senza entrata è un muro senza croci, scompi-
sciato da ogniuno ^) ». Doni da parte del Papa non risulta che ne
ricevesse neppur allora; comunque l'Aretino accettò lietamente la
dimostrazione fattagli da monsignor Vasone, e la sua lettera del 20 set-
tembre a Clemente suggella la riconciliazione piena e cordiale. Egli
dichiara di provar pentimento e rossore d'aver ingiuriato il Papa
« nello ardore de gli infortunij suoi » : promette di ritornare quel
buon servo che gli era stato prima ; di modo che — conclude — « il
« serenissimo Gritti, la cui intera modestia si è interposta fra la vostra
« pacienza et il mio furore » non avrà che a lodarsene. A monsignor
Vasone poi l'Aretino diede, per presentarli al Papa, de' vasi di vetro
ammirevoli per « la foggia de l'antiquità disegnata da Giovanni da
« Udine » : e questa novità — scrive al Duca di Mantova -) — « è tanto
« piaciuta ai padroni de le fornaci da la Serena che chiamano gli
« Aretini le diverse sorti di cose ch'io feci far ivi ». Sua Santità
« ne ha fatto gran festa, et io me ne stupisco perchè mi credeva
« che in corte si guardasse oro e non vetro ».
IX.
Per quale ragione l'Aretino su' primi del 1531 cadde all'improv-
viso in completa disgrazia del Duca di Mantova, che rifiutò assoluta-
mente di riconciliarsi, malgrado le scuse e le preghiere di Pietro?
Da' documenti non si rileva con precisione ; certo è solo che l'Aretino
si doleva amaramente di Tiziano e dell'ambasciatore Agnello, a' quali
attribuiva de' mali offici che l'avevano guastato per sempre col Gon-
zaga 3). Qualunque però fosse il motivo occasionale, dal genere delle
1) Lettere, I, 19. — Al Vescovo di Vasone, 17 sett. 1530.
*) Lettere, I, 24. — Anche questa lettera ha la data del 1531, ed è da riporsi
indubbiamente all'anno prima. Al Duca di Mantova di que' vetri ne aveva man-
dato una « cassetta piena. >
") Poe. XLIV.
— 52 —
relazioni tra il Duca e l'Aretino, che abbiamo esaminato sin qui, è
facile comprendere che quel qualunque motivo era stato l'ultima
goccia che aveva fatto traboccare il vaso già colmo. E se di qualche
cosa v'è a meravigliare, è precisamente che il Duca di Mantova
avesse pazientato sì a lungo; che dinanzi allo sfacciato avventuriero
avesse per tanto tempo dimenticato la sua dignità, il suo decoro di
principe ; che avesse sul serio potuto illudersi d'avere nell'Aretino un
poeta illustre della sua casa. L'Aretino sentì la grave perdita fatta,
e non risparmiò alcun mezzo per riacquistare la grazia del Gonzaga;
ma questi fu irremovibile, e solo molti anni dappoi a preghiera del
Giovio e del Marchese del Vasto consentiva — nel 1540, poco prima
della sua morte — a ridonare l'antica benevolenza all'Aretino ^).
Ohe farci? Pietro dovette darsene pace, e d'altronde a lui era ormai
troppo facile il procurarsi de' nuovi padroni. In una sua lettera del-
l'ottobre 1530 2), egli annunziava d'essere stato richiesto a' servigi
di Alessandro de' Medici , a cui aveva risposto che prima intendeva
finire la Marfisa^ poi andrebbe, sempre con la debita licenza del suo
mecenate. Duca di Mantova : — ed ora che questi lo aveva messo in
libertà, è naturale che l'Aretino cercasse anzi tutto di attaccarsi al
bastardo di casa Medici, al quale possibilmente rivendere il poema
infelice che il Gonzaga gli aveva piantato lì in asso. Ciò si rileva
da una sua lettera al Duca Alessandro, del 16 aprile 1531, in cui
scrive modestamente: « Sì come Alexandro non volle che altro che
«e Apelle il dipignessi, Alexandro non voglia che altri che Pietro i
« suoi giesti scriva Canto la genealogia de Medici non sanza
« sdegnio de Mantua, onde vengono le nove fatiche a testimoniare al
« mondo la servitù mia amorevole ne prima verrò a servirvi da presso
« che l'opera non porti in stampa... ^) » — Ma neanche col Duca
*) Leti. alVA., II, 38 e sgg. Il Giovio annunzia lieto di avere, col Marchese
del Vasto e Tiziano, tolto ogni nebbia dall'animo del Duca Federico contro l'A.
') Doc. XLIIl.
•) Arch. di Stato di Firenze, Carte Strozziane, filza 138, e. 40. — Per mezzo
di Mons. Vasone il Duca Alessandro aveva richiesto all' A. nell'ottobre del 1530
qualche saggio della Marfisa {Leti. aìVA., I, 63); e ricevutolo, lo stesso Vasone
scriveva che si eran divertiti un mondo « con la bravura del vostro Rodomonte e
« con quella errante signora... Li cancelleri e copiisti non fanno altro che copie,
€ e si attende il resto di mano in mano. » Abbiamo già mostrato che uno de' primi
episodi del poema era la chiassosa discesa di Rodomonte all'Inferno: quanto al-
Verrante signora deve intendersi l'eroina Marfisa, e non la P. Errante come pa-
recchi hanno equivocando interpretato (Virgili, op. cit, p. 260).
— 53 —
Alessandro l'Aretino potè intendersi; e la Marfisa, misero aborto, finì
per ricascare, come si è detto, sul vano e pomposo Marchese del Vasto,
che per tema del ridicolo prese un posto segnalato nella lunga schiera
de' protettori dell'Aretino ^).
La costui fortana, dal 1530 in poi, andò sempre acquistando mag-
giore incremento; e gli anni, che si succedono, aggiungono nuovi
fasti alla sua infame celebrità. Nel 1531 si mischia alla lotta com-
battuta pel Bembo contro un giovane valoroso e infelice, che n'uscì
dilaniato ed infranto ^); e l'Aretino potè vantarsi, mostrando cosigli
effetti terribili della sua penna, d'aver fatto morire di crepacuore
il Broccardo, e di essersi ingraziato il supremo dittatore letterario
del tempo. — Nel 1532 vede consacrato il suo nome di « divino », di
« flagello de' principi » nel poema immortale dell'Ariosto. — Nel
1533 Francesco I gli manda quella superba collana d'oro, intessuta
di lingue, con una scritta che era un omaggio all'autor àe' gMùi^);
^) Si vegga nel Trucchi {Poesie, III, 212) un sonetto spiritosissimo dell' A. contro
il Davalos; riprodotto come inedito, e adespoto, hq' Manoscritti ìt. della Bihì.
Nazionale di Firenze, I, 255. — Fra' manoscritti del Mazzuchelli, conservati
alla Vaticana, nella busta concernente la Vita delV Aretino (cod. 9279, busta 20'),
trovo mi annotazione del Bracci, non so donde attinta, e dal Mazzuchelli non
utilizzata nel suo libro. L'Aretino, dopo un insuccesso militare del Davalos, gli
avrebbe mandato questa quartina insolente:
Il Marchese del Vasto da Nembrotto
Che haveva posto monte sopra monte
Nell'ultima battaglia di Piemonte
Con riverenza se la fece sotto.
Compiendo un vero ricatto, per carpir denari, l'Aretino avrebbe aggiunto a' quattro
versi una minacciosa parentesi: (per dio finisco il sonetto).
') Virgili, op. cit., p. 229 e segg. — Cfr. Cian, Un decennio della vita di
m. P. Bembo, p. 179.
') Si è sempre creduto e ripetuto sulla fede dello stesso Aretino (cfr. Mazzu-
chelli, p. 120, e Lettere, I, 28) che questa collana era fatta « in forma di lingue
« smaltate di vermiglio, col detto: Lingua eius loquetur mendacitim. * Ora, in
una lettera inedita delF Aretino a P. P. Vergerlo trovo un'altra versione che mi
sembra ineccepibilmente la sola vera : « Per questa strada della liberalità — scrive
« Pietro del 1533 — con immortali passi sale oggi al cielo il Re di Francia, del
« qual la cortesia se puoi invidiare et non imittare; et perchè non paia ch'io il
€ dica per il dono di una ricchissima collana fatta di lingue d'oro con un breve
« che dice Lingua eius loquetur judicium, veggasi il bene che la M."* sua bontà
« non sforzatamente ma di real sua natura fa al divin Luigi Alamanni, a Julio
€ Camillo, ecc., ecc. » (Arch. di Stato di Firenze, Carteggio d'Urbino, CI. I, Div. F.,
filza CII). Ben lungi dunque dall'essere un motto ingiurioso per l'Aretino, costi-
— 54 —
e tre anni dopo Carlo V per togliere l'Aretino al suo rivale, e di-
sarmarne la temuta maldicenza, lo lega a se più stabilmente con
un'annua pensione di 200 scudi ^). — La pubblicazione, fatta sulla
fine del 1537, del primo libro delle Lettere^ la prima serie cioè più
felice e più originale dei suoi articoli di giornalista, raccolti (come
usano molti pur oggi) in volume 2), compie l'edificio della sua potenza^
dinanzi alla quale si curvano anche le più nobili fronti.
tuiva invece il riconoscimento officiale del giornalista che si era eretto a giudice
di tutto e di tutti. — A proposito de' giudizi, si vegga nel Doc. XLIV un cenno
di quello composto dall'Aretino pel 1533.
*) L'ambasciatore Agnello scriveva al Duca di Mantova da Venezia 14 ott. 1586:
« L'Imperator ha donato a l'Aretino ducento scuti d'entrata sul Stato di Milano,
« cosa che dà molto da dire, parendo che Sua M.*» habbi molto mal collocato
€ questo dono, et si tiene che l'habbi fatto solo per tema che Sua Maestà ha
« ch'esso Aretino non scriva mal di lei, maxime de la cosa de la cognata. »
(Queste ultime parole sono in cifra, con la spiegazione sopra della cancelleria).
A tali relazioni incestuose accenna in parecchi sonetti della Priapea, Ni«colò-
Franco, che si diede il compito di riparare al silenzio dell'Aretino:
Vuol messer Carlo che non sia peccato
Il e la cognata per un tratto
E ch'aggia del senese, idest del matto
Chi può dormirci e non le dorme a lato...
Non ti piace egli haver preso diletto
Con la cognata? Hor pur se t'è piaciuto
Spiaceti forse ch'io te l'abbia detto?
(Cod. Casanatense, X, Vili, 42, a e. 55).
') Che le lettere più importanti fossero comparse via via a stampa in foglietto
volante, si rileva (oltre ciò che fu detto a pag. 7) da quanto il Giovio scriveva
all'Aretino, precisamente nell'agosto del 1537 {Leti. alVA., II, 37). Ringrazian-
dolo d'una lettera piena d'elogi per le sue storie, il Giovio dice scherzosamente
che sarebbe scoppiato addirittura della contentezza « se la epistola era in stampa,
« come le altre delli vostri amici grandi. > Anche questa lettera al Vescovo di
Nocera fu poi inclusa nel primo libro a p. 272. — Per non citare parecchie altre
lettere scritte all'Aretino, da cui pure risulta com'ei stampasse e diffondesse ra-
pidamente i suoi giudizi politici 0 articoli d'occasione, e come fossero assai letti
e cercati (cfr. Lett. aWA., I, 287 e 335; II, 93), recheremo soltanto una sua
curiosissima lettera del 21 maggio 1537 al Cardinale Caracciolo (I, 102), dove
si vede quanto l'A. teneva alla propria qualità di giornalista influente sull'opi-
nione pubblica. € Ne l'udire io la pazzia di quegli, che senza ragione e senza
* proposito parlano di Sua Maestà, le ho scritto una lettera, de la qual vi mando
« la copia, acciò che vediate quanto importi ai Principi d'esser conosciuti da co-
« loro che gli conoscono. Stupenda cosa è il caso de l'Imperadoi e, chi ben lo con-
— 55 —
Lontano dalle corti, egli trova modo di dominarle tutte; di usu-
fruire i profitti senza gli uggiosi doveri e le avvilenti servitù di quella
vita di cortigiano, che ha con tanta vivacità descritto nelle commedie,
ne' dialoghi. I mezzi a cui ricorre sono abbietti : adulazione smaccata
e maldicenza, accattonaggio nauseabondo e ricatto; ma sarebbe ingiusto
disconoscere che erano la moneta corrente del secolo, e che almeno in
questo avventuriero v'era un sentimento abbastanza distinto e preciso
di ciò che avrebbe dovuto essere l'emancipazione e la dignità delle
lettere ^). Egli si professa « uomo libero per la grazia di Dio », pro-
€ sidera. La maggior parte de la gente rinasce ai gridi dei Franciosi e dei Turchi,
« i quali fanno tumulto in mare et in terra; e rinascendo si lascia ficcar nel
« capo che guai ad noi, e non si accorgono che il testimonio de la Cesarea gran-
« dezza è lo sforzo che se le fa centra. Ma come gonfiaria la ciancia de le turbe
« adherenti con le chiacchiare a Francia, se io ci mescolarsi le mie parole?
« 0 che rumore ne farebbero. » Egli però, da giornalista tanto autorevole quanto
disinteressato, dichiara di seguir fedelmente a parteggiare per Carlo V, in cui gli
par di vedere « un leone circondato dai cani, da Tarme e dai pastori, che per
« propria generosità di natura sprezza gli spiedi et i dardi che se gli aventano,
« difendendosi solamente con il terror degli occhi » ; — e hisogna riconoscere che
l'Aretino aveva fiutato bene, con l'appoggiarsi al magno imperatore. — Sul gran
successo che ebbe il primo libro delle lettere dell'A. si vegga quanto gli scriveva
un Bernardino Teodolo da Forlì; Leti. alVA., I, 158. La lettera del Teodolo ha
per errore la data del 3 maggio 1533, e il Mazzuchelli fu da ciò tratto a sup-
porre un'altra edizione anteriore di quel primo libro; ma basta osservare che il
Teodolo si dichiara ostilissimo a Paolo UT, per comprendere che la vera data della
sua lettera è il 1538.
^) A tale riguardo è notevolissima una lettera dell'A. a Giannantonio di Fo-
ligno (I, 84): « Ecco — egli scrive — io tocco alcuno dei grandi: e toccandogli
« questo e quel cortigianuzzo soffia, e con le sue colere stentate mi battezza a
« suo modo, credendosi rubar favori : alcun altro il fa per parer d'esserci e non
« perchè in lui sia né giuditio, né bontà; onde gli infiniti seguaci de la ignoranza
< calcano sinistramente gli honori altrui. Io ho scritto ciò che ho scritto per
« grado de la vertù, la cui gloria era occupata da le tenebre de l'avaritia dei
« signori: et innanzi ch'io cominciassi a lacerargli il nom£, i vertuosi mendica-
« vano Vhoneste commodità de la vita, e se alcun pur si riparava da le molestie
« de la necessità otteneva ciò come buffone e non come persona di merito, onde
« la mia penna armata dei suoi terrori ha fatto sì che essi riconoscendosi hanno
« raccolti i belli intelletti con isforzata cortesia Adunque i buoni debbono
« havermi caro, perchè io con il sangue militai sempre per la vertù, et per me
« solo ai nostri tempi veste di broccato, bee nelle coppe d'oro ecc. ecc. È empio
« chi non dice ch'io l'ho riposta nel suo antico stato : et essendo il redentor di
« lei che ciancia l'invidia e la plebe? Fratel mio, io non me ne vanto per superbia
« ma per rispondere a qualunche afferma i miei vangeli per mal dire. Caminino
— 56 —
clama il diritto della virtù, dell'operosità letteraria ad essere degna-
mente ricompensata; e poiché l'uso delle corti fa della ricompensa
un'elemosina, ebbene quest'elemosina e' la impone, e costringe i Prin-
cipi a lasciarsi taglieggiare, a dichiararglisi tributari. Mentre l'artista
sereno, che crea capolavori, deve acconciarsi paziente a' superbi fastidi,
all'ingratitudine de' potenti; e ne' tinelli s'accalca e s'accapiglia, ròsa
dalla fame e dall'invidia, una turba di letterati ; l'Aretino nella vita
lieta e chiassosa di Venezia gode i grassi tributi che sa estorcere ine-
sauribilmente, forte della grand'arma della pubblicità che egli tratta
come un capitano di ventura, pronto a servire al miglior offerente:
diventa insomma il primo giornalista mantenuto, senza l'ipocrisia
dei fondi segreti. La stampa è la nuova potenza che s'afferma, con
cui bisogna contare ; e i Principi scendono a patti con l'Aretino che
la rappresenta, riconoscendo — come scriveva il Marchese di Man-
tova — che, < sono tempi che giova più la lode che il biasmo »,
e a loro conviene avere amico chi può influire sull'opinione pubblica
e per essa sugli avvenimenti ^).
Quando nel 1547 egli fu fatto bastonare dall'ambasciatore inglese 2),
a cui aveva apposto di essersi trattenuti certi denari che Pietro aspet-
tava in regalo, ecco ciò che il segretario Lottini, anche a nome del
Duca Cosimo, scriveva all'orator Pandolfini in Venezia :
« Il caso di m. Pietro Aretino così come è stato inopinato, così me
« in particolare ha travagliato assai per lo amor ch'io li porto, et
« certamente che sua Ex. anchora ne ha hauto passione , perchè gli
« pare che sia stata maculata quella libertà che gli è stata data da
« tutti i Principi cristiani; ne poteva cotesto imbasciatore dar più
« grande testimonio a quello che haveva detto M. Piero di lui, che
« di usare un tratto simile, che si debbe pensare che non sarebbe
« venuto in collera, si non gli fusse stato detto il vero. Se V. S. 0 va 0
« pure i dotti per le strade che gli han fatte le mie sicure braccia, se voglion farsi
* beflfe de gli intrighi e de l'insidie signorili. * — Cfr. Graf, Un processo a P. A.
{Nuova Antologìa, 1 giugno 1886, p. 440 e sgg.).
*) « La paura ch'egli aveva suscitato nell'animo de' Principi fu poscia cagione
« non ultima degli accordi stipulati fra essi di non tollerare reciprocamente che
« si stampasse ne' loro Stati cosa alcuna che loro fosse mal gradita, e fa principio
« di quelle limitazioni alla libertà di manifestare le idee per la stampa, le quali
€ più o meno eccessive si mantennero in Italia fino ai nostri tempi. » Campori,
P. A. e il Duca di Ferrara in Atti e Mem. delle BB. Dep. di st. p. per hprov.
modenesi e parmensi, voi. V.
*) Mazzuchelli, p. 70.
— 57 —
« manda a veder M. Piero gli basci di gratia le mani a nome mio...
« Di Firenze alli 8 di ottobre 1547 i) ».
Forte di questa libertà accordatagli, l'Aretino per tener alto il
prezzo della sua penna, s'era organizzato la più abile reclame^ sapeva
far bene scampanare — com'egli dice — il proprio nome; e a serbar
sempre desta l'attenzione del pubblico, da vero giornalista, senza
studi, senza preparazione, con un ingegno rozzo ma originalissimo,
scriveva di tutto: giudizi politici e critica artistica, roba pornografica
e vite de' santi... secondo il gusto dei committenti a un tanto il
braccio. Al pari dei giornalisti, pubblicava tutte le lettere che gli
indirizzavano cospicui personaggi, amici ed ammiratori : e di questi
omaggi della viltà contemporanea formò addirittura due grossi volumi
del suo editore e compare Marcolini. Che potevano fare letterati ed
artisti dinanzi a così grande e strano successo? Essi subiscono l'ascen-
dente dell'Aretino, e per interesse gli fanno la corte, ne mendicano
le lodi e l'appoggio, s'affollano alla sua casa, com'oggi agli uffici d'un
giornale influente e diffuso.
Questo periodo della maggiore fortuna dell'Aretino, per cui ho
raccolto copia di materiali non piccola, confido di poter quanto prima
tratteggiare ampiamente; ed è con tale speranza che chiudo le pre-
senti ricerche sulle relazioni fra l'Aretino e Federico Gonzaga —
il primo e più generoso dei Principi tributari, il primo sul quale
l'Aretino sperimentò largamente quelle arti e quelle astuzie, che poscia
doveva estendere su più vasta scala d'operazione.
*) Carte strozziane, filza 67 e. 10.
DOCUMENTI
I.
Il Marchese di Mantova a F. Guicciardini,
{Minute, filza 1527)
Al Guizardino.
S.'^'f Locotenente quanto fratello carissimo. Io seria ingrato verso la devotione
che mi ha sempre havuto ni. Petro Aretino, et farla officio d'homo poco amorevole
de la virtù, se in ogni cosa non cercassi giovare a lui al mondo unico. Et ve-
ramente gli vedo fare miracoli, et in un mese ha composto tante cose, et versi
et prose, che in X anni non le metteriano insieme tutti li ingegni di Italia.
Et per questo et per essere lui optima persona et consumatasi mezza l'età al
servitio di doi Papi et con quella aflfectione et fede che sa ogniuno, et sempre
havendo più cara la gloria di Sua Santità che la propria vita, son sforzato aiu-
tarlo ; et se in questa cosa honesta N. S. non me exaudisce mi tenero certissimo
esserli poco grato. Et se m. Petro non li fusse humil servitore non che io lo
aiutassi lo cacciarci da me come pessimo homo. Et quel ch'io desidero da V. S. è
che ritorni in sua buona gratia, cosi del Rev. Mons. Datario : et ch'io stimo
tanto questo, quanto il grado di mio fratello *). Né se cura m. Petro tornarse
in Roma, ma qualche demostratione che demostri la servitù sua non esser per-
duta. Et veramente non è honore ninno a N. S. né al S. Datario a non quietare
costui, perchè sono tempi che giova più la lode che il biasmo, maxime che la
cosa è brutta et nota a ciascuno. Io per me mancherei prima a me stesso, che
a m. Petro, ma quel ch'io faccio il fo così per honore di N. S. come per
utile suo. Io voglio mandare a Roma per tale interesse et a N. S. et al S. Da-
tario scrivere di mia mano, et pregove scriviate di ciò con quel modo che
pare a voi che seti savissimo ') , et ho caro intendere come trovati la cosa
1) Ercole, che desiderava veder cardinale, come fa infatti.
») Il Guicciardini rispondeva da Parma 2 febbraio: « Per obedire a V. Ex. sapendo che la obedientia
« scusa la presumptione farò quello offitio ch'essa mi comanda per conto di m. Pietro Arrotino. Et ben
« ch'io sappia che a quella sia superfluo l'usare il mezo mio, perchè più authorità ha l'ombra sol»
« d'un cenno suo che tutte le fatiche o actioni mie, pure desideroso d'obedirla non ricerche la causa
« per che essa me lo comanda, ma con ogni diligentia et studio farò l'offitio da essa impostomi... »
— 62 —
disposta, et secondo che io per vostri avisi saperò così provederò con essi,
sì che per amor mio et la grandissima fede che in voi ha m. Petro durati
questa fatica et subito mandarò a Roma come fati sapere che sia tempo. A tutti
li commodi et piaceri di V. S. me offro dispositissimo, ecc.
Mant. 23 gennaio.
El March, di Mant.
IL
L'ambasciatore F. Gonzaga al Marchese.
... Heri fu a ritrovarme un frate di S. Francesco, che è confessore del Papa,
quale me disse che era venuto a mo per advertirme di una cosa che non era
di poca importantia al S. mio patrone; questo è che novamente era venuto in
luce qui in Roma un libretto di Petro Aretino, quale è pieno di maledicentia,
et tocca precipuamente il Papa et Cardinali et altri prelati di questa corte, et
è intitulato al S.; cosa che essendo stata vista qui ha fatto scandalizzare molto
le brigate, in specie quelli a chi tocca, parendo strano che, essendo Sua Ex.
quello che è con Sua Santità et con questi Rev.mi, l'habbia comportato che in
Mantua sotto l'ombra sua et sotto il suo nome sia venuta fori una tale opera
maledica.
Così spirato da qualche persona che ama l'honore del S. Ill.mo , et che
desidera che S. Ex. si conservi la gratia di S. S.*^ era venuto confidentemente
a me ad advertirme, acciocché ne scrivessi a Sua Ex. et la pregassi ad esser
contenta de levare esso Aretino di Mantua et privarlo de la gratia sua, ac-
ciocché S. S.*» et questi altri S." non habbino de haver causa di pensare che
la sia conscia et participe di simili tristitie, le quali si po' esser certo che de-
spiaceno sopra modo et premeno quanto si conviene a chi stima Phonor suo.
Io li ho.... •).
Roma 26 aprile 1527.
Bisposta della Cancelleria alVamh. F. Gonzaga.
(Minute)
.... Alla parte di P. Aretino, la quale il S. ha ben considerata, dico de
comissione di S. Ex. che V. S. ha resposto bene al frate, et che se accade più
ad essa V. S. parlare o col ditto frate o con altri la dica che ella, quando
venne qui il S. Joanne de Medici et che morì, fu pregato da esso Aretino
ad dargli recapito per sei o otto dì : il che non li seppe negare , maxime
non credendo se non che lui fosse in gratia del Papa per essere stato inter-
tenuto dal S. Jo. L'è vero che et alhora et per inanzi haveva cercato acconciarsi
•) Muea il fefoito, con U risposta dell'ambasciatore al frate.
— es-
ani servitij de S. Ex., ma ella non lo volse mai, non li piacendo simile bestia.
L'è vero che qualche volta S. Ex. se pigliava piacere de sue compositioni, ma
non che li sia mai piaciuto che scrivesse et dicesse male del Papa, né de Car-
dinali et prelati; anzi poi che ha conosciuto la sua maledica natura l'ha tanto
abhorrito che non lo poteva patire, et già molti dì non li ha fatto bona ciera,
et non lo voleva vedere, et finalmente li fece dire che l'andasse con Dio, che lo
haveva fatto ricercare di stare qui sei o otto di, et horraai erano cinque mesi
et più. Lui cominciò a bravare et minacciare de scriver tanto male de S. Ex.
quanto facesse mai de homo, dicendo che non li manchariano subietti volendo
metterli filo; ma ella li fece fare ambassata de sorta che subito se humiliò come
una pecora et se ne andò col malanno. Vero è che il S. non volse restare di
usare della sua solita benigna et liberal natura donandogli cento scudi et cer-
t'altre cose.
Che Phabbia inscritto *) libro de maledictione al S., S. Ex. non ne sa niente,
se ben può essere che lui l'habbi fatto; V. S. veda rao' et facci intendere lì se
S. Ex. ha consentito alle ditte maleditioni o no. Anzi ella dice che se a N. S.
non basta che S. Ex. lo habbia licentiato accenni pur se li piace altro, che facci
pur secretamente un motto del volere suo o altro che S. Beatitudine li accenni che
piacesse a quella, che lo farà portare in un bolettino, et se l'ha scapato le mani
de altri non scaparà forsi le sue et faria ben di modo che non se saperla ad
instantia de chi fosse stato fatto. Questo è quanto all'Aretino
Mant. 4 maggio 1527.
IIL
Il Marchese di Mantova alV Aretino.
{Reg. Liti. Re$erv., Lib. 38)
M. Petro mio. Dapoi che seti a Venetia ho recevuto IIII vostre lettere '),
et con una di esse li sonetti che mi haveti mandati. Tutte mi sono state gratiss.
et iocondiss.» per essere cose dotte et piacevole, et ne ho preso gran spasso et
piacere, come faccio de tutte le vostre belle compositioni le quali mi deiettano
tanto quanto credo che voi sapiati. Però ve ne rendo infinite gratie et ve ne
resto con obligo non mediocre. Per altre mie lettere ho risposto alle due prime
vostre; queste scranno per risposta de le altre due, acciocché sappiati che sono
capitate bene et sono sta' lette con piacere da me, et acciocché sapiate che vo-
1) dedicato.
2) Tutte purtroppo smarrite, Insieme ad altre a cui più appresso si veggono le risposte del Marchese.
— Francesco Coccio, in una lettera a Leonardo Parpaglioni, che si legge n^' Ragionamenti dell'Aretino
(ed. di Cosmopoli, p. 417) dopo grandi elogi a Pietro che componeva con una rapidità meravigUosa, affa-
ticando gli stampatori — come un giornalista —, deplora che siano disperse mille cose originalissime,
specialmente satiriche, da lui improvvisate. Ben è vero - soggiunge — che « U Duca di Mantova né
ha gran copia. »
— 64 —
lontieri vi ho fatto la gratia di rivedere il vostro iuditio, benché anche prima
lo havessi revisto, et trovo che l'è il più veridico iudicio che sii sta' fatto già
molti anni, et che sete il miglior astrologo che sia, et che potete essere diman-
dato propheta divino. Aspetarò mo' in recognitione di queste gratie voi mi at-
tendiati la promessa fattami di mandarmi quello che uscirà da l'optimo vostro
ingegno, come vi prego che facciati perchè non mi potria essere fatto il maggior
piacere et non trovo in cosa alcuna maggior iocondità di quello che faccio in
vostri scritti Mantova 28 maggio 1527.
IV.
(Codice marciano, CI. XI it.. no LXVI, a carte 282 /• e segg.)
Al Magnanimo Principe Federico Gonzaga Marchese de Mantova.
Optimo Signore, Io ho intitolato a V. Ex. questa Canzone i), la quale ho fatta
perchè l'Arciv. Cornare che me n'ha pregato è degno d'essere obedito, et se ci
è qualche vocabolo che non sia petrarchevole non è perch'io non conosca messer
Sovente et Ser Unquanco et Don Quinci et maestro Quindi^ forse quanto gli
altri poeti quae pars est. Ma la passione che diede quella bona robba di Monna
Laura a Ser Petrarcha fu più dolce che questa che ci dà Roma coda mundi per
gratia de li Spagnoli et dei Tedeschi, che per dio bisogneria che per isfogarsi
le parole fessene spiedi et archibusi.
Hora degnatevi legerla, che secundo che dicono l'infinite et nobilissime persone
che in così fatto caso hanno mendicata la vita, la ruina di Cartagine et di Je-
rusalem et quella di Troia dovette essere minore, perchè ci sono stati offesi
più Dei che huomeni, et non bisogna ch'io vi rammenti il pianto mentre che leg-
gerete l'excidio de la commune patria, perchè io so quanto vi dole il publico
danno, per esser voi solo amico de la Italia et mal concia Chiesa.
Et a V. Ex. racomando la servitù mia ecc.
A VII de luglio 1527.
Di V. Bx.°ia S.
Perpetuo Ser.«
P. A.
Deh havess'io quella terribil tromba
Ch'altamente cantò di Troia il pianto,
0 equali al suggetto almen gli accenti.
Foss'io Vergilio te, te foss'io tanto
•) Nel cod. nuurc. si hanno quasi due lezioni sovrapposte di questa canzone : generalmente migliore
è la aee<Hida, che perdo pia spesso ho seguito ; alle volte per altro è difficile raccapezzarsi fra tante
▼aiiaBti e correxioni che l'A. introdusse nella prima redazione, e che lo scrittore del codice ebbe cura
di MeogUere.
— es-
che dir potessi il duol che in ciel rimbomba
De l'alma et diva madre de le genti.
Ma se dove tu sei l'angoscie senti
De la già nostra et tua patria che era
Eegina invitta et bora è serva e doma,
Vieni et deplora, come Troia, Roma,
Roma compagna a Cartagine vera.
Che roina sì fiera
Jerusalem non vidde andando al fondo.
Macchia eterna sul volto al cielo e al mondo.
Il dì sexto di Maggio, ohimè l'orrendo
Giorno infelice, paventoso et crudo
Che fa scrivendo sbigotir gl'inchiostri.
In mezzo al fuoco et drente al ferro nudo,
In preda al temerario ardir tremendo
D'Alemagna et di Spagna, a gli occhi nostri
In man di cani et de spietati mostri
De l'universo la diletta donna
Trovossi inerme di consigli et d'armi
(Aiutatimi a dirlo ingrati carmi).
Di magio il sexto l'unica madonna
Del gran mondo colonna
Violata, mendica et genuflessa,
Lorda di sangue, altrui pianse et se stessa.
Piangeva più de' suoi bei tetti altieri.
Che la fiamma mandavano a le stelle,
Che de le pia^ sue per tutto sparte,
Et mentre le bellissime donzelle
Sforzavano gli iniqui desideri,
Languir facea le pietre in ogni parte.
Vide pili volte il furibondo marte
Che figlio unico uccise inanci al padre
Et sol turbarsi et per dolor fuggire.
Passione aggiugnea al gran martire
Quando la vecchia et terrefatta madre
Rabiosa infra le squadre
El figlio giovinetto havea ricolto
Et ne le braccia sue stanche sepolto.
Vide la donna fida e '1 sposo acceso
(Pur dianzi al casto letto agiunti insieme)
Satiar del giovin sangue il coltel empio.
Vide il pio genitor che a l'hore extreme
Pose la figlia aciò restasse illeso
Il caro fior di pudicicia exempio
... Quei che pur hieri giunsero a la cuna
Purno ucisi vilmente entro le fasce
Et inanzi a la colpa hebber la pena,
Luzio — Pietro Arftino
— 66 -
Et quei che al materno alvo haveano a pena
Le membra humane naturali fatte
Prima morir che nascesser nel ventre.
Chi da finestra fu a ventato mentre
Dolce suggeva da le mamme intatte
Vie più sangue che latte.
Ma può dir chi non vide i casi rei:
Troppo sono obligato a gli occhi miei.
Sul ponte ove Adriano ha la gran mole
Una romana infuriata corse
Che '1 corpo havea corrotto e casto il core,
Et poi che '1 caso a' circustanti porse
Disse al Tever con lachrime et parole:
Levami il fango del perduto honore,
Tu sarai del mio danno rederaptore,
Tu il mio sepolcro. E nel sanguigno fiume
Voluntaria gettò le offese membra ^)
Sangue è corso il bel Tebro, è corso sangue
Il Re de i fiumi u' passar d'ogni clima
Dbmiti regi et più triomphi et palme,
Tal che T Tirreno mar che ridea prima
De sì crudel tributo ammira et langue.
Via Sacra e Lata u' tante degne salme
Ricche passar, di corpi miserandi
Coperta stassi, né è chi gli ricopra,
Piange il caso quel ciel che gli sta sopra,
Ne sospiran gli influssi lor nefandi,
Et così gli honorandi
Huomeni stansi senza sepoltura,
Spetacol che a la morte fa paura.
Quando l'imperator dei Turchi Rhodi
Servo si fece et di Jesù il fratello
Dell'antica sbandì saneta magione,
Libero questo se n'andava et quello
(Famose al vincitor perpetue lodi).
Et reverì l'altrui religione.
Et tante de le sue morir persone
Che per la sanguinosa aspra vittoria
Li era lecito usar gran crudeltade.
Et queste turbe prive di pìetade,
Del ciel nimiche, di fede et di gloria,
Per lassar ria memoria,
("ielo e terra hanno offeso in vii dispetto
De Christo ne l'altissimo conspetto
>) Su questi tr»gid incidenti del sacco di Roma, cfr. Gbegokovius, op. cit., Vili, p. 687; o la let-
tera da me pnbblicat* di Francesco Gonzaga (F. Maramaldo; Ancona, 188:?, p. 81).
— 67 —
0 eterno Signor, Sancto de Sancti,
Benché de assai habbin passato il segno
D'ogni remission nostri peccati,
Il giustissimo tuo severo sdegno
Tempera hormai, et i gran vicij e tanti
Sien da la tua pietade superati.
Et se t'agrada pur che sien purgati
I mali atroci ove s'è visso e vive,
Non lasciare schernire i templi toi,
Che in vero è cosa inhumana fra noi
Che un vii cavallo all'are sancte arriva,
U' cerimonie dive
S'usavan celebrar, per cui mostrarne
Ti degnavi il tuo sangue e la tua carne.
L'hostia sacra dich'io, Christo verace,
Che i fier nemici de la nostra fede
Hanno oltraggiata in acqua indegna, in foco;
Et le reliquie di quei, che mercede
Teco impetrar, con impeto rapace
Senz'honor vanno in ogni brutto loco.
Remira, o re de Idei, contempla un poco
Le donne sacre a te, per cui non s'erra.
Come il vergineo fior gli è tolto a forza...
Né consentir che chi t'asembra in terra
Servo rimanga e in dubio de la vita,
Che a Pier non a Clemente porgi aita.
Et tu Carlo immortai che '1 cognome hai
Di Cesar, di Catholico, e d'invicto,
Doni da tua magnanima potenza;
Se pon ment« di Roma al gran conflicto.
Tu stesso alla vittoria scemerai
Et le lodi et l'honore et l'eccelenza,
Perchè manchato se' de la clemenza
A Dio e a noi, onde vien che s'offenda
II titol ch'hanno i Cesari per sorte.
Et poi Roma non merta e stracio e morte
Da Cesar, anci corona che splenda
Per l'universo e ascenda
A quel grado che già da Cesar hebbe,
Et s'hor Cesare il fa, fa ciò ch'ei debbe.
Movati anchor che se' Re de Romani,
Et qual Neron non voler Roma estinta,
Roma d'imperatori antico seggio.
Volgi homai le tue insegne e le tue mani
Nell'oriente u' dominar ti veggio,
E fia per te l'infedel setta vinta.
Che t'ha fatto l'Italia afflitta e cìnta
— 68 —
De le malvagie tue barbare schiere?
Richiama altrove le tue genti altiere,
Poi ch'a l'estremo è l'alma Roma bella
Di Milano sorella,
Milan secondo et Roma primo danno,
Terrore a' vivi e a quei che nasceranno.
Et benché gran mercè del tuo pianeta
Triomphi et hor superbo al carro meni
Un Papa e un Re, trophei di vostra altezza,
E per pompa magior di Christo tieni
I cardinal prigioni, et già la meta
D'Hercole passi e afreni ogni alterezza,
Tal che fortuna a dare et torre avezza
Cagion che vinci per miracol piglia
II glorioso tuo volar tant'alto.
Non far a' preghi giusti il cor di smalto,
Ch'omai slam tutti de la tua famiglia
Et ne aiuta e consiglia,
Rendi a Cesare il suo del magno aquisto
Et Cesar dia quel ch'è di Christo a Christo.
Che se fai questo, non fia tanto eterno
Il mondo quanto il tuo gran nome chiaro,
Nò mai gli porran gli anni al volto il velo,
Et l'innocente sparso sangue caro
Et ogni disperata alma a l'inferno
Non chiamerà vendetta ivi né in cielo.
Se noi fai, anche Italia in mano ha '1 telo,
Venetia è inexpugnabile et anchora
Inghilterra et Fiorenza ha oro et senno.
Francia che solea vincer già col cenno
In util suo comincia a venir bora.
Chiunque Christo adora
Havrai se vuoi; se non, con forti tempre
Pugneran teco per non pugnar sempre.
Vanne a Mantova, figlia mesta e humile,
Et presentati al magno Federico
Ch'à di quel che tu conti immensa doglia.
Et dì: mio padre di piacere ha voglia
Al Rangon Guido e a voi d'Italia amico ^).
E ascolta ciò ch'io dico.
Del gran Giovanni a l'urna anchor ti prostra
Che Roma estinto lui non fu più nostra.
1) Coiì U lezione soTnpposta. La prima era invece :
Di piacervi ha voglia
Perchè vero de Italia fete amico.
69
{ibid., a e. 284 v.)
Mastro Pasquino.
Pax vobis brigata
E Dio ve dia in le mani
A giudei et marrani
Et a tedeschi,
Che a Roma a quei vin freschi
Si stanno bora a sguazare
Attendendo a eh.. ..re
Huomini et donne.
E gli orsi e le colonne
Populusque romano
Di caso tanto strano
Han patientia.
Hora senza licentia
Dirò, ben ch'io sia fiacho,-
Chi mandò Roma a sacho
E quando e chome.
Dicovi ancho el mio nome
Perchè voi noi sapete,
Non son né mai fui prete
0 loro amico.
Notate ciò ch'io dico,
Io non son Gian Mattheo
Archimulo e plebeo
')
Né *) quel tristo,
Né '1 compagno Salviati,
Né degli sciagurati
Il Caffo Alberto,
Vo' dir di quel diserto
Di Carpi già signore,
Ribaldo traditore
Hoggi in castello.
Non io, che non son quello,
Io sono il poverino
Vostro mastro Pasquino
Ignudo e schalzo.
E di trotto e di balzo
Son da le man campato
De nemici e son stato
Loro prigione.
E perchè le persone
Non mi conoscon tutte
Havuto ho de le frutte
De li ribaldi.
In el cui ferri caldi,
Tutti i coglion pelati
Credendo che ducati
In chioccha havessi.
E volean ch'io dicessi
Si ero Phelippo Stroci
E coi denti m'han moci
Ambi gli orecchij,
E ancho hebbi parechi
Crudi di corda tratti,
Alfin dui forcier tratti
Hebbi d'un loco
Ch'io nascosi per gioco
Apresso a un tre anni,
Et creser fusser panni
E drappi eletti.
Cognosciuti i sonetti
Del profeta Aretino
Tutti a mastro Pasquino
Fecero festa.
Né me fidai di questa
Lor thodesca amicicia
E fugii con malicia
Un giorno ignudo.
E tremo a ghiado et sudo
Quando io penso che Roma
Visto ho in un sacco doma
E minata.
') Abraso.
— 70 —
La lega slegacciata
È già passato l'anno
Che a sua vergogna e danno
Scempiamente
Andò con molta gente
E più d'un capitano
Per aquistar Milano
E die l'assalto,
Poi la notte fece alto
Cioè fuggissi via
Con gran vigliaccheria
A Marignano.
L'exercito marrano
Che stava sul partire
Vedendo altrui fuggire
Si stette forte,
Né ci à colpa la sorte
Né Urbino 1) in tai marroni,
Ma con supportationi
Armorum nostri
Da le zappe e da rostri
Levati alhora alhora
Che l'anima me achora
Quando io lo penso.
Che vituperio immenso
A dir che de furfanti
Quarantamilìa fanti
Anumerati
E tutti strapagati
Da Francia e da la Chiesa.
Questi militi instrutti
In debellar galline,
De villani ruine
E de paesi ')
(manca il seguito)
') n Duca d'Urbino, capitano della Lega.
') Che la frottola seguitasse narrando burlescamente il sacco di Roma si può arguire dalla P. Errante
del Veniero , il quale nel canto quarto (st. 20—22) sullo stesso soggetto cita Pasquino ed usa frasi
sgaaiate aretinesche:
Mentre l'illustre et unica poltrona
Col e... alti miracoli facea,
Ecco la Spagna et Lamagna in persona
Ch'adosso a Koma in collera correa.
\ l'armi ogni campana in furia sona,
Ogn'huom misericordia al ciel chiedea,
Chi fugge, chi s'asconde e chi tremando
Dicea sancta sanctorum mi racomando.
Intanto ser Don Diego e Don Odrico,
Don Sancio di Laynes a far guerra usi
Senza conoscer amico o nemico,
Al suon de' musichevoli archibusi
Entrare in Roma — io tremo mentre '1 dico
Sbucar facendo i Monsignor rinchiusi,
Populusque romanus e ogni gente.
Come conta Pasqiiin ch'aera presente.
Piangea ciascun, ciascun chiedeva aita
-Sol l'Errante non era sbigottita
A la ruina et a la destruttione
Di Itotna muda mundi e de' suoi Preti
71
V.
Il Marchese di Mantova a P. Aretino.
(Reg. Liit. Reserv., Lil). 38)
Magnifice ecc. In questi dì hebbi le lettere vostre insieme con la piacevolissima
frottola et la dottissima canzone, composta per voi nella mina de Roma, le quali
mi sono state gratissime, si come sogliono sempre essere tutte le cose vostre,
tanto argute et ingeniose quanto sono, et sì come mi hanno fatto gran.^^'' piacere
cosi sumamente ve ne ringratiamo, tanto più vedendo che non omettete occa-
sione alcuna dove vi accadi parlare et scrivere honorevolmente di me, il che io
estimo assai, et sentomine molto obligato.
Ho doppoi avuto li due belissimi quadri del Tuciano, che mi havete mandati
per il servitor vostro, li quali mi sono sta' molto cari, sì per il desiderio ch'io
havevo di havere un'opera fatta da così dotte mani, come sono quelle de lo ex-
celiente p'° Tuciano, come ancho per rapresentarmisi in uno di essi quadri la
effigie di così dotto huomo come seti voi, et nello altro potendo io contemplare
la imagine d'una persona tanto amata da me quanto era il S.^ Hier." Adorno.
Sareti adunque contento di ringratiar summamente in nome mio esso Tuciano,
facendo intendere che in breve li farò bene un presente tale che '1 potrà cogno-
scere quanto mi sia stata grata una tanta dimostratione, quanta ha usato verso
di me al presente, la qual non voglio per modo alcuno passi senza che da me
sia remunerata come si conviene ^).
Mando al presente a voi una veste, quale sareti contento godere per amor mio
tal qual è con quel bon core che io ve la dono, pregando ogni volta ve ac-
caderà comporre qualche bella cosa che non vi sia grave farmene participe, che
di questo non mi ne potreste fare maggior piacere, ecc. ecc.
Da Mantova alli VITI di Julio 1527.
VI.
Dei medesimo,
{ibid.)
Mag.«^° et dotiss." m. Pietro. Hebbi questi dì passati una littera vostra insieme
con alcuni vetri che mi mandasti a dono; la quale mi fu gratiss. altretanto di
quello che mi forno li vetri che somamente mi piaquero, per essere in vero
belliss. et ben fatti et di foggia molto nova. Et come che simili novità sogliono
piacere sempre ad ogniuno, nondimeno dilectano me sommamente. Per il che vi
ne ringratio infinitamente et non sarei già stato tanto ad fare questo officio et
a respondervi, se non fosse stato ch'io aspettavo il messo vostro che venesse
') Il paragrafo di questa lettera, relativo a' due quadri del Tiziano, fa pubblicato dal Braghirolli, l. e;
(cfr. Cavalcaselle e Crowe, op. cit., I, 285).
— 72 —
per la risposta, quale poi che mi hebbe presentato li detti vetri non è mai com-
parso. Et perchè per essa mi scrivevati che quel altro vostro servo che mi portò
li rettratti non era ancor gionto a voi, io mi ne maravigliai molto per esser
stato expedito di qua già molti dì. Nondimeno perchè per un'altra che mi haveti
dopoi scritto non mi haveti fatto mentione altrimenti di costui, mi penso che
a quest'hora debba esser venuto, perchè non sera necessario che mandiati altri-
menti in qua la colomba, qual vi doveti pur tenir cara (?).
Con l'altra detta lettera vostra io ho avuto il belliss." capitolo che in nome
d'Italia haveti indriciato al Christianissimo. Il quale veramente mi è piaciuto et
hollo letto e riletto più volte con mia gran.™" satisfatione per essere una belliss.»
inventione ben detta, ingeniosa, dotiss.» et argutiss.* come sogliono sempre essere
tutte le cose vostre
Et circa l'andata vostra in Franza a me non accade altro, se non che vediate
se in questa vostra partita vi posso far piacere alcuno, et ricercandomi non
mancare di far tutto quello che sapere Qsservi di satisfatione. Io non vi dico
altrimenti dell'officio che haveti ad fare per me in Franza, perochè mi rendo
certiss.*" che non potresti mancare della usanza et amorevolezza vostra verso me.
Mantova 4 agosto 1527.
vn.
Del medesimo.
(Reg. Liti. Reserv., Lib. 39)
M.<^ ecc. In questi dì passati hebbi una lettera vostra per la quale mi ricer-
cavati di 25 scudi per vostro bisogno, li quali vi haveria mandati fin allhora,
come quello che non desidera se non di farvi piacere; ma la sorte mia volse
che in quelli mederai dì mi infirmai d'una febre tanto vehemente che né io
né li medici credevano che ne dovessi sanare così presto come ho fatto per
gratia di Dio. Et tanto che sono stato amalato li servitori che mi hanno
havuto rispetto non mi hanno raccordato né del servo vostro che era qui, né
d'alcuna altra cosa. Del che, quanto sia per la cosa vostra raccordatami per
l'altra vostra del 8 del presente, ho havuto dispiacere, perchè pur che mi ne
fossi sta' fatto un cenno haverei fatto expedire il vostro messo subito et sa-
tisfatto il desiderio et bisogno vostro. Mi spiace bene che siate venuto così
facilmente in diffidentia di me et che crediate che io stimi tanto poco voi e
le virtù vostre ; ma patientia, non starò per questa vostra diffidentia de amarvi
et istimarvi secondo che son solito de fare.
Ho letto le stantie che mi haveti mandate, principio della vostra Marphisa
disperata, la quale so che sarà più presto finita che d'altri non scrìa princi-
piata, et non sera manco bella né manco dotta che si la fosse fatta in 25 anni.
Le dotte stantie mi sono molto piaciute et con questo poco gusto che mi ne
havete dato mi havete messo nel maggior desiderio del mondo di vederla finita :
il quale desiderio non so se potrà esser prevenuto dalla velocità del vostro in-
gegno. Vi ringratio ben infinitamente de l'honore che mi fate in componermi
questa opra et in farniegli tanto honore dentro quanto mi fate.
- 73 —
Alla parte che diceti voi sapper chiaro de non esser stato accettato da me
per causa de non dispiacere ad altri % voi seti in grand'errore et non dovresti
reputarmi d'animo tale; et circa ciò non accade dire altro.
Il vostro servo è stato qua continuamente per quanto ho inteso, il quale
faccio spazare con questa, et per esso vi mando 50 scudi d'oro '} quali vi piacerà
godere per amor mio.
Del Ticiano non mi sono scordato, né le virtù sue meritano essere scordate
da me, et gli farò conoscere la memoria tengo de lui et l'animo che ho de fargli
piacere. AUi commodi vostri ecc.
Da Marmirolo alli 15 de sett. 1527.
Vili.
Del medesimo.
{Reg. Liti. Reserv., Lib. 40)
D^** Petro Aretino. Questi dì passati io hehbi una lettera vostra et questa
matina ne ho havuto un'altra : con la prima erano le belliss.» stanze et molto
eleganti deirecc."^" principio della vostra desperata Marphisa, le quali veramente
mi sono state oltra modo grate, nò dirvi potrei con quanto piacere et satisfattione
d'animo le habbi letto, parendomi pure che non meno ingegnosamente et dot-
tamente voi habbiate descritte quelle due tempeste, di mar l'una, l'altra di
terra. Nelle quali essendomi io molto dilettato vi prego grandemente che ogni
volta che vi accaderà haver fatto in questa vostra bellissima opera qualche
bel tratto, sì come al vostro fertile et dotto ingegno, non ponno mancar varii
dilettevoli et rari soggietti, non vi sia grave continuare in farmene partecipe,
mandandomi qualche cosa sì come andreti dietro componendo. Et si non ha-
vereti lì chi transcriva non restate però di mandarmene, et io ben le farò
copiare qua a quel servitore di m. Agnello quale so che scrive bene. Et dell'ho-
nore che nella detta opera vostra et in ogni altra occasione mi fate vi ringratio
somamente, facendo anche il medemo delle dette stanze che m'haveti mandato.
Et circa il Tucciano io non mancarò di fargli in brievi qualche dimostra-
tione, di sorta che potrà cognoscere in quanto bon conto io lo tengo et quanto
mi è grato. Se mi mandareti quella statua che mi haveti scritto che mi lavora
di bronzo quel M.*"" che mi fece il Laocoonte') io l'haverò molto cara, perchè
^) Cioè al Papa e al Datario, com'era di fatto.
') « Mazzone mio servidore mi ha dati i cinquanta scudi e il giubbon d'oro che mi mandate. Dirò
« ancho che toniate a mente la promessa fatta a Titiano mercè del mio ritratto. » Così rispondeva
l'Aretino {Lettere, I, 13) con una lettera che ha nella stampa la data del 6 agosto 1527, evidentfimente
errata, poiché è la precisa risposta a questa del Marchese (cfr. anche il doc. Vili).
^) Era il Sansovino. Cfr. Baschet, Doc. cit., XXIV. « Io ho fatto ritrarre, scriveva del 1525 l'Are-
« tino al Marchese, ho fatto ritrarre di stucco Laocoonte antico de Belvedere, d'altezza forse d'un
« braccio ; e a giuditio del Papa e di tutti gli scultori de Roma non fu mai la meglio cosa ritratta :
« et l'autore è un Jacopo Sansavino, che m. Julio vostro dipintore {G. Romano) vi può dir chi egli è.
« E ci è stato tutto verno a ritrarlo; e N. S. spesso a Belveder è ito a vederlo lavorare. Et in somma
— 74 —
laudandomela voi come fate che seti persona di grand.™" ingegno et iuditio, son
certissimo che la non mi potrà se non somamente piacere; et tanto più Tha-
verò cara quanto ch'è cosa lavorata a nome mio sì come mi scriveti.
Questa mattina è stato qua a visitarmi il S/ Alexandro CoIona quale io
ho veduto volentieri, et non ho mancato di fargli quella amorevole ciera et
grata accoglienza che mi sono parse convenirsi al gran conto ch'esso mostra
tener di me et sicondo il raccordo che voi anche mi haveti fatto. Né altro
occorrendomi per hora che scrivervi, alli commodi et piaceri vostri ecc.
Da Mantova alli XI de ott. 1527.
Tutto vostro
Il Marchese di M.
IX.
Bel medesimo.
(Copiahtt. ordin., Lib. 291)
M^» ecc. Con mio grand.™° piacere ho letto li dui bellissimi cantari che con
una vostra de 23 del passato me haveti mandati, li quali in vero me hanno
deiettato grandemente et me pareno degni di somma commendatione, di sorte
che per questi et per li altri che ho veduti et per conoscere io il prontissimo
non meno che dottissimo ingegno vostro, il quale hormai è a tutti noto uni-
versalmente, io mi tengo certissimo che siate per riuscire con grand.™" honore
dell'opra incominciata et reportarne somma laude appresso ogniuno, guada-
gnandovi col mezzo d'essa la immortalità et la benevolenza di tutti li huo-
mini che stimano et prezzano le virtù; che de li altri né voi né qualun-
ch'altro dotato del grave stile, dolce, vago, limato et puro che haveti voi,
nienti o poco si debbe curare.
Circa Thaddeo vostro io bavero piacere intendere si la lettera che vi ho scritto
vi sera satisfatta, et molto più caro mi sera sapere che per mezzo di quella vi
sia riuscito il dissegno vostro.
Del lotto che mi haveti recercato ad voler essere contento lasciar fare in
questa terra son stato molto contento per amor vostro ch'el se facci per quella
quantità che voi me haveti scritto et anche per più si a voi piacerà. Il quale
potrete mo' avisare in che modo voleti ch'el si facci che io non mancare di ordinare
che si eiiquisca sì come che sera vostra intentione. Et alli commodi vostri ecc.
Da Mantova alli 4 de novemb. 1527.
El tutto tutto vostro
Il Marchese di M.
« fra X giorni ve lo mando... » — La nuova statua promessa era appunto la Venere di cui parla l'A.
nella gua lettera, che ba per errore la data del 6 agosto 1527, mentre fu certo spedita fra gli ultimi
di settembre e i primi d'ottobre.
— 75 —
X.
Del medesimo.
(Reg. Liti. Reserv., Lib. 40)
M. Pietro mio dilettiss". Sì come voluntieri ve scrissi quella lettera li dì
passati per aiutar et favorire li desideri vostri circa il caso di Thadco, così
anche bora voluntieri scrivo al S^ Costantino in favore del ditto Thadeo, desi-
deroso di compiacervi, così in questa come in ogni altra cosa, ma tanto più in
questa quanto non me par de vedere cosa alcuna esservi più a core di questa.
Vi servireti adunque de la lettera mia *) in aiutar el vostro Thadeo a uscir
de prigione anzi a liberar voi stesso, perchè stando lui in cattività so che seti
più prigione di lui. Se altra cosa posso circa questo o circa altra cosa che
vi piaccia, ricercateme con la solita confidentia, ecc.
Mantova X 9bris 1527.
El tutto tutto vostro
El Marchese di M.
XI.
Del medesimo.
(tbid.)
Mag'^" ecc. La lettera vostra copiosa de termini molto gientili et amorevoli
verso me mi è stata sopremamente grata, et assai vi ringratio de tanto bon
animo quanto mostrate tener centra de me, in volermi dar nome et fama non
solamente in li secoli presenti ma appresso la posterità anchora, col mezzo de
la belliss» et ingeniosiss» incominciata opera vostra. Il che anchor che non mi
fusai cosa nova, mi è però stato di singular piacere che tanto ardentemente
continuate in quel primo dissegno, per il che vi ne rimango molto obligato,
godendomi oltra modo se vi ho fatto beneficio alcuno d'haverlo colocato presso
persona tanto grata et conoscente quanto voi mi ve demostrate essere, benché
alli gran meriti de le molte virtù vostre a me para non haver fatto cosa
alcuna o poco, et non sono mai per mancarvi d'ogni aiuto et favore, come
ho fatto finora, in tutto quello ch'io potrò, secondo che mi ricercareti et per
voi et per li amici vostri.
Et circa quel lotto serò molto contento che si facci la patente come mi
haveti scritto, ma nauti ch'habbi datto altra commissione mi è parso avisarvi
prima che a me pare impossibile cosa che in questa terra si possi trovare
cusì gran summa de dinari, però che si è visto per experientia molte altre
1) Segue nel registro la copia d'una lettera « al Sr Costantino Concinato Duca di Macedonia et di-
spoto de la Morea » in favore di Taddeo Bocacci da Fano « allevo già del S.r Giov. de Medici »;
del quale, imprig\pnato per aver ucciso un suo compagno involontariamente, scherzando con un archi-
bugio che credeva scarico, il Marchese intercede la grazia , aggiungendo di volerlo prendere a' suoi
servigi. — E infatti in data 24 novembre s'incontra un'altra lettera diretta al Bocacci, con l'invito
di recarsi a Mantova.
— 76 —
volte che si ha fatto prova de poner qua- simili lotti che non si ha pur a
pena potuti arrivar a seicento o settecento ducati, non che mi speri che si
possi cavar quattro mila ducati. Nondimeno pensategli ben sopra voi, che di
quello che vi ho promesso non serò mai per venirvi meno. Et si poi che gli
havereti considerato mi darreti aviso et vi parerà che la ditta patente si habbi
ad fare, io la farò far molto voluntieri de bon core, sì come quello che de-
sidera farvi ogni piacere. Et alli commodi vostri mi ofifero ecc.
Di Mantova XX novembr. 1527.
XII.
Del medesimo.
{ibid., Lib. 40)
M<^o ecc. Io ho ricevute due lettere vostre quali mi sono state al solito gra-
tissime, et in risposta dicovi che tale ò l'amor ch'io vi porto et cussi grande
che non mi potrei mai vedere satio de farvi piacere et cosa grata, ricercando
cussi il grand."^" preggio delle molte virtù vostre, per le quali a me voi non
potreste giammai né importuno né fastidioso parere per cosa alcuna che col
mezzo mio desiderate ottenere; anzi son sempre et serò per aiutarvi in ogni
conto, et maxime ne le cose che so esservi a core, sì come ho conosciuto essere
quella delVamor vostro^ per rimedio del quale son sta' contento fare scrivere
quella lettera che mi haveti ricercata. Et se in altro circa ciò vi posso giovare,
facendomelo intendere sarò sempre per compiacervi et per satisfare ad ogni
vostro dissegno, acciò che tanto più facilmente Marphisa disperata possi per-
venire al laudato fine eh' io aspetto et desidero grandemente , sì come mi
confido che farà,* conoscendo io la pronteza et fertilità del rariss" et gen-
tiliss." ingegno vostro.
Io vi mando qui aligata la patente del lotto ^) sì come mi havete ricercato
et io vi ho promesso; et ad ogni commodo et piacere vostro ecc.
Da Mantova alli 11 di xbre 1527.
Tutto vostro
Il Marchese di M.
^) Segue nel registro uno spazio in bianco ; né la patente si rinviene neppure nel libro delle gride
e decreti, dove s'incontrano fra le varie concessioni di privilegi anche quelle riguardanti consimili lotterie.
Per esempio, del 29 die. 1532, troviamo la grida che segue: « Havendo lo 111""° et Ex"'" S. nostro ecc.
« concesso questi giorni p. ad un mercatante ferrarese che '1 metta alla ventura in questa città alcune
« robbe alla vagliuta di mille scuti, secondo la stima fatta da liuomini periti, tenendo fuori esse robbe
« alla Torre alla bottega della verità, et havendogli posto alcune voci sua Ex. et la IH™'* M"'^ sua
« matre, la III'"* S^'^ Duchessa sua consorte et molti gentilhuomini delle loro corti per essere le ditto
« robbe cose degne, desidera Sua pia Ex. per questo et anche perchè il mercatante possia ritornare a
« casa alle sue faccende eh' ella si cacci più tosto che sia possibile e però per la presente grida fa
« ezbortare ogniuno a volerli mettere... E quando in questo tempo {per tutto il mese di gennaro p.)
« non fossero scossi tutti li denari de tutta la stima delle robbe, vele che si levi la ventura per tanta
« parte quanta capiranno li denari scossi; però chi voi mettergli gli metta tosto dui marcelli por voce,
« che cosi se gli mette, et quando si cavino tutte le robbe gli saranno da cinquanta beneficiati. » —
A togliere ogni sospetto di frode, di solito la ventura era estratla all'ufficio delle « bulette per mezo
« de dui electi per haomini da bene idonei ad questa impresa. » — Sulla passione del popolino per il
lotto anche allora si vegga una brillantissima lettera dell 'A. a m. Giovan Manenti, I, 213.
77 —
XIII.
Del medesimo,
(ibid.)
W^ et dottìss." ni. Pietro amico car."""
Assai me rincresce delle pene, tormenti et afflittione vostre; et come che
per restare io privo del gran piacere che le virtù vostre mi solcano apportare
io me ne doglio grandemente, nondimeno il non volgare amore che io ve porto
me induce et astringe ad havervi non piccola compassione. Così non posso
fare che volentieri non consenti ad quanto io posso fare per remedio delle
grand.""^ passioni vostre, desiderando molto essere atto ad potervele del tutto
levare et consolarvi, secondo che è Tintention vostra. Et de che aviene che sono
sta' molto contento di comettere che si facci; et ho ordinato che si exequisca
quanto mi haveti scritto, et si altro io posso fare ad piacere et satisfatione
vostra et circa questi vostri travagli et circa altre cose che vi siano a core
mi off ero ecc.
Di Mantova alli 3 de genn. 1528.
XIV.
Del medesimo.
{Reg. Liti. Reserv., Lib. 41)
Mag.^° ecc. Hebbi questi dì la lettera vostra col dotto et bel giuditio di
questo anno che vi piacque mandarmi, qual mi è stato di tanto spasso et
piacere quanto vi puoteti imaginare , et tanto più che legendolo et racor-
dandomi si verificò quel de l'anno passato, del qual penso non sarà raen vero
questo, mi parea di leggere proprio una prophecia dilettevole. Et per essa
lettera vidi quanto me ricerca vati volessi scrivere per la cosa vostra a Mons.'*
jjmo (ji Monte, facendone anche parlar per mio ambassatore alla S.** di N. S., del
che non serei mancato di compiacervi come desidero fare in tutte le cose vostre,
se v'ha vessi havuto mio ambassatore, qual già molti dì havemo deliberato
mandarvi, et era il mag.'^o m. Francesco Gonzaga che vi era anche prima, et
solo stava aspettando che sua Santità fosse firmata in qualche luoco per saper
dove mandarlo. Ma essendo parso novamente al R^" et l\V^° Mons. Cardinale
mio fratello d'andarvi mi è parso far soprasedere l'arabassatore finché babbi le
prime lettere da sua S."', quali recevute lo inviarò et gli darò molto calda
commissione di parlare con ogni efficacia de la cosa vostra, come bavere!
anche fatto prima se l'havessi mandato. A Monte ho fatto scrivere una buona
lettera, et per il primo spazzo che senza dubbio non può essere se non presto
la mandarò, et molto mi sarà caro se la farà bon frutto.
— 78 —
Circa la cosa vostra con Thadeo feci scrivere al padre di Carlo da Fano
in quel modo proprio che rìcercavati, et vi volevo spazzare un mio cavallaro
a posta, se non fosse stato che in quel tempo vi accadete ad un mio gen-
tilhomo andarvi, et a lui diedi la lettera, né per anchor ne ho avuto ri-
sposta, del che mi maraviglio, ma forsi che la non tardarà molto.
Io vóluntieri vi compiacerla di quella persona mantuana che scriveti poteria re-
mediare al vostro male, se sapessi chi si fosse, che non conosco questo figliolo del
Bianchirlo.
Ho dappoi avuto la lettera vostra, con le stanze me haveti mandato, per la qual
par vi lamentate non sia stato risposto alle lettere vostre. Il che, m. Pietro, haveti
ad essere certo non è stato per altro, se non perchè come vi ho detto ero per mandar
in breve m. Francesco a N. S. con comissione che parlasse molto caldamente
della cosa vostra, della quale aspettando intendere quanto l'havessi fatto mi re-
servava ad scrivervi poi a ].ieno il tutto; sì che non doveti pensar per questo
ch'io sii turbato né che mi siati venuto a noia, che né voi né le cose vostre mai
mi possono satiare, né per questo restati in modo alcuno di usar meco la solita
confidentia, che sempre desidero farvi ogni piacere. Et medemamente questa è
la causa perché più presto non ho scritto a Monte, che aspettavo che l'ambasciatore
facesse il tutto; ma temendo che la tardità alle volte non vi nocesse ho fatto
scrivere nel modo che vi ho detto.
Con grand. °^* delettatione lego le stanze vostre, quale vedarò di far copiare a
quel servitore di m. Angustino Gonzaga, et credo quando non sii molto occupato
ai servigij di suo patrone lo farà molto vóluntieri, et copiate che le babbi ve re-
mandarò li originali secondo mi scriveti.
Altro non accade al presente se non ringratiarvi molto dei tanti piaceri che
ogni dì mi date con le vostre dottiss.^ et dilettevoli compositioni nuove, il che
non vi poterei dire quanto mi sia caro, ecc.
Da Mantova alli V de febr. 1528.
XV.
Bel medesimo.
(Reg. Liti. Reserv., Lib. 41)
M<=o m. Pietro mio
Non è cosa che mi sia più grata et di maggior piacere et contento che il
sapere di esser in bona oppimene delle persone virtuose et dotte ; però mi é stato
gratissimo haver inteso, per vostre lettere che ho ultimamente ricevuto, la memoria
che tenete et la stima che fate di me, cosa però che fate di un vostro bono amico.
Et veramente ve amo tanto quanto facia chi ve ama più de li altri, et li frutti
de l'ottimo ingegno vostro mi ve hanno impresso talmente in la memoria che
non è cosa bastante a farvene uscire mai in tempo alcuno. Né mi son scordato
di far scrivere per voi al R"* Mons. mio fratello, che ho dato commissione gli
sia scritto in bona forma. Se così havesse possuto satisfarve nel desiderio vostro
dei Bianchino lo Jiaverei fatto medesimamente vóluntieri. Ma havendo inteso
— 79 —
ìa renitentia che fece quando Roberto gli ne parlò da parte vostra et ^ par etidomi
non poter havere honore de opera che ne havessi voluto fare non mi è parso pre-
garlo né exortorlo altramente, né farlo exortare in nome mio, et manco mi è
parso commandargli, non essendo giusto né honesto il comandargli in questo
CASO. Però habbiatime per iscusato se in questo caso non vi satisfacio ; se in altro
posso farvi piacere, come sapeti molto bene son dispositissirao per farlo et me
trovareti sempre di questo animo.
Se mi havesti mandato quelle stanze che scriveti non haverrai voluto mandare
per non mi dare noia con tante cose a un tratto, non mi seriano state di noia, ma
di piacere grande perchè mi deiettano tanto queste vostre compositioni quanto
cosa si sia; et quelle che mi mandasti questi dì che ho lette una volta mi piac-
quero tanto che voglio relegerle di novo, et se mi mandareti quelle altre mi se-
ranno grate, et ho ordinato siino fatte vedere al mio castellano, acciò che possa
dire il parer suo come ricercate.
Aspettava con devotione la Venere, bora che intendo che l'è tanto laudata lì
quanto voi scriveti l'aspetto con maggior desiderio, sperando di havere una cosa
eccellente et che meritamente mi habbia ad esser grata e cara.
Ho fatto raccordare a quello che fu mio precettore *) il summario della ge-
nologia mia, il quale ha detto di darlo finito tra quattro o sei dì, et havutolo vi
lo mandare. Et alli piaceri vostri ecc.
Da Mantova XXVI di febr. 1528.
El tutto vostro
Il Marchese di M.
XVI.
P. Aretino aìVamb. Malatesta *).
Signore inbasciatore,
V. S. faccia copiare il giuditio et lo mandi dove gli pare, ch'io per me m'excludo
fuora d'ogni gratia et servitù ch'havessi col Marchese, et per fede di ciò remandovi
la genalogia de Sua Ex., che m. Gian. Jac.° ') m'inderizzò, la quale vi prego
che remandiati al detto Castellano, et ditegli ch'io sono mutato di proposito, né
voglio più finir l'opra in honore di chi mi lasciarà morir di fame, et non mancha-
ranno patroni a Pietro Aretino. Et a V. S. bascio le mani.
Di V. S.
P. Aretino.
1) Francesco Vigilio, morto ottuagenario nel 1534, autore di una storia di Mantova in prosecuzione
di quella del Platina (cfr. i doc. da me prodotti nélVArch. rotnano di st.p., voi. IX, in appendice a
F. Gonzaga ostaggio alla corte di Giulio 11).
2) Biglietto accluso in una lett. del Malatesta a G. Jac. Calandra (27 genn. 1529): « Il Judicio de
« l'Aretino non è anclior finito di trascrivere. Elio mi ha mandato lo alligato fasso de scritture da
« remettere a V. S. et questo policetto, il quale quella farà vedere allo lUmo. Son certo che elio ha
« scritto et bene per il S.re, et anche ho fatto opera che V. S. honorevolmente nel suo libro è notata. »
') Calandra.
XVII.
Dispacci delVamb. Maìatesta.
Venezia 1529.
26 gennaio {Ai Calandra). « L'Aretino mi ha promisso uno iuditìo da mandare
da parte mia al S.''^, chò da la sua non ne voi far niente, perchè dice che sua Ex.
non cura la sua servitù, et mi comette che lo mandi come sta; in questo vi è
nominato il patre {Fra Benedetto) et m. Carlo {Bologna), ma questa parte non
mandare già io, ma separata in uno policetto. »
29 genn. {Al med.). « Acciò V. S. meglio intenda il judicio de l'Aretino, la
saperà che '1 Conte Guido et l'amhass. francese sono amicissimi et continua-
mente stanno in quelli exercitii, et dove dice amico di quello amico è perchè l'am-
bassator favoreggia l'Aretino et esso è amico del Eangone. Laudo che il SJ^ gli
scriva quella lettera, altrimenti {sic) comprendo che l'ha animo di cantare di V. S.
in suo molto honore et però la deve procurare questa contentezza ad evitanda
scandala, et scrivendoli V. S. dica che il policetto io l'ho mandato al S.^®. »
29 genn. {Al Marchese). « Mando a V. Ex. il judicio de l'Aretino, il quale
voi essere suo servitore anchor ch'ella non voglia et si dole di lei che non lo voglia
cognoscere per servitore. Io ho fatto la iscusa seco s'el non ha da lei de le cose che '1
solea havere, perchè già sono 8 mesi che del stato non ne ha entrata. Dice che
l'ha per iscusata, ma che gli pare comprendere che la sii corozata seco, essendo
tanto tempo scorso che non ha sue lettere, ch'ella solea pregarlo che gli scrivesse,
ma che hora si ha scordato rispondere alle sue lettere. Et che la Ex. V. non creda
già quello che per uno policetto suo l'altro giorno a me scrisse, quale mandai a
m. Zo. Jac.** acciò gli lo facesse vedere, che l'ha scritto di V. Ex. et di tutta sua
casa tanto difusamente et honorevolmente quanto la merita et è obligato. Ma
che la passione che l'ha che V. S. non lo voglia conoscere lo fa straparlare, et mi
ha comisso che tutto questo li scriva et lo raccomandi a lei, la quale prega ad
farlo vivere contento et in sua bona gratia. Dappoi in certo ragionamento disse
allo ambass. di Franza che come l'era dal Re et havea voltato le spalle alla
Italia, havea deliberato vindicarsi de S.^ì che non haveano voluto conoscerlo et
aiutarlo, et che quando saria là non curarla alcuno et senza rispetto dirla quello li
paresse et non dirla se non la verità; ma che alla persona del S.^ Marchese di
Mantova haveria ogni rispetto, perchè lo ha conosciuto sempre virtuoso et pieno di
bontà et gentilezza ».
— 81 -
XVIII.
L'ami). Malatesta al Calandra.
M^o mio obser"". Essendomi stato referto da più luoghi il cicalare et braveg-
giare che facea Petro Aretino, che come era in Franza volea dire de tutti gli
Principi de Italia, et che poi che lo 111"»*» nostro non lo volea conoscere per ser-
vitore se vendicaria con l'arme sue solite contra sua Ex. de la quale havea pure
belli sugetti, et che già havea principiato alli servitori suoi et detto del Bologna,
del Musone et di Frate B.*'' ^) molto manco di quello merita veno; retrovando il
detto Petro in casa de lo ambass. di Franza, dove era il Conte Guido et l'arabass.
di Fiorenza, quali me cominciorno a motteggiare et riderse di quanto esso Petro
nanti il mio giongere havea ciarlato, che tutto era stato sopra Mantua, et fui da
Fiorenza advertito che questo scelerato si havea jactato essere stato causa lui di
la diferentia è tra Mantua et Urbino di questa precedentia '), volendo dire che
già dimostrava di haver modo di ofiFenderni, et io sapendo che se ne menteva, perchè
era privo di la gratia del S. Duca, quale gli havea minacciato quando fece quello
sonetto nel quale dicea
El Duca voi per corsaletto un muro, ecc. ')
io chiamai ditto Petro alla presentia de p.*^ Conte Guido et Fiorenza, et gli dissi
che gli volea in testimonio de quanto era per dirli. Et disseli che mentre havea
parlato honorevolmente de lo ni™^ mio patrone io l'havea honorato esso et volutoli
bene; che mo' che intendea haver mutato stile era per non haver sua amicitia, et
secundo havevo sempre fatto boni officii per lui col p.*° 111.™° nostro era per far il
contrario, di modo che se penteria di ofiendere uno Marchese di Mantua. Et che fin
qui mi era persuaso che quello havea .detto di Sua Ex. l'havea fatto per mar-
tello et troppo amarlo ; che mo' vedendolo perseverare in queste bravarle et haver
dato principio in vituperare gli suoi cari servitori, pensava havesse anche l'animo sì
come ne dicea le parole. Al che rispose che havea detto la verità di detti servitori,
et era per dire del Marchese quello li parca, perchè non havea ad far seco, et
Sua Ex. non lo volea conoscer per servitore; et non temea che per far l'officio
suo alcuno fussi per farli dispiacere, né havea paura del S.'^® et che non restarla
per Christo di dire ciò che li piacesse. Allora gli dissi che il S.^ mio era per
offendere lui et qualunche altro havesse ardire offendere l'honor suo, et non gli
havesse quello rispetto che se gli convenia, et che se lui facea quello che dicea
saria trattato forsi peggio che non si pensava, et non saria securo in Paradiso,
1) Deve esser quel Fra Benedetto, di cui l'Aretino dice nel Marescalco (Atto quarto , se. Hi) che
assassinava la bontà del Marchese di Mantova.
') Si trattava di una quistione insorta fra gli ambasciatori di Mantova e Urbino per la precedenza
nelle udienze e nelle cerimonie officiali.
') Questo capoverso è citato anche nella Vita dell'Aretino, falsamente attribuita al Bemi (Opere,
ed. Daelli, II, 167) : e doveva essere un sonetto, con cui l'Aretino irrideva alla soverchia prudenza
militare del Duca di Urbino, che più tardi celebrò e magnificò come suo protettore , intitolandogli il
primo libro delle Lettere.
Ltjzio — Pietro Aretino 6
— 82 —
né si dovea pensare che Sua Ex. non fusse per resentirse con lui et contra maior
di lui che cercasse injuriarla, né gli haveria forsi quelli respetti che altri in
simile caso gli ha havuto. Et me levai dil loco dov'ero in molta collera, perchè
gridassimo gran pezzo. Et io me posi a ragionare con Tambass. di Franza de
altr ^ cose, ma detto Petro restò molto sbigotito et impaurito de le parole crudeli
ch'io li dissi.
Et volendomi partire et uscito di la camera del detto ambass. di Franza, detto
Aretino mi venne drieto, et con parole molto sumisse et humane me pregò che
non volessi scrivere cosa alcuna allo Ill™<> S., che quello havea detto di Sua Ex.
procedea da gelosia et amore che gli porta, et che di la persona sua non in-
tendea mai che in scritto né altrimenti parli se non honoratamente, come Prin-
cipe che lo merita et dal quale ha recevuto molti benefitii, non già equali alli
meriti suoi perché ha meritato troppo ne l'opera che l'ha fatto in laude sua et
de suoi antecessori, et che quando la vederà cognoscerà che gli é servitore, et
che l'è per andare in Franza in breve et di là potrà intendere li boni officii et
honorevoli laudi che atribuirà al p.*" 111.™°, come suo bon servitore che gli vole
esser in ogni loco dove el si ritrovarà. Io lo ringratiai del bono animo che l'havea
di fare tanti boni effetti et lo exortai ad farlo et che se ne ritrovarla ogni giorno
pili contento. Elio mi soggionse che da qui inanti non haveria causa di dolersi
di lui perchè più non parlarla del S.'^ se non come era tenuto. Et mi pregò
assai che non volessi scriver questo abatimento che era stato tra noi. A. V. S. ecc.
Da Venetia 14 febr. 1529.
Jac. Malatesta.
XIX.
P. Aretino ai Marchese di Mantova.
Optimo Principe,
Io X anni con gran fervor d'anima ho predicato, exaitato et celebrato il pre-
dicato, exaitato et celebrato nome di V. Ex., et per impeto amoroso un'hora
offeso le cose che vi sono a core. Ma se io non sono stato premiato del bene se-
condo il real costume della grandezza dell'animo vostro, non merito esser punito
del male con macchia della degnità di voi in così humile suggetto.
Io son P. Ar."o servo vostro per natura et non per arte, et intimo per ardente
affettione et non fredda servitù; et vi ricordo che se le lingue si potessero lo-
gorare, che hoggimai la mia sarebbe consumata in sempre laudarvi, et se l'an-
gelica vostra bontà m'odia et oltraggia odia et oltraggia la gloria di se stesso.
Che non Re, Imperatore, né Papa ma il Marchese di Mantova incarnato nel-
l'anima mia mi humilia; rum per timor de vita, per l'amor ch'io porto a tanti
suoi meriti. Et baciovi la mano se degno ne sono.
Di Vinetia XII d'aprile MDXXVIIII.
Oblig."*' divotiss." servo
Pietro Aretino.
XX.
Il Marchese di Mantova a P. Aretino.
(Copialett. orditi., Lib. 297)
M. Petro mio char.™°. Le stancie che me haveti mandato per le quali in la
vostra Marphisa lodate la casa mia et la lettera vostra mi sono state gratissime,
et bolle lette con gran.™^ piacere, perchè non posso dissimulare che mi piaccia
essere lodato io et li mei da li ingegni eletti et colti come è il vostro, et tanto
più da voi quanto so che havete pochi pari et ninno superiore in scrìvere. Io
vi ringratio. del bon animo che mostrate cl'haver verso me, in el quale se per-
severareti et se vi diportareti come solevati fare meco et mi havereti in quel
respetto che deveti bavere ^), io sarò per tenire bon conto di voi come ho fatto
sempre, et non ve pentireti mai di bavere perseverato in costante benivolentia
verso me ; et perchè penso che habbiate ad esser tale quale promettete mi offero
sempre ecc.
Da Mantova 24 aprile 1529.
XXI.
L'Aretino al Marchese di Mantova.
Magnanimo et optimo Principe,
Le virtìi uniche de m. Valerio vicentino note hoggimai a tutto il mondo sono
state sei mesi intorno al pugnale de V. Ex. il quale ve si raandarà la settimana
che viene, et forse fra le cose vostre più care quello terrete carissimo, s'io non
sono in tutto privo di giuditio.
Hora egli accade che un suo genero viene da Brescia con ducente cinquanta
scudi riscossi di certe sue lane, et il vostro non so se bargello o altro havendone
notitia l'ha con molte carezze preso et menatolo a Mantova prigione con taglia
di doi cento scudi. Son certissimo che V. Ex. sa di questo niente, et però la supplico
per la fedel servitù mia et per la giustitia et per amor delle virtù de m. Valerio
che vi adora di voler fare liberare il sopra detto giovane, che per dio inocente
^) L'amb. Malatesta scriveva al Marchese il 1 maggio: « Hoggi ho trovato m. Petro Aretino et anchor
« che mi habhi detto essersi reconciliato con V. Ex. non sono però restato de fargli Tambassiata che
« la me commisse essendo io questi giorni in Mantova. Elio mi ha risposto che l'è servitore di V. Ex.
« et che in advenire non bavera causa di farli dispiacere et che non dubitò mai che Y. 3. gli facesse
« male. » Cioè che gli facesse togliere la vita, come l'aveva minacciato rambasciatore ; a che allude
l'A. stesso nei docc. XIX e XXV.
— 84 —
è offeso, che s'egli havessi errato né m. Valerio né io ardiremmo parlarne *).
Io mando una staffetta aposta et spetto ottener la gratia come sempre soglio
da V. Ex. a la quale humìlmente me raccomando.
De Vinetia a X de sett. 1529.
01)lig.™o servitore
P. Aretino.
XXII.
Al medesimo.
gjino Principe,
Io mando a V. Ex. un pugnale, et benché ognuno sia stupito della sua ric-
chezza et del mirabile artificio de m. Valerio non è dono qual conviensi alla
vostra altezza, ma come s'apartene alla basezza mia "); et se in esso havessi
potuto fare intagliare l'anima e '1 cor mio per ornamento del sopra detto pu-
gnale l'harei fatto, acciò che V. Ex. fosse chiara della fedele affettione ch'io le
porto, anchor ch'io sia chiaro che quella mi vegli poco bene. Hor parliamo
d'Orlando.
Suplico la gentilezza vostra che degnandosi d'accettare il piccolo dono si degni
anchora s'avien ch'ella mi scriva di commendare m. Valerio secondo il merito,
et per sua virtù et mio amore offerirgli la gratia vostra, che per dio egli ch'é
venerando homo vi adora.
Apresso aciò ch'io non sopporti tutte le necessitati intollerabili vi prego, si
haveti una veste fodrata di pelli et un saio che più non adoperate, che me le
donate, che sono anco amalato et di mala conditione. Non altro, spero a Natale
esser al fine del libro, et se '1 mio mal traditore non fosse stato a quest'hora
era in mano de V. Ex. alla quale bascio le mani.
De Vinetia 2 d'ottobre 1529.
Di V. Ex.
oblig. et divotiss. servo
P. Aretino.
1) Si deve riferire a quest'incidente una lettera di Carlo Bologna all'Aretino, in data 18 sett. 1529
{op. et**., I, 88) dove lo assicura d'essersi energicamente adoperato perchè « uno assassinamento di
« questa sorte non avesse loco... di maniera che è stato relassato » il detenuto, e i delinquenti puniti
« secondo il termine de la iustitia. » Così a qualcosa di buono valeva pure l'intromissione dell'A.
-) L'amb. Malatesta (lett. 19 sett.) lo dice « cosa rarissima... singulare... et degna d'ogni gran Re. »
— L'Aretino aveva mandato un servitore apposta a Mantova, e il Malatesta scriveva in proposito il
27 ottobre: « L'Aretino desidera sapere se il pugnale è stato presentato allo Illmo nostro et se il suo
« servitore è li, che dappoi ch'è partito non n'ha mai havuto nova. »
— 85 —
XXIII.
Al medesimo.
Signor Ex-^o,
Poi che con tanto fervor d'animo mi affatico in fare libro che di voi et de
vostri presenti et passati lasci memoria, V. Ex. debbe anchora pigliar tanto fa-
stidio d'impetrargli et dal Papa un breve, et dallo Imperatore un privilegio che
])er X anni proibiscano in la giuriditione loro lo stampare il prefato libro. Queste
gratie, Signore, si fanno a chi le vole, et però a me non è lecito di negarle,
maxime che di Sua Beatitudine e di Sua Maestà parla gloriosamente, et cosi
Dio m'havessi concesso gratia che non m'havesse strascinato giustamente a do-
lermi come faccio, che il mondo forse haveria veduto quanta divotione haveva
il core mio e l'animo mio con Sua Santità; et si ben nelle ciancie ho morso il
nome suo, nelle cose ch'hanno a restar vive ferventemente l'exalto. Et perchè
io ho speranza che la stampa mi premierà, et non i principi, vi suplico che non
mi vogliate torre tanto bene, che poca gratia et molto a me importante di-
mando. Che se io sono da loro aborrito tanto più dovrieno vietare che le cose
mie nelle terre d'essi non si stampassino; et se V. Ex. non mi concede bene-
fitio di parole mala è la mia speranza, sperando d'havere da quella utili effetti.
Ma si aviene o che voi non vi degnate farmi il chiesto favore, o che Cesare et
Pietro non mei voglino concedere, io farò XX stanze che di loro parleranno pa-
squillamente et de sorte male che senza brevi o privilegi sarà scomunicato et sco-
glionato chi le stampa; sì che V. Ex. po' evitar tanto scandolo, che sarà più opera
pia che a torre il mangiar de i castrati al Duca de Jililano, de i quali incarestia
i petronii ecc. (?).
A V. Ex. bascio le mani et s'io non ottengo il voto mio dirò che il pugnale
per esser arma donata causa malivolentia.
De Venetia III de decembre 1529.
De V. Ex. servo
oblig.^o P. Aretino.
XXIV.
Il Marchese di Mantova a G. B. Malatesta.
(Copialett. ordin., Lib. 299)
Mag.« Volendo m. Pietro Aretino dar fuori el libro suo de battaglie che no-
vamente egli ha composto, el desydereria bavere un breve da N. S. et un pre-
vilegio dalla M.** Ces.* per quali si prohibesse che per diece anni prossimi a
venir non si possi stampar nelle terre sottoposte a loro el detto libro senza li-
— 86 -
centia d'esso m. Pietro. El qual ne ha pregato che vogliamo operarne per lui
in questo, il che parendone honesto non ne par di negarli l'opera nostra. Però
vi coramettemo che pigliata l'occasione, veddiate con buon modo d'ottenere el
tutto et da N. S. et da S. M. Et quando per lo scriver licentioso di in. Pietro
vedeste in qualch'uno amaritudine centra de lui potrete dire a chi ve ne motigiasse
che se ben in qualche cianze m. Pietro ha detto male, in quest'opera qual ha da
durar et esser perpetua l'amenda il tutto, laudando et extollendo et sua S.** et
la casa sua, et similmente la M.** Ces.*; et vederete di far expedir il tutto in
opportuna forma i).
Mantova VITI xbris 1529. '
XXV.
P. Aretino al Marchese di Mantova.
Io non feci mai cosa che più mi pentissi che di quella ch'io v'ho ricercata.
Et lo irabasciatore di V. Ex. n'è ben testimonio che haveva mandata la lettera
quando per essa rimandai. Io non nego d'havere scritto con poca affettione de,
N. S., ma henne io causa o no? A me po' torre l'utile di qualche scudo il non
poter ottenere il breve, ma la gloria mia non è in potestà de tal breve, et senza
si po' fare benissimo. È ben vero che non si trovare mai che io habbia fatto il
Testamento che V. Ex. dice, né manco l'ho visto, né homo de qui, perché si sa-
perebbe; et quando Sua S.** si degnerà di vedere o far vedere tutte le cose
fattegli in disprezzo, quella conoscerà che le mie differenti da tutte l'altre sono
la minor parte. Et V. Ex, mi faccia tanta gratia che per il suo nuntio prometta
a Sua S.t* che detto Testamento non è mio, et gli fa chi mangia il pan suo, et
io ho crocefisso Ghristo. Vili sonetti ho fatti dalla venuta di Cesare in Italia
sin qui, et sei et il giuditio di questo anno in suo favore et de l'imperatore, i
quali vi mando ^), et il mio prosuposito (sic) é sin che vivo non mai più offen-
') Il Malatesta — fratello dell'amb. a Venezia — rispondeva da Bologna 14 dicembre : « Non ho avuta
« comodltii di parlare dello Aretino, et scio che dal canto del Papa bisogna procederò con maggior ri-
« spetto che da Cesare, ma tentarò l'uno et l'altro meglio che saprò. » — E il 21 die: « Non vi è
« ordine ottener cosa alcuna per l'Aretino nò dal Papa nò dallo Imperatore, perchè oltre le cose pas-
« sate dicono che novamente l'ha Mto uno Testamento molto obrobrioso ad essi. »
') Il Marchese li trasmise subito al Malatesta, che rispondeva il 1 gennaio 1530 : « Usarò li sonetti
« dello Aretino a suo beneficio, et in vero Vasone gli è molto affettionato et h«gi mi ha detto che già
« dui giorni parlò col Papa di lui a lungo et ritrovò Sua S.ia molto rimessa contro esso Aretino: bora
• che l'haverà gli sonetti ritornare a parlarglino. » Da ciò si determina che questa lettera dell'Aretino
Henz» data fu Bcrìtta nell'ultima settimana del 1529.
— 87 —
derlo, anzi exaltarlo; né voglio brevi o lunghi o previlegi di ninno: tosto si
vedrà chi è l'Aretino. L'opre dello ingegno non sono sottoposte alle disgratie
de i principi. Al Papa non pare ch'io meriti gratie et al mondo sì. Sa ben lui
che quando stavo seco gli piacevo, ch'io sono homo raro et schietto et un dì
spero ch'aprirà gli occhi nella gloria mia, et come si sia son suo servitore.
V. Ex. usi sempre quei modi che gli paiono atti a defendere la innocentia de
un suo servitore, cora'io vi sono, et se trovate ch'io abbia composto tal cosa
fatemi tagliare in mille pezzi, et per me lo prometta V. S. IH™* a Sua S**. Io
so chi è che fa tal novella, ma a me saria imputato odio, però lo taccio.
Signor mio, è possibile che voi che sete prodigo, non che cortese, a tatti gli
huomini, a me che vi adoro siate così avaro: quando ho io bavere un pane da
voi ? quando sarò morto ah ! o non vi dole egli che una opra fatta a honore di
tutti quelli che sono stati et che sono et che saranno di casa vostra et di voi
medesimo habbia a stare impegno per CC scudi, come sta per il pane ch'ho
mangiato io mentre per voi l'ho fatto? questo ch'io vi dico sa tutta Vinetia, et
mi pensavo pure che quando vi mandai il pugnale mi donassi tanto ch'io la ca-
vassi d'obrobrio, ma la mia sorte è pessima più con voi che col Papa. Et che
sia il vero, perchè io dissi anno doi parole per martello, V. Ex. mi mandò a
minacciare di farmi torre la vita. Si per doi parole cosi aspramente mi volevate
punire, perchè non mi remunerate d'un libro pieno di cose che solo voi lodano,
et pochi dì sono c'ho fatte stanze in gloria de i meriti vostri che non le paga-
rebbono gli Stati.
Io vi suplico per extrema necessità mia che vogliate mandarmi cinquanta scudi,
che per Dio mi date la vita, et adesso conoscerò chi io adoro, et quel che dic'esser
sia presto. Che risoluto ch'io son di non gli bavere vo' perdere la vita insieme
con la speranza et con la servitù mia sì perfetta inverso di voi. Al corpo di
San Francesco che s'io havessi il libro in mano come non l'ho, et V. Ex. non mi
mandassi tali danari, lo brusciarei. Io so che gli barò, et gli aspetto per pagarne
un debito d'una parte del pugnale, che per Dio vale più che non s'è pensato da
voi, et forse non haresti patito ch'io patissi.
Fra un mese vi manderò una sella, la più stupenda che vedesse mai Re né
Imperatore, et nel grado suo di più lode et prezzo del pugnale. Neanche per questo
spero mai haver da voi se non un saio, et poss'io mentire per la gola.
Di Vinetia (s. a.)
Di V. S. Ill"^"
Divotìss.° et disperato
Pietro Aretino.
Al mag.^o C.o Cesareo
il S.' Marchese di
Mantova.
— 88 —
XXVI
P. Aretino àlVamh. Malatesta *).
Signor Imbasciator
V. S. con la solita diligentia et gentilezza sua voglia per amor mio scrivere
al S." che mi doni cinquanta scudi, che per Dio n'harò obligo sempre ; et ditegli
che sua Ex. ha non poco dato amiratione alle genti ch'hanno visto il pugnale
et li presenti di lui, et direte il vero che n'ha gran biasimo hauto et non è burla.
V. S. scriva a m. Hippolito Kalandra che vi mandi la comedia del Marescalco ')
senza fallo con dire che ne sete stato richiesto da assai gentilhomini, et io son
Di V. S.
Ser.e
{Senza firma).
1) Biglietto accluso ad una lettera dell'amb. a G. J. Calandra, 7 genn. 1530: « L'Aretino mi mandò per
« il caso suo questo memoriale, et io ho scritto come la vederà : certamente che il pugnale è bello e di
« bon valore. Prego anche a dire a m. Hippolito quanto esso ricerca per la detta police et pregarlo ad
« farmi bavere quella commedia. » — E il Malatesta scriveva lo stesso giorno al Marchese : « M. Pietro
« Aretino mi ha pregato che voglia supplicare a V. Ex. che per ritrovarsi a molto bisogno la voglia
« esser contenta donarli cinquanta scudi, et mi ha dato questo plico alligato da mandarli. » — Il Mar-
chese faceva rispondere all'amb. (12 genn. — CopialetL, 299): « Haverete da questo cavallaro 50 ducati
« d'oro che vi mandamo da dare a m. Petro Aretino, quali gli dareti, et gli direti in nome nostro che
« l'amamo singularmente, et che semo per fargli molto magior piacere, rengratiandolo appresso delle
« compositwni che ce ha mandato. Mandamogli appresso la comedia che ce ricercha. Gli direte anche
« che per un'altra non rispondemo alla lettera sua, che per andar in campagna come facemo non havemo
« potuto commetter la detta risposta. » Quali fossero le composizioni, di cui l'Aretino mandava addi-
rittura un plico, non sappiamo precisare.
*) Da questa lettera si rileva con sicurezza che anche il Marescalco, come la Cortigiana, fu composto
parecchio tempo prima dell'anno in cui venne pubblicito (1533). Si può ragionevolmente presumere che
questa commedia, di argomento mantovano, e con allusioni frequenti a persone mantovane, fosse ispi-
rata all'Aretino da un fatto realmente accaduto nel suo soggiorno alla corte de' Gonzaga — dagli ultimi
del 1526 alla primavera del 1527 — e forse scritta per commissione del Marchese, che amava divertirsi
col veder riprodotta sulle scene una burla già da lui stesso ordinata. Che il Marescalco fosse anche
rappresentato non risulta: ed è difficile il crederlo, vedendo, in que' tempi procellosi, interrotti gli
spettacoli teatrali, di cui prima s'allietava la corte di Mantova (cfr. D'Ancona, Il Teatro mani, nel
sec. XVI, in Giornale st. della lett. it., V, p. 73). Certo, questa commedia dell'Aretino vi sarebbe stata
in caso applauditissima, perchè anch'oggi non la si legge senza piacere : e vi è ritratto con molta vi-
vacità comica quel tipo del Pedante, da cui sembra Giordano Bruno derivasse il Manfurio del suo
Candelaio (cfr. Gbap, Studii drammatici; Torino 1878, p. 189); poi trasportato tal quale nella commedia
dell'udinese Vincenzo Giusti, il Fortunio, malamente attribuita all'Aretino (cfr. quanto ne scrissi nella
Domenica Letteraria, Anno II, num. 15). — È il Pedante, che nell'atto V, se. Ili del Marescalco fa-
cendo un discorso d'occasione per le simulate nozze del protagonista, rammenta a titolo d'onore parecchi
letterati e gentiluomini fiorenti in corte : il Calandra castellano, il cavalier Vincenzo Guerrieri da Fermo,
U Ceresara, il capitano Luzasco, il musicista Alberto. E altrove è nominato il cantore Marchetto Cara
(atto V, BC. II) e più d'una volta Giulio Romano. Tra l'altre, m. Jacopo (atto IV, se. V) dice: « Andiamo...
« in sino a San Bastiano, volli dire al T, che forse Julio Romano averà scoperto qualche istoria di-
« vina. » E il Pedante facendo eco : « Eamus : o che bella macchina è il palazzo che da la architet-
« tura del suo modelliculo è uscito: Vitruvio prospettivo prisco ha imitato. »
I
— 89 —
xxvn.
P. Aretino al Marchese di Mantova.
Ottimo Principe
Sì come si perde l'animo quando la virtù s'abandona, così quello cresce quando
la virtù s'aiuta. Rendo a V. S. Ex.""» quelle gratie dei danari ricevuti dalla gen-
tilezza vostra che si rendono a Dio degli ottenuti voti. Et perchè senza voi son
nulla et senza voi nulla vorrei essere, gli do aviso come per ispiratione divina
ho fatto pace col santiss." et R™° Datario. E per Dio con buona mente et cor-
diale aflfettione m'ha ricolto, se il core si po' conoscere nella lieta fronte ; et sonne
tanto contento quanto sia possibile, et spero che la sua bontà mi renderà quello
ch'ella m'ha tolto.
Et perchè V. Ex. è il mio Dio, vi suplico a scrivergli una lettera, et dimo-
strargli con quel favore che solete farmi quanto piacere voi havete havuto nel
intendere ch'io gli sia ritornato servitore, et quanto piacere harete quando sua S.'""
mi aiuterà ancora per quella fedel servitù ch'io me gli son dato. V. Ex. è savia
et intende lo animo mio, et son certo che mi sarà di grande utile cotal lettera,
maxime scritta da favorevole inchiostro.
V. Ex. mi mandi una sella, cioè il casso d'una sella a vostro modo, sul quale
vi mandare tal lavoro che stupireti come del pugnale; benché già è fornita quella
che per voi è cominciata pure volemo vedere la foggia.
Un'altra gratia voglio et poi sin che il libro non vi perviene in mano non vi
darò impaccio niuno nò di niente. Io sono su le feste et gli amori incazziti, et
ho bisogno di 4 braccia di tabi d'oro texuto se ce n'è nel rosso, o tela o brocato
come si trova; et ve ne sarò obligato per infinita secula amen.
De V. Ex. S." 1)
Postscritta. Per essere il Datario ito a Verona V. Ex. si degni a posta man-
darci un suo et scrivergli ciò ch'ò detto di sopra, che per Dio ne risulterà un
gran bene per un vostro servo in eterno.
(S. d. n. 1.)
oblig"^ schìaviss." et serviss.^
P. Aretino.
^) « Vi rengratio anco di quanto mi scrivete circa la sella, e ve manderò il fusto secondo ricercate.
« Ho fatto cercare del brocato o tela d'oro de la sorte che adimandate, ecc. » Così il Marchese nella
sua risposta del 13 febr. 1530 {Lett. alVA., I, 11).
9Ó
XXVIII.
Il Marchese di Mantova al Giberti.
{Copialett., Lib. 301)
D°° Episcopo Veronensi. — Io non posso fare che non ami m. Petro Aretino
per le virtù sue et per esserrai stato sempre amorevoliss.** et perchè con l'opre sue
mi ha fatto molto honore; et essendo tra V. S. et me quel amor mutuo che vi è,
vorei che tutti quelli a quali porto amore ha vesserò anche la benevolentia et
amor di quella, sì come io voglio amar quelli che sono amati da lei. Per questo
havendo inteso dal p.*" m. Petro proprio per le sue lettere che l'è sta restituito
in la gratia et benevolentia della p.*' S. V., la qual elli ha desiderato sumamente,
sperando anche per opera di quella doversi reconsiliare con altri, ne ho havuto
piacer gran.™". Et con questa mia mandata per cavallaro a posta ho vogliuto
significarglilo ; et benché pensassi ch'ella non havesse fatto senza causa quello
ch'haveva fatto contra lui, nondimeno sempre ho sperato che per humanità et
benignità sua ella fusse per far quello ch'hora l'ha fatto, et così spero ch'ella sia
per gratificarlo per l'ad venir dove la potrà, nondimeno la prego anche io che per
amor mio voglia h averlo raccomandato et fargli piacere et aiutarlo dove la puotrà.
Che tutto quello bene che farà a ditto m. Petro lo farà a persona ch'amo sum-
maraente ecc.
Mantova 8 febbr. 1530.
XXIX.
II Giberti al Marchese di Mantova,
IH'"'» et Exnio S" mio
Ho preso grand™" piacer di quel che V. Ex. mi significa haver preso della
reconciliation con m, Pietro et che la si degni stimarlo tanto che babbi voluto
mandar homo a posta per questo, perchè sendo io servitore suo della sorte che
sono mi deve esser caro ogni poco servitio che me li vien fatto, tanto più uno
che sia tenuto da lei così grande come io anchora voglio tenerlo per me. Et cum
tutto che nel cor mio non havessi odio alcuno con esso m. Pietro, et mi dispia-
cesse che lui ingannandosi di me credesse ch'io fussi verso di lui quello che non
sono verso alcuno, pur mi piace soraamente che sia tolto via quel che poteva dar da
dire alla gente et quel che si deve servare tra cristiano et cristiano et io farne
(sic) più conto per bavere un poco più conoscimento forse che non ho havuto fin
— 91 —
qui. Sì che me ne allegro et ringratio V. Ex. del contento che ne piglia per
amor mio. Et perchè nella lettera sua è una parola ch'io non vorrei che nella
mente sua fusse tale per quanto ho cara la gratia non solo sua ma della S.*''
di N. S. mio patrone et di tutto il mondo insieme, non posso lassarla passai*
senza pregarla ad esser certa, se è certa ch'io sia servitor suo, che se è stato
mai fatto cosa alcuna centra m. Pietro è stata senza ordine, senza consenso *;
senza saputa mia, anzi di quel che fu fatto presi io tanto dispiacer che se non
fussi stato sforzato dalli infiniti preghi ne facevo molto maggior dimostratione di
quel che feci.
E a V. Ex. baso le mani humilmente. Da Verona alli viiu de febraro MD^XX
Di V. Ex.
Devotissimo Servitor
El Vescovo di Verona.
XXX.
Il Segretario del March, di Mantova al Giherti.
(Minute, 1530)
R™o Mons.
Il S"" mio III"""* aspettava una lettera da V. S. in resposta della sua, tale che
la potesse mandare a m. Pietro Aretino, havendo lui pregato Sua Ex. a volére
scrivere ad essa V. S. et mandare uno a posta, mostrando bavere havuto piacere che
V. S. li babbi restituito la sua gratia, et pregandola che la voglia esser mezzo
con N. S. che lo habbia per servitore. Ma havendo veduto Sua Ex. che la littera
non seria da mandare, et più che in quella V. S. mostra haver dubitato per
quelle parole che non si habbia havuto qualche sinistra opinione di lei, ella me
ha commisso che scriva questa mia, et che sopra la fede sua et di leale principe
assecuri essa V. S. che ella non ha fatto scrivere cosa alcuna con tale pensamento,
ne mai pensò che V. S. havesse fatto fare nò pensato di fare cosa alcuna in la
persona di m. Pietro, et di questo V. S. ne stii con animo sicuro et sincero.
Nò Sua Ex. commise expresnamente più quelle parole che altre, che la sa ben
che non se possono sempre dittare le littere a parola per parola; ma V. S. le
pigli in questo senso, che con tale intentione è stato scritto, che quello che ella
ha fatto centra m. Pietro, cioè in odiarlo et abominarlo, l'habbia fatto con ra-
gione. Che Sua Ex. è anch'ella stata molte volte constretta a non volerli troppo
bene, havendo egli scritto cose centra suoi servitori. Nò V. S. creda che queste
parole siano state scritte con malicia dal cancellerò che scrisse la lettera, quale
sa tanto che cosa fosse mai fatto in la persona de m. Pietro quanto sa uno
puttino nasciuto pur beri. Il S'' mio tene V. S. per uno S. da bene, et sa che
la non pensarla a vendetta alcuna di tale nò d'altra sorte. Sua Ex. bavera piacere
che V. S. faccia scrivere un'altra lettera sotto la data della prima et che non pari
replicata ma scritta per resposta della sua: et sia tale che la possi mandare a
— 92 —
mostrar per il suo ambassatore a m. Pietro, et parli pur in essa di sé stessa
come li pare, purché lui veda che Sua Ex. habbia scritto et mandato a posta,
et Sua Ex. voria poter parere bavere scritto da sé et non ad instantia d' esso
m. Pietro.
V. S. sa mo' la intentione del S"^ mio, et se degnarà di compiacere Sua Ex.
comò la recerca; et io la suplico che la se degni haverme per servitore corno li
sono et commendo.
Di Mantova 10 febbr. 1530.
(Il Calandra).
XXXI.
L'amò. Maìatesta al Marchese di Manioca.
Vidi beri m. Petro Aretino il quale trovai con la confession in mano et
con lacrime airocchi, che piangieva sì come elio dice gli suoi pecati, et dissemi
che conoscea che Dio non lo volea abandonar et farli piìi bene che non meritava,
per esser stato fin al presente gran pecatore, et ch'havea terminato far altra vita
che non havea fatto fino adesso, essendosi al tutto deliberato rimettere gli ran-
cori gli odij et il resto di la mala vita di la quale è stato judicato, et che si
trovava in tutto contrito, et si volea confessar et comunicar con tutta la sua
famiglia, il che non havea fatto già qualche anni. Et che si trovava ben disposto et
consolato per opera del Ser.""» quale si era interposto per meggio del E.*"° Legato ^},
che N. S. gli havea perdonato et fatto pace seco, et etiandio il Rev. Ep." di
Verona. Et havea promisso al p.^ Ser.™» di levar dal suo libro tutte quelle cose
in le quali dicea male di Sua S.^* et in loco di quelle dire bene di lei et così
del detto Ep.o. Et che in segno che l'habbi consequito pace con tutti quelli che
l'odiaveno, Sua Sub.^* gli ha commandato che se confessi et comunichi, et cosi
gli ha promisso et observara, né gli mancarà mai per l'humano atto che gli ha
usato. Et appresso che N. S. gli ha promisso di farli la bolla che ninno se non
ad sua instantia possi stampare le opere sue et Tha recercato alli suoi servitii.
Io gli ho detto sopra questo ragionamento quello m'è parso: et detoli quanto
V. S. me coHimisse nel partir mio di volerli far uno presente, partito che sia
Cesare di Mantoa; di che ne ringratia quella anchor che non l'habbi recevuto.
Elio poi me ha detto, et così dal conte Guido *) et da altri son certificato, come
il Marchese di Monferrato, essendo stato qui, continuamente l' ha voluto in sua
compagnia, l'ha onorato et accarezzato infinitamente, gli ha donato una collana
di valore di 100 ducati, cento ducati in contanti, et per 150 ducati vestimenti
con recami et ori dentro. Doppoi l'ha recercato alli suoi servitii et promissoli
*) Il Vergerio.
>) Bangoni.
— 98 —
molte oose. Et mi dice haverli come promisso, benché non sia per attenderli se
V. Ex. non lo lascia morir di fame come l'ha fatto fino adesso, che non conosce
altro patron né Dio in terra se non V. Ex., et lei non si cura di lui che gli è
più schiavo che di se medesimo et ha più martello di lei che del suo inamorato,
ma che lei ha gran torto a tratarlo così legermente, che elio nel suo libro lassa
tale memoria di V. S. et di la sua .casa che sempre sarà immortale, ma che le
sue fatiche molto male sono state premiate. Ma con tutto questo non è per restare
di non esserli servitore; et che ha molto ben conosciuto che l'invito fattoli per
Monferrato è stato solamente per distorlo che non sii servitore di V. S. et per
deviarglilo et forsi con speranza di servirsi di esso in qualche suo dissegno, ma
quando lo facci per questo la può esser secura che restarà ingannata. Et che gli
pare di dir il tutto a V. Ex. et recordarli che gli è servitore et pregarla ad
trattarlo da servitore et non lassarlo morir di fame. Et questi giorni fece intender
a V. Ex. che mandandoli uno fusto da sella gli ne volea far fare uno che saria
stato singulare nò gli saria stato parangone, et mo' il conte Guido ha voluto
quello dissegno et la fa fornir a M." Valerio, che sarà al modo et foggia del
pugnale che donò a V. S. Ma se la gli manda uno altro fusto ne farà fare
un'altra che sarà anche più bella del desegno predetto. Il conte fa fare la detta
sella per il Cristianissimo.
In summa m. Petro prega V. S. che il dono che la intende de farli lo facci
presto et non aspettar che l'Imperatore parti da Mantoa, perchè vi potria star
tanto ch'elio patirebbe *)
Venegia 12 aprile 1580.
1) Il Marchese faceva rispondere al Malatesta(18 aprile — Copialett., Lib. 299): « Quanto ne havete
« scritto di m. Pietro Aretino ne è stato gratissimo intendere. Gli direte per parte nostra che poi che
« l'ha espetato tanto si contenti anchor di aspettar un poco, perchè adesso siamo molto occupati es-
€ sendo l'Imperatore in procinto di partirsi, et secondo mi ha detto S. M.i* dimani si partirà. Subito
« che sii partito faremo tal demostratione a m. Pietro che conoscerà che gli volemo gran bene, ricer-
c cando così li meriti suoi. Circa la sella per un'altra nostra vi faremo scriver l'animo nostro. » -
Alla lettera, poi, dell'ambasciatore va accluso il seg^iente bigliettino a lui diretto dall'Aretino, dove si
accenna a non sappiamo quali grazie che questi desiderava dall'imperatore per mezzo del Gonzaga:
Signor Imbasciatore
Mi è occorso scrivere per questa sera al Marchese per doi gratie ch'io li chiedo, una grande et l'altra
piccola: la piccola è ch'interceda a Cesare expeditione buona o ria per gli imbasciatori della Aquila (?).
Et l'altra che cerco pur per suo mezzo: che l'Imperatore chieda una gratia alla S.ria di Venetia; et
si ottengo ciò sempre gli sarò oblig.mo et dirò di bavere ricevuti granbenefitii da Sua Ex.; se no, fa-
vori et patroni non mancharano ai Pietri Aretini.
V. S. per sua gentilezza gli scriverà un verso del desiderio mio et di quel ch'io pur hieri vi dissi,
et questa fia l'ultima mia chiarezza del bene che sua Ex. dice volermi, et della speranza c'ho in lei;
et se fate la lettera la mandarò io, non havendo quella stasera per chi mandarla, ma bora vorrei che
la scrivessi et mandassi, et vi saluto.
. Di V. S. '
Servitore
obligmo P,o A. no.
- 94 -
XXXII.
P. Aretino ni Duca di Mantova.
Veramente Mag.'"*^ et optimo S/ mio
Dallo Imbasciatore di V. Ex. ho con sonjmo piacere inteso che la bontà vostra
è mossa per se stessa in recordarse di me, et hammi detto per vostra parte che
partito Cesare di costì mi consolareti con gratioso presente; del che mi con-
gratulo con l'animo mio quasi raffreddo nel fervore della divotione inverso V. S.
perchè mi pareva esser servo con poca speranza di bene, poi che sì parcamente
sin qui sono stato intertenuto. Hora ringratio Dio che senza mia importunità
vi siate degnato in ralegrarrai con qualche cosa di quelle che sogliono venire
dal Marchese di Mantova; et per chiarirvi io havvevo preso partito et novo pa-
trone, si non veniva a disturbarmi la cortese imbasciata fattami dal Mag.*^'^
m. Joan Iac.° Malatesti, perchè né la fatica della mia virtù, né '1 merito della
mia fede poteva più raffrenare la necessità sua. Et pensando che. X anni che vi
ho adorato, et per testimonio ne resta al mondo l'opra dal mondo più desiderata
che cosa che si desiderasse mai, et non bavere ancho uscito d'un saio et d'un
giubone, m'ero disperato: et quel che più m'induceva a disperare era un dono
che m'ha fatto di più di VI cento scudi il Marchese di Monferrato, che mai non
m'ha visto si non in Vinetia, et apresso le grandi propherte volendo ridurmi seco.
Et più il Dusi Andrea Gritti, che anch'egli non mi ha più visto né parlato et
s'è mosso con tanto amore inverso de i miei torti et ha presomi in tal protetione
che oltra che mi ha renduta la gratia del Papa mi farà de la mia servitù pagare
et presto, et ho più favore in questa sola città che forestieri che ci fossi mai
perchè il mio padre è principe di Venetia, et ben lo posso chiamare così poi
ch'opra per me paternamente.
Sì che essendo così che dovria fare il Marchese di Mantua? Io vi predico,
io vi exalto, et sempre v'ho nella anima, et non ci sono però cento Aretini in
Italia, et se V. Ex. mi mandava il fusto della sella vi facevo tal presente che s'arìa
messo pensiero allo Imperatore a farne un simile a un altro imperatore. Et non
crediate che il Marchese di Monferrato mi vinca di cortesia, che senza una im-
presa d'oro et un bel presente di profumi che gli ho donato qui, gli mando
adesso uno specchio di gran quadro di cristallo orientale nettissimo, nel orna-
mento del quale ci sono incassati otto medaglioni di mano di m. Valerio pure
in cristallo come sono quelle figure del pugnale. Et a me costano cento scudi,
et fra l'oro e l'argento et il gran pezzo del cristallo fatto per ispecchio costa
ducente altri, ma sia che signor si voglia non l'haria per cinquecento, né in tre
anni saria finito et io l'ho già a fine. Sì che non si po' la generosa natura mia
vincere a niun modo'). Le cose ch'io ordino per il N. S. saprete poi'). Ma la
i
') Questa lettera inedita dell'Aretino è stata già, citata dal Sinioaqlia, Sa(/gio di uno studio su P. A.,
Boma 1882, p. 101; il quale rì permette di parafrasarla, capovolgendone affatto il senso, di modo che
riferisce al Marchese di Mantova i doni scambiati con quello di Monferrato. « Pur beato ch'io v'inviai
« pugnali, medaglie e doni per migliaia (!) di scudi, chò almen conoscerete la mia generosità non po-
« tersi vincere da alcuno. » È inutile fare qualsiasi commento, taiito più dopo il giudizio da me dato
altrove (niornale storico delUi lett. il., I, 330) su quell'enorme e sconcio pasticcio del sig. Sinigaglia.
*) Allude ai vetri ammirabili per « la foggia de l'antiquità disegnata da Giovanni da Udine » (cfr. p. 51).
- 95 —
somma del mio dire è che ogni volta che voi me v^orrete per servo non affamato,
io son per lasciare Papi, Re e tutti i principi del mondo per servirve pur discosto
come faccio adesso. Né premio grande o grandi speranze, nò grado mi corromperà
mai, perchè troppo è incarnato in l'anima mia et nel cor mio Federico Gonzaga.
Et quando non mi vogliate honestamente sovvenire, vedrete ch'ò mille vie dd
vivere: et così cosi ci sono pochi forestieri honorevoli qui come sono io; tengo
casa suso il Canal Grande comodamente guarnita, do il pane a cinque servitori
et il vestire a me simile. Et sempre tre o quatro mangiano meco, et sto in Ve-
ne tia ch'ogni cosa è carissima, et già è chiaro il Papa che non po' morire di
fame un Pietro Aretino, et come io sia o habbia a essere V. Ex. è il mio Dio,
purché vi degnate ch'io vi adori, et presto udiranno gli huomini di che suono
sia Marphisa, la quale viene a presentarmi la pace publica d'ognuno et l'utile
et la gloria sempiterna, et mi ritrovo con manco fastidio che fosse mai, et per
fede di ciò mi sono confessato et comunicato Dio gratia.
Circa la gratia scrittavi dallo imbasciatore, ve lo scrivevo, ma la lettera non
deve esser comparsa in mano di V. Ex.; et in cambio di quella mandatemi un
paio di calze da donna, d'oro et di seta delle più ricche che costì si facciano,
et ve ne prego per Dio, et se mai credete farmi ben ninno degnatevi a farmi
presto presto presto questo piacere, che lo aspetto con gran sete, né m'importano
i colori purché siano belle et preste, et io alla nuova consorte di V. Ex. ne
aparecchio il cambio *). Honne presa somma consolatione, et così tutti, nò meritava
il mio S. meno donna che una regina, né quella regina minor marito che il
Principe unico di Mantova. Dio faccia tosto uscire di sì glorioso seme un altro
a similitudine vostra, acciò che Italia sempre risplenda di tanta cortese bontà
quanto appare in voi solo et senza exempio. Et potria bene esser che Mantova,
allora che la menarete, mi veggia.
Parlerò adesso di Cesare il quale adoro, poi che l'à pur conosciuto la divotione
portatagli da V. Ex. et ha fatto il debito suo a ballare, a cacciare et a ban-
chettare come se dice per ognuno che ha fatto contra natura sua. Ho inteso da
molti che Sua Maestà per allegrezza del haver toltosi da Bologna dal babbo
santo ha cantato in su i vostri organi d'allabastro, et per certo che molto é
piaciuto a coloro che credevano che l'Imperatore fossi composto di silentio pro-
fondo a tutto pasto. Non altro, a V. Ex. baso le mani.
De Vinetia a XX d'aprile MDXXX.
Di V. Ex."^» S.
Oblig.^o et divotiss.o Servo
P. Ar.^o.
>) Il principe faceva rispondere al Màlatesta (27 aprile — Gopialett., 301): « A m. Pietro Aretino
« direti che facemo ritrovare un par de calze de la sorte che '1 voria, che gli le mandaremo subito,
« et in brfcye li faremo anche navere il dono promessoli. » — L'A. accenna al prossimo matrimonio
di Federico con Margherita Paleologa di Monferrato.
— 96
XXXIII.
Il Duca di Mantova a P, Aretino.
{Copialett. ordin., Lib. 301)
Mag.<=° m. Pietro mio.
De piacere grand.™^ mi è stata la lettera vostra de xvi del presente che mi
havete mandata per Vincenzo Calcedonio con la copia della lettera del S^ Turco ^),
Et molto ve ne rengratio, havendo gratiss.* la memoria che veddo che tenete di
me, col scriverme et voler mandare presenti et vostre compositione, quali per
essere ingeniose eleganti belle et delettevoli mi piacciono sempre, ma maxime in
questi dì longhi et caldi, quali a chi non ha qualche buon intertenimento sono
molto fastidiosi; et intertenimento ninno né più bello né megliore né di piìi
delettatione si può bavere che legere le vostre compositioni, ornate de tutto quello
che vi si conviene. Però con desiderio aspetto el primo canto del vostro libro che
promettete de mandarmi, quale tanto più mi sera grato quanto lo bavero più
presto. Et finito che lo bavero di legere non mi vogliate laxare rencrescere in
questi longhi et fastidiosi caldi *), et fate, vi prego, che continuamente io habbia
qualche cosa nuova del vostro, con che me possi intertenere. Ad ogni altro veddo
che il provedermi continuatamente de nove compositioni seria troppo gran carico ;
ma al vostro copioso ingegno, quale anchora che habbia occupatione de varie cose
non solo non cerca di riposarsi mai ma de continuo partorisce qualche bella cosa
di novo, so che non sera difficile ; però liberamente ve ne recerco, non dubitando
de impuorvi troppo gran peso. Et alli commodi et piaceri vostri me oifero di-
gpositissimo.
Da Mantova alli 20 de giugno 1530.
1) Uno cioè di quegli estratti di lettere, che facevano parte del giornalismo rudimentale dell'epoca.
E l'Aretino che ci teneva a esser ben informato e si vantava d'aver « tutte le nuove del mondo »
{Lett. alVA., II, 246), si affrettava a communicarne a' Principi. — Nel cod. mare, ci. XI it., n» LXVI,
a carte 320 r, trovasi « la lettera mandata questo mese de zugno 1530 per el S. Turcho al Illmo Prin-
cipe m. Andrea Gritti » che è senza dubbio questa stessa spedita subito dall'A. al Duca di Mantova.
') « La vostra Eccellenza — rispondeva l'Aretino — ricerca da me qualche ciancia per farne ven-
« taglio del caldo grande che arde questi dì, che si trapassano fastidiosamente. Onde gli mando de le
« stanze composte in honor de la Genealogia da Gonzaga... Hora io ho havuto la zamarra di velluto negro
« e i cinquanta scudi, i quali di man propria mi ha contati in casa il signor Benedetto Agnello »
(cfir. doc. XXXIV, disp. 11 luglio). Questa lettera nella stampa ha la data del 2 di giugno 1531 (Let-
tere, I, 22), ma è evidentemente errata, perchè l'anno appresso l'Aretino era in rotta col Duca: e deve
perciò riporsi al luglio 1530, a cui conviene perfettamente. Gli errori di data sono molto frequenti nelle
lettere a stampa dell'Aretino: e da essi, eruditi e biografi furon tratti troppe volte fuori di strada.
Basti dire che nessuno s'è accorto che la lettera (I, 4) a Francesco primo , con la data di Roma
24 aprile 1524, verte interamente sulla battaglia di Pavia : e che perciò sono erronee tutte le dedu-
zioni del Mazznchelli sulla presenza dell'Aretino a Roma, in base a quella lettera (cfr. La Vita di
P. A., p. 21).
— 97
XXXIV.
Dispacci delVamh. Agnèllo.
Venezia 1530.
11 Luglio {Ai Duca). « Ho dato li cinquanta scudi a m. Petro Aretino, che
V. Ex. m'ha mandati *), li quali gli sono stati molto grati però che sono venuti
a tempo, che non haveva un soldo, et ne ringratia infinitamente V. Ex. Il mal
suo fu d'un solo parosisrao di febre et hora sta sano et dice che non mancarà
di scriver spesso a V. S. m."^^ ».
6 agosto {Al Calandra). « L'Aretino è amalato, Dio lo togli nanti ch'el peg-
giori {sic). Heri mi mandò a domandar, et mi disse che ha gran paura di morir
nanti ch'el possa finir la sua opera; me ha instato ad voler pregare il S.^ ad vo-
lerli mandare un scrittor da scriver quella parte che l'ha finito qual dice esser di
tremilia cinquecento stanze, affirmando che se Sua Ex. non fa questo assai dubita
che le sue fatiche seranno invano, perchè l'ha ogni cosa sottosopra senza ordine;
et tanto mi disse che fai sforzato a prometterli de scrivere ».
XXXV.
P. Aretino al Duca di Mantova.
Mag.™° Principe
Sin qui V. Ex. ha le necessità di me solo riparate, adesso bisogna che la gran
bontà vostra ripari al ultimo pericolo di tutti gli Aretini, i quali con il medesimo
fervore vi adorano che faccio io. Et si ben vi ricorda la prima volta che io fui
a Mantoa per commessione di tutta la patria mia vi offerii tutti loro fidelissimi,
et di questo ne po' far testimonio l'exercito cesareo che tanta amorevol fede non
ha conosciuta in tutta Italia, nò per havergli mal sodisfatti lo Imperatore son
però mancati, che quando l'havessin fatto grandemente impedivano alle sue genti
') Nel lib. 301 de' Copiaìett. ordin. troviamo queste missive del Duca all'ambasciatore Agnello:
4 luglio. « M. Pietro Aretino per una sua ne fa intendere che egli è malato et ne priega che vo-
« gliamo mandarli cinquanta scudi da curarlo. Fateli intendere che havemo havuto la lettera sua et ne
« incresce grandemente del male et che fra dai ^ li inv faremo li cinquanta scudi. »
9 luglio. « Se vi manda cinquanta ducati per Scrittine nostro cavallaro, quali volerne che portati
« a m. Pietro Aretino, et gli li diate da nostra parte visitandolo in nostro nome, et dirli che goda questi
« per adesso per amor nostro et che attendi a guarir et revalersi, acciò che ne possa scriver qualche
« cosa secundo il solito che ne dilecta... — Direti a m. Pietro che non si responde alle lettere sue
« per non affaticarlo in legere essendo amalato, ma lo certiflcarete che ne sono state gratiss.e come
« le sono sempre. »
Lotio — Pietro Aretino 7
— 98 ~
l'impresa, anzi son restati più che mai in la speranza che viii cento anni gli ha
tenuti divoti di Cesare, et hanno al Imperatore móstro i previlegi de i suoi pre-
decessori, ì quali gli hanno solidato la libertà cara sino agli animali.
Hora, Signore, i poveretti sapendo che non mio Signore ma sete mio Dio, son
ricorsi a me et con le mie parole vi suplicano che vi degnate in nome di V. Ex.
jEar scrivere a Don Ferrante che sia qual si voglia il fine che gli soprastia gli
voglia pigliare in protettione; et havendo in V. S. 1\\.^^ la stessa servitìi che
ho io si gettano in le braccia di S. S.^*, et dove al fratello vostro piacerà metergli
ivi steranno fedelmente.
Ma qual premio potrà la cortesia vostra mai dare alle mie lunghe fatiche che
pareggi il conservare per amor mio la mia patria intera ? Non un tesoro, non un
Stato mi saria tanto caro, quanto la salute della patria ; et però, Signor ottimo,
adesso è il tempo che V. Ex. dimostri al mondo il qual sa che io vi adoro
quanto cura tenete della servitù mia. Io vi chiedo cose honeste et sante, et vi
ricordo che gli Aretini sono antichissimi toscani, et che Virgilio confessa Mantoa
essere fondata da toscani, et chi sa che gli Aretini che aiutare Koma a vincer
Kartagine non aiutassero a fondarla!
V. Ex. si degni, piacendole però de scrivere in benefitìo nostro, indirizzar la
lettera a me, perchè voglio che gli Aretini col presentarla a Don Ferrante pre-
sentino anco se stessi, et desidereria anchor la copia per consolatione dei miei
cittadini, et presto perchè le cose sono per terminare a corapiacentia della fortuna
tosto. E sia la lettera di V. Ex. di quelle che solete scrivere, dolci et amorevoli
et atte a ottenere la gratia adimandata, che per dio non mi è la vita tanto cara
quanto mi sarà questo benefitio. Oltra di ciò V. S. 111.°^* mi dà tanta riputatione
in la patria e fuora, che più non ne desidero. Ma a che fine mi extendo in lungo
dire se io conosco la onnipotente bontà del Duca di Mantoa? Al quale bascio
le mani.
Di Vinetia xviiu d'agosto 1530.
De V. S. Ex.°i^
Eterno et Obb.n^o Servitore
XXXVI.
Il Duca di Mantova a Ferrante Gonzaga.
(Copialett. or din., Lib. 300)
111.°^ ecc. Io mi sento tanto obligato a m. Pietro Aretino per le immortai lodi
che mi dà in li suoi dottissimi scritti con il raro ingegno suo, che quantunque
io cerchi di mostrarmeli grato in ogni occasione dove possi fargli piacere et comodo,
non posso però satisfare a gran pezza l'animo mio; et però non potendo io solo
far quanto vorrei, et essendo V. S. in luogo e termine di poter aiutare il desiderio
mio, m'ò parso pregarla per questa mia a far l'opera che ricerco d'altri, avenga
che anchor ella sia in parte debitrice meco del ditto m. Pietro per li degni pre-
conij per lui celebrati della casa nostra et di nostri 111.™^ progenitori.
Il p.^ m. Pietro, come sa V. S., è de la patria di Arezzo di Toscana, città
antiquissima, la quale è sempre stata fecundissima di dottissimi ingegni così
antiqui come moderni, et egli come persona che ama la patria sua, da la qual
merita esser non solamente amato ma honorato, sta molto ansio che, per il comun
incendio di guerre sono state in Toscana, quella città oltre li danni che forse ha
patiti non patisca ancora qualche incommodo o detrimento. Et perchè io vorrei
che l'animo di m. Pietro fosse tranquillo et imperturhato per poter vacar meglio
alli stadi et composi tioni, per questa mia prego V. S. quanto più di cuor posso
che con l'autorità sua la voglia proveder che li Aretini siano diffesi et riservati
da ogni incommodo militare, et havergli in quella protettione che la haveria
qualunche terra del Stato mio, che in ciò mi farà piacer sing.'»». Et haverò piacere
che essi Aretini intendano che tutto il favor che se li fa e farà sia fatto ad
instantia mia per rispetto et a contemplatione del ditto m. Pietro. Et V. S.
sappia ch'essi Aretini le scranno fideli'et obedienti, et per quanto sono informato,
et V. S. lo deve haver visto con li occhi, loro sono stati fedeli alla M.^Ces.* et
ossequenti alli capitani di quella, anchor che forsi la fede loro sia stata tentata
da li inviti de Fiorentini allhora ohsessi dall'exercito imperiale et da qualche
mali deportamenti de soldati. Se li ossi et la memoria de poeti o philosophi ha
mai reparato e diffeso alcuna città da l'excidio e ruina appresso a generosi vittori,
il rispetto di m. Pietro merita questo favor da V. S. che la patria sua le sia
raccomandata, et tanto più non essendo stata contumace né nemica ma ossequente
e fidele. Ma essa V. S. lo farà anche per amor mio che gli ne restarò molto
obligato, et a lei mi offero e raccomando.
Di Mantova il xxiiii di agosto 1530.
XXXVII.
Il Duca di Mantova a P. Aretino.
[CopiaìéU. ordin., Lib. 300)
Mag.<^° et dottiss.° m. Pietro mio dilettiss.o
Havendo visto per la lettera vostra quanto mi ricercati in favor et raccoman-
datione della patria vostra, molto volentieri ho fatto scriver la alligata al 111.°""' S""
mio fratello, de la sorte che vederete per la copia che vi mando qui inclusa. Se
conoscete ch'io possa far altro per vui, per la ditta patria vostra avisatime che
lo farò sempre di buon core per l'amor ch'io vi porto. In questi dì prossimi
passati ho havuto due vostre lettere le quali mi fumo gratiss.® e fumo lette da
me con gran."^'' piacer , come facio sempre le cose vostre. Et ve rengratio di
quanto in esse mi scrivete, aspettando qualche altra cosa piacevole et arguta,
che se ben ve recordate me mettesti in aspettatione di certe cose di nova inven-
tione et di bel sugetto. A vostro piacer mi offero ecc.
Mantova 24 agosto 1530.
— 100 —
XXXVIII.
Il Calandra alTamh. Agnello.
{Minute, 1530)
Havendo visto il S. 111.°^° quanto haveti scritto ^) haver dicto m. P.» Aretino
me ha commisso che ve scriva che li dicati da sua parte che S. Ex. intende che
non può pur abstenerse de dir male de suoi servitori et della sua corte, o che
minaccia di dire : che li fa intendere che, se l'apre da mo' inanti la bocca a dire
0 la mano a scrivere pur del minimo non solo de la sua corte ma di Mantova,
che ne restarà tanto offeso come se '1 dicesse di lei propria; et che al corpo di
Jesù Chisto li farà dare dece pugnalate in mezzo Realto; che l'ha supportato
assai la sua maledicentia, ma che se guardi che non è per tollerarlo più. Et se
se li manderà un scrittore non si li manderà perchè si extimi sue minacce ').
Da Mantova 16 Sett.
XXXIX.
P. Aretino al Duca di Mantova.
ni.™o S"^ mio
Veramente io vi sono un gran fastidio alle spalle tutto il dì, ma non havendo
altro dio per i miei bisogni che il Duca clementissimo di Mantova è forza a
1) € Le parole — scrive l'Agnello in data 12 sett. — che usò P. Aretino perchè non si mandava
« Attilio (V amanuense richiesto) furono queste : che per miseria de due scuti si restava di mandarlo ;
« et acciò che il S.r non havesse questo danno che lui li mandarla al Thesorero, dicendo che se '1 si
« metteva a dir si sentirla belle cose de la corte nostra; ma che '1 voleva haver rispetto al S.r, mo-
« strando di observarlo più che homo del mondo, et in eftecto il parlar suo fu solamente contra li
« servitori et non contra il S.r. »
') L'Agnello così compieva la sua missione (lett. 21 sett.): « Ho fatto l'ambassata a P. Aretino;
« l'è ben vero che non li ho detto che '1 S.r li farà dar le pugnalate in mezo Eialto, ma li ho par-
« lato di sorte che '1 può pensare che '1 S.r nostro li farà quello et anche peggio. Lui al principio
« restò muto, né sappeva se fosse lui o altro, di modo che cognosco che è entrato in gran filo. La
« resposta saa fu questa che il S.r non ha servitore alcuno più affectionato di lui et che l'opere sue
« lo demonstrano; et che '1 non sa haver ditto alcuna cosa di Sua Ex. né di alcun di suoi, pur anche
« quando l'havesse detto qualche cosetta che seria stato non per dir male ma per la gelosia che l'ha
« di l'honor di sua Sri» Illma dolendosi che lei entri in tanta collera per cosa minima. Io non li ho
« voluto dire ch'io babbi scritto di lui a Mantua et che per quella causa il S.r sii entrato in collera.
« M. Titiano era presente quando lui disse quel che scrissi de li dui scuti. » — In un dispaccio del
28 settembre troviamo poi la seguente nota : — « P. Aretino m'ha mandato questa lettera, doman-
« dandomi di gratia che la voglia mandare. Io l'ho ricusato la prima volta, ma lui non è restato per
« qnefeto di remandarmela, usando le più pietose parole del mondo. Sappi V. S. che dapoi che '1 cognosco
* non lo vidi mai cosi afflitto né in tanta paura, di modo che si cognosce chiaramente che il rebuffo
« che li ho fatto da parte del Sr ha fatto bonissimo effetto. » — È certo che queste righe dell'Agnello
si riferivano alla lettera non conservataci con cui l'Aretino chiedeva al Duca di ottenergli quel bene-
fldo in Arezzo, di che tratta il documento XL.
— 101 —
quello ricorrere. Io non posso manchare a Vincenzo Bovetto di questa apportatore
perchè l'ho come sa ognuno allevato. Egli è venuto a me aciò ch'io ottenga da
V. Ex. per lui un luogo de lancia spezzata, del che vi suplico, che dando il pane
a lui lo date a me. Che egli sia homo da bene m. Paulo Luciasco et Scipione
ne ponno far fede. Io non ricerco questa gratia per amico ma per me istesso.
Et si come mai non mi venne meno la speranza nella Ex. V. così son certissimo
che otterò quanto de core vi domando; et racomandomi alla somma bontà di
quella et prego Christo che tanto mi presti vita quanto io sia utile alla gloria
sua et per altro non mi è cara la vita,
De Venetia Settembre 1530.
Di V. 111.'"^ S.
Perpetuo Oblig.™» Sei:yo
P. Ar.«
XL.
lì Duca di Mantova a Francesco Gonzaga.
{Copialett. orditi., Lib. 301)
M.cs Eques, Petro Aretino ne fa intender che un hospitale di S.**' Angustino
juspatronato della Comunità d'Arezzo molti dì sono è che vaca per morte, qual
la S.^* di N. S. tien in sé di presente, pregandone che lo vogliamo impetrare per
farlo caschar in mani sue et recercandone ad far sopra ciò gran.™* instantia per
obtener tal gratia, perchè ne scrive che '1 Papa non è per darlo se non per forza.
Noi che voluntieri vederessimo compiaciuto il ditto m. Petro semo contenti che
voi con dextro modo dimandati tal hospitale per esso m. Petro interponendogli
il nome nostro, simpliciter pregando Sua S. ad voler fare senza preiudicio a cosa
alcuna, et essendo con sua bona satisfatione, facendogli intendere che per il p.*"
m. Petro semo recercati ad far fare questo officio, servando talli termini che la
p ta g ta liberamente possi risponder l'animo suo. Et bene valete. Mantue XXVIII
sept. 1530.
Post. In caso che la S. di N. S. non voglia condescendere a dar tal benefitio
a m. Petro, qual è d'entrata, per quanto mi scrive, di quatrocento ducati re-
spondetice che haveti fatto gagliardissimo officio, ma che '1 Papa ha fatto le
scuse che farà Sua S.^* et di manera che per la ditta risposta il p.^° m. Petro
cognosca che l'habbiamo servito con ogni caldezza ^).
1) L'ambasciatore rispondeva subito al Duca (7 ottobre) che non avrebbe mancato « di far Toffieio
con la dexterità et efficacia che si conviene »; ma il giorno stesso scriveva al Calandra: < A dire il
« vero simili bocconi non sono per uno suo pare... S. B. non darà, un beneficio tale se è de valuta
« de 400 ducati a molto maggiore homo di lui... Ma egli è ben tanto impudente che non se vergo-
« gnaria de torre una simile cosa; pazzo che gli è. »
— 102 —
XLI.
Dispaccio delVamh. Agnello al Calandra.
Venezia 1530.
4 ottobre « Poi che P. Aretino non può tacere, certamente merita che '1 pol-
trone sia castigato. Il S"* Abbate nel partir suo de qui me disse qualche cosa de
quel che l'haveva inteso dal S"^ Conte Guido (Rangoni) et per questa causa ho
deliberato di non voler pratica nò comertio alcuno seco. Come scrissi l'altro di ^)
a V. S. il gaiofio era venuto a retrovarmi, et narrandomi le sue desgratie del
bardassa et de li altri che li erano fugiti ^) se invitò de voler star meco fin che
s'havesse provisto d'altri servitori, ma gli feci tal resposta che subito se partì ».
XLII.
L'ambasciatore F. Gonzaga al Duca.
In executione di quanto V. Ex. mi ha imposto a questi dì, per le lettere
sue di XXVIII del passato, questa matina mi sono appresentato a N. S. et con
quel più dextro modo che ho saputo ho exposto a S. S.^ che havendo V. Ex.
inforraatione come ella ha in petto la collatione del Hospitale di S. Angustino
iuspatronato della comunità d'Arezzo, vacato già alcuni giorni sono, la sup-
plica con la maggior efficacia che può ad voler essere contenta di conferirlo in
la persona di m. Pietro Aretino, che oltre il gratificare che S. B. farà uno che
li è stato antico e devoto servitore, V. S. 111.°^" lo riceverà in singular gratia et
le ne bavera molto obligo per l'amor ch'ella porta a esso m. Pietro et per il desi-
derio che la tiene d'ogni bene et commodo suo : et sopra ciò mi son exteso quanto
ho indicato in proposito. S. S.** mi ha risposto esser vero che già sono presto
tre mesi che vacò il detto Hospitale, il quale le fu dimandato da una frotta di
persone, et lo tenne sospeso alcuni giorni: finalmente per levarse questo fastidio
da le spalle, la lo conferì, di modo che non è più in arbitrio suo de disporne;
ma che quando fosse vero che lei lo havesse in libertà sua, la farla tal dimo-
stratione in testimonio della extiraa ch'ella faccia delle reccomandationi di V. Ex.
che m. Pietro cognosceria tale officio esserli stato proficuo. Io non ho saputo che
replicare altro, se non basare il piede a S. B. per nome di quella, del buono
1) Manca questa lettera anteriore.
■) Su queste fughe di serTitori, che capitarono spesso all'Aretino, e sempre con lo svaligiamento com-
pleto della sua casa, cfr. la Vita, falsamente attrihuita al Berni, Opere, ed. Daelli, p. 192, e Mamu-
CHZLU, p. 89.
— 103 -
animo che la tiene di farle piacere. Mi è parso prima che si facci questo spazzo
dar aviso di ciò a V. Ex. sapendo ch'ella sta in molta expettatione di questa
risposta 1).
Roma 11 ottobre 1580.
XLIII.
P. Aretino aWamb. Agnello ').
Signor Imbasciatore
Dignatevi di ringratiar il S. Duca della opera amorevole fatta per me con
N. S., che per dio Sua Ex. non manca mai della solita bontà verso i suoi servi-
tori e n'ho havuta quella allegrezza che se io havessi ottenuta la gratia, et sono
aricchito dello animo buono di Sua Ex., et dio mi conservi la gratia sua che
non mi mancherà da vivere. Ditegli che gli mandarò fra quattro dì i Triomphi
fatti a Milano ') che gli daranno più solazzo che chi gli ha visti in persona, ma
con patto che stieno secreti, altrimenti non gli mandarò. Ditegli anchora che '1
Duca Alexandro de Medici d'Augusta mi ha con grande amore scritto deside-
randomi ai suoi servigi, et io ho risposto a Sua S."* M.» che finito l'opra del
mio Duca di Mantoa andrò a servirlo se il Duca di Mantoa mi darà licentia. Al
quale son obi™" in eterno
Servitor P.^ Ar.°o.
XLIV.
Dispacci delVamb. B. Agnello.
Venezia 1531-83.
5 febbr. 1531 {Al Duca). « Non beri l'altro di sera essendose partito il ca-
vallier Mainoldo *) dal suo alloggiamento per andare a casa de Vincentio Vallente
al quale havea prestati alcuni denari et certe robbe con dissegno di farsele resti-
tuire, il povero homo gionto ad un loco che si chiama S.^o Cassano fu tolto suso
1) Fa mandata subito copia conforme all'amb. Agnello perchè la comunicasse all'Aretino « con dirli
« che a noi incresce che non sia stato compiaciuto; che dal canto nostro non è mancato de far l'opera
« efflcacemente. » {Copialeti., Lib. 301).
*) Acclusa in una lettera dell'ambasciatore al Duca, con quest'avvertenza (Venezia, 24 ott. 1530):
« Petro Aretino ha visto la resposta fatta dal M'^° m. Francesco Gonzaga circa quel beneficio : lui me
« ha scritto questa police la quale ho voluto mandar a V. Ex. acciò che la veda quanto esso Aretino
« resti ben satisfatto de l'opera che quella ha fatto per farli bavere il ditto beneficio. »
') Il Duca di Milano entrato a Venezia il 12 ottobre vi era stato accolto con grandissime feste:
regate, battaglie navali, ecc. Su che veggasi V Appendice IV.
*) È quel Mainoldo antiquario mantovano che l'Aretino deride più volte e fra l'altre in una lettera
al Duca Federico dove lo chiama « pecora gioiellata. » Lettere, I, 22.
— 104 —
di peso et portato su un ponte, dal quale fu buttato gioso in canale, di modo
che è quasi miraculo che '1 non se sii anegato overo che non se habbi rotto il
collo. Dapoi essendo tornato a l'hostaria, entrato ne la sua camera per spogliarse
et mutarsi de panni, alcuni pistoiesi forausciti mostrando d'haverli compassione
lo volsero aiutare a spogliarse, et mentre che li erano d'intorno li robborono la
medaglia che l'havea suso la beretta et la borsa anchora, in la quale non havea
denari ma vi erano però gioie, le quali il p.^° Mainoldo dice che sono di gran
valuta. Se questo povero homo non si leva de qui, dubito che una notte sera
suffocato. La causa è che '1 si fa il più richo homo de gioie et de dinari che sii
al mondo et lo va predicando ad ogniuno. Lui dà la colpa di questo tratto che
li è sta' usato a quelli pistoiesi che alloggiavano seco a l'hostaria, perchè subito
se ne fuggirono, dicendo che l'hanno fatto ad instantia di Petro Aretino ^). Io
l'ho persuaso et pregato ad voler venire a Mantua, ma il mio parlare è invano. »
23 febbr. {Al Calandra). « P. Aretino si dole di m. Ticiano et di me, dicendo
che noi siamo stati quelli che l'ha posto in disgratia del S."" nostro 111.°^". Lui
m'ha mandato a mostrare una lettera del figliolo di m. Jeanne Eove, per la
quale lui li scrive che '1 matrimonio tra il S.'" nostro et la figliola di M..^^ di
Monferrato bavera effetto et lo invita alle nozze dicendo che certa lettera che
esso Petro havea scritto circa ciò era stata molto efficace et havea disposto molto
forte la p.^ Madama al ditto matrimonio. Di novo esso Petro scrive a Sua Ex.
et me ha ricercato che voglia mandare copia de la lettera che scrive in mano di
persona che la mostri al S."* nostro. Cosi la indrizo a V. S. acciò che parendoli
la possi farla vedere a Sua Ex. »
31 agosto {Al Duca). « Mando a V. Ex. copia d'uno scritto capitato nova-
mente alle mie mani fatto dal Aretino: ho anche inteso alcune altre cose che
egli va dicendo, de le quali V. Ex. sera informata dal 111™° S."^ Aloysi di Ca-
stione. >
11 novembre {Al Calandra). «Il Maraveglia, comò dissi a V. S. venne qui,
anco molto aspettato dall'Aretino, al quale pare che il p.^ promettesse che il
Christianissimo gli farebbe un presente, né essendo reuscito ha mostro volerla
con esso Aretino et fattolo minacciare con dire che ha sparlato del Re, et oltra
questo ha spinto l'oratore di Pranza in Collegio che si doglia che il p.^ habbi
sparlato et sparli del X.""" et ha operato che la Signoria l'ha mandato ad exhor-
tare che 'l taccia, tale che dove l'Aretino de sua venuta expettava remuneratione
de alcune lettere che ad instantia del detto Maraveglia havea scritto a quella
Maestà ha riportato minaccio con rinovare le cose vecchie et passate de molti
mesi, le quali erano fori della memoria del detto Aretino che forsi farà pensiero
de ripensarci '). >
') Questo tiro birbone ad un suo suddito dovè forse determinare la completa rottura del Duca con
l'Aretino, che probabilmente non a torto era incolpato dal Mainoldt».
*) La lett. ò di mano di Antonio Oaratono, segretario dell'Agnello.
— 105 —
13 die. 1532 {Al med.). « L'Arettino ha fatto un Juditio sopra tutti li Principi
Christiani et il Turco, mordendo qualunque d'essi al suo solito, salvo che '1 conte
Pietro Maria da San Secondo alquanto lodato, et cosi il Marchese del Vasto et
l'Illmo d'Urbino cosi a mezzo a mezzo, et inalzando juxta suo "potere el R."^° de
Medici i), ciò causato per li cento ducati donatigli da Sua R°^* S. quando l'era
qui nella visita che quella gli fece essendo esso Arettino infermo del corpo et
redutto all'extremo della borsa »
12 genn. 1533 {Al med.). * Uno mio grande amico m'ha detto haver letto
alcune stantie novamente composte in laude del S/ nostro 111°^°, l'authore delle
quali non s'è indutto a farle perchè ne voglia premio alcuno, ma solo per il vero
amore et aflfettionata servitù ch'egli porta a Sua Ex Ho fatto instantia per
intendere chi è questo poeta, ma l'amico non me l'ha voluto dire Io credo che
questo poeta sii persona che desideri reconciliarsi col S/ nostro parendogli d'haver
fatto jactura troppo grande a perdere la gratia de Sua Ex So ben certo che
l'Aretino ha tenuto molte vie per persuadermi ad voler far opera de restituirlo
alla bona gratia del S.*" '). »
1) « Non vuole — scriveva Fausto da Longiano all' A. il 30 die. 1582 — non vuole il Reverendis-
« Simo Medici che '1 giudicio di Pasquino di quest'anno si divulghi, per li rispetti (come voi ben sa-
« pete) che sono infiniti. » Leti, all' A., I, 208. Il Cardinale però aveva trovato il giudizio « divino »
e ne aveva avuto a « sgangherare » (ibid., p. 148; lett. 28 die. 1582 del Porretto). Malgrado il suo
desiderio, il giudizio ebbe pubblicità, come appare dalla lettera dell'amb. mantovano.
•) Falliti questi tentativi l'A. decise di vendicarsi; e Niccola de' Maffei, scrivendogli da Mantova
il 19 maggio 1534, lo scongiurava a rabbonirsi. « Ho visto la littera di V. S. che in vero mi duole
« fin a l'anima della terminatione in che la cognosco, perchè il vendicarsi centra un buon Principe
« come il signor Duca non lo laudarò mai e ne prìego quanto posso Y. S. a volersi acquietare. »
Lett. alVA., I, 197.
APPENDICE
I.
L'Aretino pittore.
n D'Ancona, accennando agli strambotti dell'Aretino, sfuggiti alle
sue ricerche i), scriveva d'aver rinvenuto nella Marciana una stampa
di poesie popolari d'un Pietro Aretino pittore. Chi è costui? doman-
dava. Null'altri, rispondiamo, che Pietro Aretino. — La stampa ha
questo titolo: Opera nova del fecundissimo giovene Pietro Pictore
Arretino^ zoè strambotti^ sonetti^ capitoli^ epistole, barzellette^ et
una desperata; e in fine; Impresso in Venetia per Nicolò Zopino
nel MCCCCCXII a dì XXII de Zenaro. Sul frontispizio una
rozza incisione vuol rappresentare, a quanto sembra, un poeta coronato
da una donna. « L'auctore a li legenti » cifre in quattro righe di
prefazione queste poche cose « facto in uno quasi istante » ; consi-
gliando chi s'annoiasse di vender pure il libretto « a li salsamentarij
« per involugrarci » della roba; e finisce dichiarando di preluder con
questo « a un altro già comenzato opuscolo ».
Gli strambotti, sonetti, capitoli, e il resto non offron nulla di note-
vole : sono stucchevoli rifritture de' soliti luoghi comuni della falsa
poesia popolare, una servile imitazione da Serafino Aquilano, che
viene appaiato con Dante (« Più non vai Dante o il terso Serafino »).
Ma il primo de' sonetti è importante, perchè ci permette di stabilire
che l'autore dev'essere veramente il nostro Aretino. Finiti gli stram-
botti, a' sonetti è premessa questa avvertenza ; « Alquante cose de uno
« adolescente Aretino Pietro, studioso in questa facultà {sic) et in
« pictura ». E segue un sonetto, in cui l'autore dichiara di perigliarsi
*) La poesia pop. it, Livorno 1878, p. 135 n.
— no -
timidamente col suo piccolo legno nel mare della poesia, mosso a can-
tare, non già da speranza d'alloro,
Ma sol per satisfar quel che più deggio
Francisco de Bon tempi perusino *)
Che per altri occhi al mondo più non veggio.
E lui fia scorta col [suo] terso latino
E fida tramontana al piccol seggio
Del rude socio suo Pietro Aretino.
Or bene, l'Aretino nel 1512 era a Perugia, e giovanissimo. Chi altri
che lui do vrebb' essere questo adolescente Pietro Aretino Pictore che
dedica le sue prime fatiche a un perugino e si dice « studioso in questa
facultà » cioè in quell'ateneo? — Ma, che l'Aretino avesse cominciato
come « studioso in pittura » si rileva da altre più esplicite testimo-
nianze, per non dire di quella indiretta che viene dalla sua grande
famigliarità con tutti gli artisti più insigni, e dalla sua incontra-
stabile intelligenza in materia d'arte. Il Sanudo, nel cit. cod. marciano
ci. IX it., n° 369, ci ha conservato (a e. 214 v) un « Capitolo centra
« Pietro Aretino posto sopra una coIona a Kialto di novembre 1532 2) ».
È una invettiva atroce contro il povero Pietro, che si trovava in un
brutto quarto d'ora, pieno zeppo di debiti, e costretto non solo a rin-
tanarsi in casa per sfuggire a' creditori , ma col pericolo anche di
esser messo sul lastrico dal padrone a cui non pagava il fitto. Tutti
gli sono addosso, e il poeta lo sfida a venir fuori: « Esci, Aretin, di
*) Nel primo libro delle Lettere dell'Aretino ve n'è una, del 28 genn. 1536 (p. 48)
a un m. Francesco Buoncambi, che supponiamo debba essere questo stesso Buon-
tempi. L'Aretino infatti, dopo aver espresso « quale e quanta sia la dolcezza de le
prime amicitie » , parla delle condizioni di Perugia e delle discordie ond'è lacerata,
dando generosi consigli perchè « la città vostra — dice al Buoncambi — ... si scordi
< che cosa sieno parti, et uniti insieme i cittadini suoi godino ecc. » Abbiamo
dunque un perugino e un amico di giovanezza, cosi in Francesco Buoncambi come
in Francesco Buontempi. Non è legittimo supporre che sia avvenuto nella inte-
stazione della lettera uno di quegli errori di nome, di cui non mancano esempi
nell'epistolario areti nesco?
*) Ne' suoi Diarii, poi, il Sanudo notava sotto il giorno 29 nov. 1532: « In
« questa terra è sta principiato a far cosa die non laudo et è che volendo inmitar
« quello si fa a Roma a Pasquin >, in Rialto sopra coione vien la note posti varij
< sonetti et capitoli; prima fu j» ìsto centra Pietro Aretino, el qual in versi et
« prosa dice volentiera mal di 8Ì;,'nori et altri, et cusì io li vidi li verssi et molti
€ li copiorono... » Citato dal Rossi, Le lettere di m. Andrea Calmo; Torino,
Loescher 1888, p. 87.
— Ili —
« la solinga tana », invocala tua Mar fisa (l'eroina del poema incom-
piuto) perchè ti difenda contro i creditori ;
Non è banca
Non è botiga a farti credenza
Che non sia [al dì] d'ozi dannigiata e stanca.
Ma presto, soggiunge, ti capiterà peggio : d'essere cioè, sfrattato di
casa dal padrone, insofferente di vane promesse; ed ecco la conclu-
sione :
0 quanto ti saria più frutto e lodo
Non havessi lassato il tuo pennello,
Se pyntor fustu un tempo, come io odo,
Che voler diventare, o meschinello
Di maestro poeta
per finire a morir di fame sopra un ponte.
È facile immaginare perchè l'Aretino, così petulante nel parlare
de' fatti propri, nascondesse con geloso silenzio questi tentativi falliti
della sua giovinezza nella pittura. Avrebbe avuto di certo ingegno e atti-
tudini non comuni per riuscirvi eminente, come lo provano le sue let-
tere artistiche, ammirate anch'oggi da critici insigni ^), ma per raggiun-
gere il magistero dell'arte occorreva una costanza di lavoro e di studio,
troppo lontana dal suo spirito irrequieto e vagabondo, e finì quindi
per trovare più agevole il darsi a scribacchiare , mettendo a partito il
rozzo ingegno naturale, speculando sulla potenza di una nuova forza,
la stampa. Egli anticipa il nostro giornalista bohème^ il nostro critico
di mestiere, che avendo più o meno sporcato qualche tela ha creduto
meglio di smettere, e di impancarsi a giudice degli altri; vive tra
gli artisti, sfrutta le loro rivalità, i loro interessi. Da questi critici
d'oggi all'Aretino, v'è la stessa differenza che dal nostro al suo secolo
in fatto d'arte; l'Aretino veniva tra quella superba fioritura artistica
del Kinascimento, e in qualche modo era pur degno dell'amicizia di
Tiziano, del Sansovino, di Sebastiano del Piombo, del Sodoma, di
Giovanni da Udine, di Giulio Komano se non dello stesso Raffaello
e della grand'anima di Michelangelo ^).
*) Basti nominare il Taine, Voyage en Italie, II, 339.
') Cfr. Dolce, L'Aretino, ovvero Dialogo della Pittura, Milano 1863, p. 6;
e lo studio del Ddmesnil, Mist. des plus célèbres amateurs italiens, Parigi 1853.
112
IL
Il sacco di Roma
descritto nei « Bagionamenti » dell'Aretino.
Nella seconda giornata della seconda parte de' Ragionamenti « ne
« la quale la Nanna racconta a la Pippa i tradimenti che fanno gli
« huomini a le meschine che gli credono » l'Aretino ha descritto il
sacco di Koma, innestando la narrazione ad una bizzarra parodia che
ha voluto fare dell'episodio virgiliano di Didone ; dove camuffa a suo
modo con sguaiata destrezza le ispirazioni patetiche del cantor del-
V Eneide. È una delle pagine piti curiose de' Bagionamenti^ che
amiamo staccare da questo libro tanto vituperato quanto mal noto.
Nanna. Un barone romanesco, non romano, uscito per .un buco dal sacco di
Roma, come escono i topi, essendo in non so che nave fu gittato con molti suoi
compagni da la bestialità de' venti pazzi al lito di una gran cittade, de la quale
era padrona una signora, che non si può dire il nome ; et andando ella a spasso
vide il povero huomo sceso in terra molle, rotto, smorto, rabbuffato e più simile
a la paura che non è a la furfanteria la corte d'hoggi dì; e peggio era che i
villani credendolo qualche grande spagnuolo gli stavano intorno per far di lui
e de' compagni quel che in un bosco fanno i malandrini di chi senza armi ha
smarrito la strada. Ma la signora, cacciatigli a le forche con uno alzar di testa,
se gli fece incontra e con aspetto gratioso e con atto benigno lo confortò, et
adagiatolo nel suo palagio fece ristorare la nave et i navicanti più che signo-
rilmente, e visitato il barone, il quale s'era tutto rihavuto stette ad udire il
proemio, la diceria, il sermone e la predica che le fece dicendo che egli si scor-
deria de la sua gentilezza quando i fiumi correranno a lo insù (huomini tra-
ditori, huomini bugiardi, huomini falsi). E mentre frappava romanescamente, la
meschina, la poveretta, la sempliciotta se lo beveva con gli sguardi; e rimiran-
dogli il petto e le spalle stupiva, fornendosi di traboccar di maraviglia nel con-
templare l'alterezza de la sua faccia, i suoi occhi pieni di honore la facevano
sospirare, et i capegli di niello anellato perdersi a fatto a fatto: né si potendo
tórre dal vagheggiar la sua gentil persona, né da la gratia datagli da quella
porca de la natura, stava tutta astratta ne la divinità de la sua cera, che raa-
ladetta sia la cera et il mele.
Pippa. A che proposito maladirla?
Nanna. Elle tradiscono bene spesso, elle ingannano il più de le volte, e me
ne è testimonio la presenza del Barone, la quale fece diventar corriva la signora
- 113 —
che io dico. Ella in meno che non si muta di fantasia una donna fece appa-
recchiar le tavole, e sendo in punto la realissima cena si pose a sedere col
messere a lato, e gli altri suoi e de la terra di mano in mano secondo l'ordine
di Melchisedeche. Intanto la magnificenza de' piatti d'ariento carichi di vivande
son portati inanzi agli affamati da la moltitudine de' servidori, e finito di satiar
l'appetito il Barone presentò la Signora.
Pippa. Che le diede egli?
Nanna. Una mitrea di broccatello che Sua Santità portava in capo il dì de
la cenere, un paio di scarpe con lavori di nastro d'oro, le quali teneva in piedi
quando Gian Matteo *) gliene basciuccava, il pastorale di Papa Stoppa , volli
dir Lino, la palla de la Guglia, una chiave strappata di mano al San Pietro
guardiano de le sue scale, una tovaglia del tinello secreto di palazzo, e non so
quante reliquie di santa santorum, le quali la sua prosopopeia, secondo lo sba-
iaffar ') suo, haveva scampato di mano de' nemici. In questo comparse un va-
lente ribichista et accordato lo stormento cantò di strane chiacchiere.
Pippa. Che cantò se Iddio vi guardi?
Nanna. De la nimicitia che ha il caldo col freddo et il freddo col caldo;
cantò perchè la state ha i dì lunghi et il verno corti, cantò il parentado che
ha la saetta col tuono et il tuono col baleno, il baleno col nuvolo et il nuvolo
col sereno; e cantò dove sta la pioggia, quando è il buon tempo, et il buon
tempo quando è la pioggia; cantò de la gragnuola, de la brina, de la neve, de
la nebbia; cantò secondo me de la camera locanda che tiene il riso quando si
piangne, e di quella che tiene il pianto quando si ride; et in ultimo cantò che
fuoco è quello che arde il culo de la lucciola e se la cicala stride col corpo o
con la bocca.
Pippa. Bei secreti!
Nanna. Già la signoria de la Signora, che udì il cantare come odono il chi-
rieleisonne i morti, si era imbriacata de la ciarla e de la galantaria del suo
hoste, e parendole tanto vivere quanto egli ciurmava cominciò ad entrare nei
Papi e ne' Cardinali; dopo questo venne a supplicarlo che li piacesse contare in che
modo l'astutia pretesca si lasciò incappare ne le unghie di Malebranche. Allora
il Barone volendo ubidire ai comandamenti de la sua supplica, traendo uno di
quei sospiri che malandrinamente escono dal fegato d'una puttana che vede una
borsa piena, disse : da che tua altezza, Signora, vuole che rammenti quello che
mi fa portare odio a la mia memoria che se ne ricorda, io ti narrerò come la
imperadrice del mondo diventò serva degli Spagnuoli, e dirotti ancho quel che
io vidi di miseria. Ma qual marrano, qual tedesco, qual giudeo sarà sì crudele
che racconti cotal cosa ad altrui senza scoppiar di pianto? Poi soggiunse: Si-
gnora, egli è hora di dormire, e già le stelle spariscono via, pure se la tua vo-
lontà è di sapere i nostri casi, se bene mi rinovano i dolori a dirgli, comincierò.
Così dicendo entrò ne la gente che per avanzar dieci ducati fa cassa. Poi
venne a la novella che udì Eoma dei Lanzi, e dei giuradii '), quali ne venivano
1) Giberti.
') Voce di conio aretinesco: cicalare.
') Spagnoli.
Ldzio — Pietro Aretino
— 114 —
a bandiere spiegate per farla coda mundi. Onde diceva l'uno a l'altro: toglie
garabattulo tuo et ambula ; e certo ognuno la dava per le magesi, se quel bando
traditore de lo a pena de le forche non andava. Egli contò come dopo il bando
la gente avilita si diede ad appiattare i denari, gli arienti, le gioie, le collane,
i vestimenti e tutte le cose di valuta; contò come i capjjannelli et i cerchi degli
huomini sparsi e raccolti in qua et in là dicevano di chi era cagione de la lor
paura quello che gli pareva. Intanto i rioni et i caporioni e la peste che gli
giunga andavano zanzeando con le fila de' fanti; e certo se la valenteria fosse
stata ne' bei giubboni, ne le belle calze e ne le spade indorate, gli Spagnardi
et i Todescardi erano i malvenuti. Contò il Barone come un Romito *) gridava
per le strade : fate penitenza, preti ; fatela, ladri, e chiedete misericordia a Iddio,
perchè l'hora del vostro castigo è presso, ella è giunta, ella suona. Ma la lor
superbia non havea orecchie, e perciò gli Scribi et i Pharisei apparsero a la
croce di Monte Mario — diceva egli — e dando il sole ne l'armi loro, il lume
bestiale che ne usciva faceva tremare i merloni corsi su per le mura con altro
spavento che non fa il balenar de' tuoni. Tal che questo e quello non pensava
più al modo di rompere chi gli veniva contro, ma adocchiava le tane per na-
scondersi. In questo il remore si lieva al monte di Santo Spirito, et i nostri
belli-in-piazza nel primo assalto fecero come un che s'imbatte a fare una cosa
che mai più la fa sì buona. Dico che amazzàr Borbone, e guadagnato non so
quante banderiuole le portarono a palazzo con un viva viva che assordava il
cielo e la terra; e mentre gliene pareva haver vinto, ecco rotte le sbarre del
monte, e fatto pasticcio di molti che non havevano nò colpa né peccato^ ne le
battaglie scorsero in Borgo. Onde alcuni de' nimici passarono il ponte, et andato
fino in Banchi ritornarono indietro; et dicesi che la buoAa memoria di Castello,
nel quale era scampato l'amico ^}, non gli sbombardò per due conti : uno per mi-
seria di non gittar via le pallottole e la polvere, l'altro per non fargli adirare
più che si fossero, attendendo a mandar giù corde, tirando in sacrato i gran
baccalari, i quali haveano la stipa al culo. Ma ecco venir la notte, ecco le botti
guardiane di Ponte Sisto che si sbarVattano, ecco lo esercito che di Trastevere
si sparpaglia per Roma ; già i gridi sì odono, le porte vanno per terra, ognun si
fugge, ognun si nasconde, ognun piagne. Intanto il sangue bagna lo spazzo, la
gente si amazza, i tormentati ràitano, i prigioni pregano, le donne si scapigliano,
i vecchi tremano; e volta la città co' piedi in suso, beato è quello che tosto
muore, o indugiando trova chi lo spaccia. Ma chi potria dire il mal di così fatta
notte? I frati, i monaci, 1 cap'ellani e l'altre ciurmaglie, armati e disarmati, si
appiattavano ne le sepolture più morti che vivi; né vi rimase grotta, né buca,
né pozzo, né campanile, né cantina, né lato alcuno secreto che non fosse subito
pieno di ogni sorta di persone. Erano tambussati gli spettabili vivi, e co' panni
in dosso dileggiati e sputacciati; né chiese, né spedali, né case, né altro si ri-
guardava, e fino nei luoghi dove non entrano huomini entrarono coloro, e per
dispregio cacciarono le lor femine dove si scomtìaunica ogni femina che vi va.
Ma la compassione era a vedere il fuoco ne le logge d'oro e nei palagi dipinti,
V Frate Brandano; cfr. Greoorovius, VIII, 643.
«) Il Papa.
— 115 —
il cordoglio era a udire i mariti che fatti rossi dal sangue che gli usciva da le
ferite chiamavano le mogli perdute con una voce da far piangere quel sasso di
marmo del Coliseo, il quale si attiene senza calcina. Il Barone contava a la
Signora ciò che io ti conto, e volendo entrare nel lamento che faceva il Papa
in Castello, maledicendo non so chi che gli haveva rotto la fede, lasciò scapparsi
tante lagrime dagli occhi che l'hehbero ad affogare, e non potendo più isputar
parole rimase come muto.
Pippa. Come può essere che egli piangesse il mal del Papa, essendo nimico
de' Preti?
Nanna. Perchè noi siamo pur christiani et eglino son pur sacerdoti, e l'anima
dee pur pensare al fatto suo ; e perciò il Barone venne quasi in angoscia, tal che
la Signora si levò suso, e, pigliatolo per mano con istringergliene due voltarelle
lo accompagnò fino a la camera, e lasciatolo con buona notte se ne andò a
riposare.
Pippa. Voi h avete fatto bene a stroncarla perchè io non poteva più udirvi
senza doglia.
Nanna. Io te ne ho racconto uno straccio a calzoppo, e dentane una parolina
in qua e l'altra in là, che a dirti il vero io ho dato la memoria a rimpedulare;
e poi non se ne verria mai a capo, tante crudeltà furono nel sacco, e se io ti
volessi dire le rubarle, gli assassinamenti e gli sforzamenti di quelli, ne le case
de' quali si credette salvar chi vi fuggì, porterei pericolo di nimicarmi con
alcune persone che si credono che non si sappia come assassinarono gli amici.
Lasciate andar la verità e datevi a le bugie e metteracci più conto.
Io lo farò un dì ad ogni modo.
Pippa. Fatelo e noi dite.
Nanna. Tu '1 vedrai
III.
I poemetti osceni del Veniero.
La Nazionale di Parigi possiede i soli esemplari conosciuti di questi
poemetti nelle edizioni originali, che si cercherebbero invano in tutte le
più ricche biblioteche d'Europa. Sembra per altro che vi siano adesso
inaccessibili; e mentre il Gay nel 1861 potè riprodurre le due stampe
della Zaffetta, il Liseux nel 1883 per V Errante ha dovuto ricorrere a
copie manoscritte ^).
^) La Puttana Errante, Poème en quatre chants de Lorenzo Veniero, gen-
tilhomme vénitien {XVP siede). Littéralement traduit, texte italien en regard;
— 116 —
Anche queste ristampe, tutt 'altro che corrette, e dagli editori accom-
pagnate di illustrazioni confuse od erronee, sono rarissime: onde l'op-
portunità di dare un'analisi de' due poemi, più estesa che sia possibile
— per quanto cioè l'interesse storico si accordi con la decenza.
V Errante ha una breve prefazione in prosa, nella quale l'autore in-
voca a suo nume il Boccaccio, quinto evangelista, che ci ha segnato la
vera strada di salvazione contro le arti femminili con le violente in-
vettive del Corbaccio. Guai invece a chi si lascia ingannare dalle
poetiche menzogne di messer Petrarca! « Onde io — soggiunge —
< alluminato dal sopradetto Giovanni Boccadoro, alla barba di quel
« mariuol di Cupido, porgo all'imagine sua la presente opera della
« P. Errante, non da me composta, ma dalla scommunicata vita d'una
« intemerata poltrona, il nome della quale per non vituperare il mondo
« si tace. Leggete dunque e leggendo non mi tenete dishonesto se con
« parole dishoneste bandisco le dishoneste opre sue, perchè io disho-
« nesto sarei se con voci honeste honestassi la dishonestissiraa dishonestà
« sua. Valete. »
Segue un sonetto di Pasquillo ai lettori, che riafferma le intenzioni
purissime dell'autore :
Non perchè sia il poeta dishonesto
Nò perchè sia di poca reverenza,
0 di poco giudizio 0 d'occorrenza
(Che così fusse tutto quanto il resto ! )
Ma perchè vede dietro al sporco e incesto
Puttanil stuolo, a questa vii semenza
Fallir tutta la sciocca adolescenza
A commun heneficio ha scritto questo
Ed entra ora in scena « il divino Pietro Aretino ^ con un altro sonetto
< all'authore » :
Se di messer Virgilio o mastro Horaero
La poesia ricamata e galante
Parigi, Liseux, 1883, a 150 esemplari. A p. XI della prefazione, si dice che
« pour le réiraprimer et le traduire on n'a pu s'en procurer aucun exemplaire,
« et OH a eu recours... à une copie ms. de Tricotel, probablement prise sur les
« n.°' Y' 1445 et Y' 1455 de la Bibliothèque Nationale ». — Il Liseux ha pure
riprodotto la Zaffetta nel 1883, senza dubbio attenendosi alla ristampa del Gay :
La Zaffetta, Parigi, MDCCCLXI, di soli .100 esemplari; sulla quale rimandiamo
al Virgili l. e. Le due edizioni originali, confusamente descritte dal Gay, sono
appunto quelle tuttora serbate alla Nazionale di Parigi, di cui il Liseux non ha
potnto valersi: e, come è noto, i due poemetti vi si trovano uniti.
— 117 —
Fosse in lo stil de la Puttana Errante,
Gli farìa il mondo d'inchiostro un cristero.
Perchè in dire ben male, idest ben vero
Son le Muse massare e Apollo è fante,
E facchine le rime tutte quante
De lo stupendo ingegno del Veniero.
Che più? per esser io Pietro Aretino
Mi teneva un gigante e seco resto
Maggior bestia che un prete con Pasquino.
E chi compone si meni l'agresto,
Come chi vuol convertir fra Martino,
Che '1 vero andar di fare i versi è questo.
Sì che imitatel presto
Altramente il cacar il sangue vostro
Sarà de' ciaratani il pater nostro.
Il poema è diviso in quattro canti, di 185 ottave in tutto: un vero
fangaio, nel quale a stento si riesce a pescare qualche altra citazione
possibile. Dopo l'introduzione e l'apostrofe all'ispiratore Aretino, il
Veniero tesse la genealogia della sua eroina — figlia addirittura del-
l'Orco — e prende quindi a descriverne l'infame odissea.
Questa invitta carogna un dì sentendo
Che TAncroia, Marphisa e Bradamante
Andar pel mondo gran prove facendo....
Deliberò farsi Puttana Errante
E la foia a Venezia avendo doma
Qual dirovvi s'armò per gire a Roma.
Comincia dal dare un osceno torneo a Ferrara, ottenendo la palma :
passa poi a Bologna, dove emula di Pasifae s'accoppia con bestie di
ogni sorta; di là va a Firenze, in Maremma, a Siena, — e in quest'ul-
timo luogo sostiene con tutto il formulario scolastico pubbliche dispute
di pornografia, che occupano la maggior parte del terzo canto. Il Veniero
spiega la grande dottrina in materia àoiV Errante^ dicendo che a Ve-
nezia più che altrove è dovizia di cortigiane : ed anche le monache,
mogli già solo de' frati hor son nimphe d'ognuno; l'incesto è ritenuto
come non fosse peccato. Addottorata solennemente a Siena, V Errante
parte per Roma : città destinata alla sua finale apoteosi. Là infatti, dopo
il sacco, ella serve a saziare tutto VHispano essercito e 'l Thedesco,
Onde parse che fosse honesto e degno
Dopo tante vittorie e prove tante
Dar il triompho in bel divin disegno
A l'invitta real Puttana Errante,
— 118 —
E così s'ordinò con strano ingegno
Il carro triomphal bello e galante,
Imitando ser Cesare e Marcello,
Intendete ben ben ciò ch'io favello.
L'ordine del triompho bora diviso:
Prima venia la m andrà de' ruffiani
Dal Sarraton guidata in festa e in riso
Per sfoiar sbirri, cingani e villani.
Una bandiera bavea fatta improviso
Ov'eran tutti i chiassi italiani
Che corteggiati havea con humiltate....
Dapoi seguon le ciurme che in galea
Ella satiò dal ponente al levante.
Move il triompho per strada Giudea,
Né altro s'ode gridar che Errante, Errante!
Segue la ciurma una turba plebea
Gaglioffa, sporca, poltrona, ignorante
La qual guidava il falsario Bonfio(?)
Che mille volte ha rinegato Dio.
Il traditor porta ritratti in mano
Tutti i mercati e anchor tutte le fiere
E Eecanati e Foligno e Lanciano,
Ch'ella honorò con sue bellezze altere.
Ecco uno stuol tutto dolce et humano
Di streghe incantatrici e di megere
Et ha ciascuna in man di queste arpie
Ciò che bisogna a incanti et a malie:
Unghie, capegli e funi d'impiccati,
E di non nato fanciullino pelle.
Ossa di morti dal vivo cavati.
Grassa di donne giovenette e belle.
Vasi pieni di lagrime e stillati
D'herbe colte a splendor di certe stelle
Che disperdan i parti et il cervello
Tolgano spesso a quest'amante e a quello.
Segue la schiera de le vecchie care
Un gonfalon che tutti i tradimenti
Tenea dipinti, che la singolare
Errante ha fatti a più diverse genti:
Ammazzare, scannare, assassinare
Ivi si vede et amici e parenti,
Chi ferito nel collo e chi nel seno,
Chi mor di corda o di ferro o veleno.
Ecco un altro vessillo imperiale,
I piaceri del qual fatti ha il pennello.
Ella stassi colcata al naturale
E fassel far dal barba e dal fratello
— 119 —
Seguono poi alcune sue magalde
Che picciolette imagini in man hanno;
Queste sono, signor, quelle ribalde
Che i parti agli hospedali a portar vanno,
Invilupati dei panni in le falde.
Che spedali dich'io? anzi gli danno
A cacatoi, a canali, a sotterra
Acciò che non si sappia per la terra.
L'ordine va seguendo una carretta
La più grande ch'io mai vedessi forse,
Tutta piena di furti ch'ella in fretta
Kubò
agli amanti, dormendo seco,
Qua! tolse a me quand'Amor ferrimi cieco.
L'Infamia appar, e tutta altera viene,
Col volto invetriato e '1 segno in fronte,
Mozze ha le orecchie e poco naso tiene,
La mitria in capo che par proprio un monte,
Di sangue marcio le spallacele ha piene,
Senza vergogna di sue virtù conte,
Un libello in man porta ove è notata
De l'Errante la vita arcisfacciata.
In mezzo a due poeti laureati
La diva Infamia move i sacri passi,
Di bietole e di fave incoronati.
Con gratia e privilegio babbuassi.
Costoro li suoi gesti han celebrati
Con rime ladre da banchi e da chiassi,
Con quel poeta*) che ha fatto immortali
I cardi, le primere e gli orinali ').
Il goffo Tinto, poeta que pars este '),
Marcon buffone è un dei duo poeti,
II qual salva la loica ne le ceste
Per dispensarla a putti, a frati, a preti;
L'altro è ser Quinto che '1 dì delle feste
Ch.... le muse sopra due tapeti.
Questi ser bestie con un stil furfante
Cantan gli honor de la Puttana Errante.
^) Deve forse correggersi : come il poeta.
^} È notevole questa prima frecciata del Veniero contro il Derni, attaccato poi
apertamente nella Z affetta. — Quanto ai poetastri e buffoni nominati appresso
non mi fu dato precisare chi fossero.
^) Citazione latina, tutta aretinesca; cfr. doc. IV, dove l'A. deride « gli altri
poeti que pars est ».
— 120 —
Ser Quinto stregghia il cavai Pegaseo,
Et il Tinto gli dà bere e lo strame,
Et ha promesso a tutti duo Orpbeo
Donare le regaglie del letame;
0 salvatico Quinto semideo,
E tu Marcon nausevolmente infame,
Voi coronarvi l'Errante Puttana
Di spine di carcioffi e di borrana.
Una musica indiavolata fa parte del corteo — che si chiude con una
turba di degni congiunti àelV Errante^ e con la schiera de' suoi vizi al
completo. Il carro, dov'ella siede in attitudine di Semiramide, traversa
tutta Koma per arrestarsi a ponte Sisto — la classica residenza delle
femmine da conio in quel tempo. Là depone V Errante la corona pria-
pesca decretatale : e poi se ne va a Napoli, a farvi nuove prodezze che
le avrebbero meritato un secondo trionfo, s'ella cosi tosto non parila^
per ricondursi al suo primo nido, Venezia. Il poemetto termina appunto
con la promessa del Veni ero di narrare un'altra volta l'accoglienza
fatta in patria alla reduce Errante : a cui andarono incontro le più
famose cortigiane in pompa molta.
Chi era mai questa donna così atrocemente vituperata? — Parecchi
bibliografi hanno preso abbaglio, ritenendo che nei due poemetti il
Veniero abbia messo in scena una stessa eroina; mentre dalla Zaffetta
si rileva assai chiaramente trattarsi di due cortigiane distinte, che il
poeta pone anzi a confronto, scrivendo :
Io non ho mai parlato a la Zaffetta
E l'havea per signora alta e divina,
Ma il conte Urluro (?) in ca' di Vienna letta
M'ha la ribalda sua vita assassina.
Onde io tengo più buona e più perfetta
La mia Errante Elena Ballerina,
Hor se l'Errante è più da ben di lei
Gran Dio Cupido miserere mei.
La Tariifa delle P. di Venezia del 1535 ^) la registra pure così :
Elena Ballerina è cara e bella
Ma la sconcia il cervel sciocco e leggero
E sempre gelosia l'urta e martella.
*) Di questa Tariffa ha dato notizia il Passano ne' Novellieri italiani in verso,
con più indignazione di moralista che non accuratezza di bibliografo. Un estratto
assai monco se ne trova nell'opuscolo Les Courtisanes et la police des moeurs à
— 121 —
Questa è quella gentil, per dir il vero,
Puttana Errante, che di e... ingorda
Già spogliò questo e quell'altro hemispero.
La pazzarella volentier s'accorda
Per quattro scudi et a chi di nascoso
Gliene dà due non tien Porecchia sorda.
Da questo cenno la Ballerina non appare così perversa quanto l'ha
fatta il Veniero, che s'è abbandonato alle piti mostruose calunnie contro
I
Venise, Bordeaux, 1886, p. 46 sgg. — Ho presente la ristampa del Liseux,
La Tariffa delle P. di Venegia (X VI^ siede), texte itaìien et traduction littérale,
Parigi, Liseux, 1883, a 150 esemplari, fatta pure sopra una copia manoscritta
del già nominato bibliofilo Tricotel. Al contrario del Passano , l' editore di
questa ristampa ritiene che la Tariffa non sia del Veniero, perchè mentre messer
Lorenzo rivendicava con tanto sdegno la paternità ^QÌVErrante e apponeva il suo
nome alla Zaffetta, l'autore della Tari/fa si tiene anonimo e invoca o cita più
d'una volta il Veniero come estraneo all'opera. L'osservazione è giusta, però tro-
vando molta conformità di stile tra la Tariffa e i due poemetti àeìV Errante e
della Zaffetta — dei quali è il coronamento — si potrebbe supporre che nel 1535
il Veniero, meno sfrenato e più compreso del decoro del suo grado, riputasse disdi-
cevole figurare ancora come autore di turpi libelli, od anche ch'egli temesse di
tirarsi addosso l'ira di tante cortigiane tartassate e de' loro protettori e mezzani.
— Senonchè fra le lettere scritte all'A. (I, 243) ve n'ha una di molta importanza
nella questione. Antonio Cavallino il 25 gennaio 1536 manda da Padova a Pietro
certe composizioni letterarie, con umiltà di creato e discepolo, dicendo che se non
sono degne di « comparere inanzi di uno tanto huomo la gentilezza et humanità
« del maestro supplirà al tutto » , e con questa fiducia promette di inviare in se-
guito addirittura « una mula carica di scartafacci > . E soggiunge subito appresso:
« Per bora non mando la Tariffa delle P. perchè non l'ho potuta rihavere, per
€ la prima mia la manderò » . Che il Cavallino si dilettasse di poesia appare anche
da una lettera dell'Aretino (I, 198), nella quale lo loda di essersi tolto « di mano
« a le poesie affamate dandosi a le leggi sfamate ». Era dunque costui l'autore
della Tariffa? Parrebbe evidente: ma la sua lettera ha, come si è visto, la data
del 25 genn. 1536, mentre la Tariffa si dice « stampata nel nostro hemispero
« l'anno MDXXX V del mese di agosto » . Deve ritenersi che nella lettera del Ca-
vallino sia incorso uno de' soliti errori di data che presenta la stampa marcoli-
niana? Noi incliniamo a crederlo; e si spiegherebbe benissimo che la Tariffa com-
posta già nel gennaio 1535 uscisse per le stampe nell'agosto, sotto gli auspici
dello stesso Aretino, al quale appunto perciò il Cavallino aveva interesse di man-
darla. — E invero chiunque sia il compilatore, era per certo, come il Veniero, un
giovane scapestrato cresciuto alla scuola dell'Aretino: il quale è nominato più
volte non già « con aggettivi poco laudatori » — secondo pretende il Passano — ,
ma con le sue favorite qualifiche di flagello de' Principi, e di semidio. Alla Tariffa
è premesso un sonetto « ridotto a proposito dell'opera » , che precisamente parafrasa
il proemio ai sonetti lussuriosi di Pietro : identica è la prima quartina. — Sotto
— 122 —
lei solo perchè, malcauto amante, s'era una volta lasciato derubare
dalla lesta donnina.
forma di dialogo, tra un gentiluomo veneziano e un forestiere, il primo informa-
tissimo del mondo galante della città, l'altro molto desideroso di entrarvi con una
guida esperta, la Tariffa, in parecchie centinaia di terzine, « dinota il prezzo e
« la qualità di tutte le cortigiane di Venegia col nome delle ruffiane », intercalando
al catalogo qualche sboccata novella. I particolari più intimi e scabrosi sono esposti
con nauseante crudità di linguaggio: e fra tante innumerevoli cortigiane nominate
non ve n'è neppur una che si sottragga ai più infami vituperi. Non potendo tener
conto della folla delle minori, accenneremo alle prime che il poeta ci designa.
Comincia da una Lombarda, figlia di contadini, piovuta a Venezia povera e scalza,
e arricchitasi d'oro e di terreni.
Hor puossi dir la fata del thesoro,
Ma solo per lo ingegno suo sottile,
Non per beltà che fosse in lei l'honore.
Benché ormai più che matura, anzi infracidita e vecchia, ò quotata venti scudi.
— Dopo la Griffo, la Zaffetta, e la Ferretta,
Quinta si pon la dea de gli atti crudi,
Lucrecia Squarcia che di poesie
Finge apprezzar e seguitar gli studi.
Et ab antiqua e gran genealogia
Fa il suo natal, sì come d'un barbiero
Che si morì in spedai figlia non sia.
Poi fa con gentilhuomini l'altero,
Eecando spesso il Petrarchetto in mano,
Di Virgilio le carte et hor di Homero.
Spesso disputa del parlar thoscano,
Di musica, e '1 cervel così le gira
Che pensa haverne il grido di lontano.
Et a queste virtù cotanto aspira
Quanto al vero un heretico e le intende
Come l'asino fa '1 suon d'una lira.
Tullia d'Aragona è nominata soltanto all'ottavo posto: e il prezzo de' suoi
faTori va da cinque a dieci scudi — aumentando cioè a seconda che la presta-
zione fosse più abbietta!... Anche a Koma nel 1549, nella tassa imposta alle cor-
tigiane per la reparatione del Ponte Santa Maria a giuìij uno per cinqm de
quello che pagano o pagerebano Tanno de pigione come per il dicretto fatto in
Camera apostolica sotto dì 26 dì zugnio, la Tullia non appare tra le prime,
cioè tra le più forti tassate, in ragione della splendidezza della loro casa. Abi-
tava in Campo Marzio, presso il palazzo Carpi, drietto a mona. Della Casa,
pagando 40 scudi di pigione: e Isabella de Luna p. e., la cortigiana celebre per
due novelle del Bandello, no pagava 100 (Archivio di Stato di Roma, Registri
Camerali).
- 123 —
Messer Lorenzo — il patrizio che doveva piti tardi sedere in Senato
e avere dalla Kepubblica uffici ed onori — nelle sue tresche giovanili
era d'una ferocia vendicativa straordinaria : e come del tiro della Bal-
lerina alla sua borsa si sfogò con VErrante^ così fece scontare alla
Zaffetta un rifiuto offensivo con l'altro virulento poemetto del Trentuno.
La malcapitata cortigiana, quando a Chioggia è in mano d'una ciurma
che fa di lei lo scempio più turpe, esclama piangendo :
Hor sera pur contenta questa e quella
Invidiosa di mia buona sorte;
Come " Venier lo sa, farà novella
Perchè aprir non gli volsi un dì le porte.
Già già ogni barcarol di me favella
Et parmi udir dai putti gridar forte
Sul ponte di Rialto acciò s'intenda:
Chi vuol della ZafiFetta la leggenda?
E lo stesso Veniero in fine del poema, rallegrandosi della vendetta
compiuta, in aria di scherno dice alla Zaffetta :
Del mio burlar non pigliate dolore,
E se '1 pigliate pur Dio vel perdoni.
Anch'io vuo' la mia parte de l'honore.
Son gentilhuomo atto a donarvi doni.
Venni e subiai *) per farvi riverenza,
Ma dal balcon mi fu data licenza.
Senonchè il Veniero aveva anche un altro fine nello scrivere il Tren-
tuno: voleva insorgere cioè contro i malevoli, che attribuivano all'A-
retino la paternità della sua Errante; e ferito nella vanità letteraria
scaraventa a costoro un nuovo poema. Le prime stanze della Zaffetta —
dove il Veniero trova modo, per far piacere all'Aretino, di colpire di
sbieco anche il Borni — sono notissime. Non pago d'aver apostrofato
i denigratori, il poeta rivolto alla sua vittima prosegue :
Per due cagion, Zaffetta, in stil divino
Vengo a cantar l'historia de' tuoi fatti:
Una per dimostrar che l'Aretino
I versi de V Errante non m'ha fatti;
L'altra che in far piacer son sì latino
Che è forza contentar parecchi matti
Che mi stringono a dire in nova foggia
Di quel trentun che ti fu fatto a Chioggia.
*) Fece il fischio convenuto perchè gli si aprisse.
— 124 —
Ed entra senz'altro in argomento, con una piccola requisitoria sulle
cortigiane di Venezia:
Signor, sono in Venetia gratta Dei,
Tre legioni o quattro di puttane,
Buina de' patritij e de' plebei,
Parte in gran case, parte in carampane ^y*
Ma fra tante migliaia un cinque o sei
Per forza di belletti e d'ambracane
Cuopron sì lor bellezza stomacosa
Che le poltrone paion qualche cosa.
Fra queste poche ce n'è una sola
Che tiensi prima in la f..... setta.
Non è la Griffa, non è la Bigola ^)
Che le parole profuma e belletta:
Aiutatemi a scioglier la parola,
La sua altezza ha nome la Zaffetta
*) Quai di gran case e quai di carampane, -
è un verso consimile che si legge nella Tariffa: — carampane equivale a tugurio, ^
bugigattolo.
') Cornelia Griffo è la seconda nominata nella Tariffa:
Segue Cornelia Griffo che può darne
Fede d'esser buon pasto e robba ghiotta
Se pur ghiotto mangiar fa ghiotta carne.
Costei vi chiederà per esser dotta
In far l'altera e un puttanesmo honesto
Quaranta e più
scudi.
Quai sian le sue virtù vel dican quelli
Che n'hanno fatto prova di tal sorte
Che v'han lassato insino a gli mantelli.
La Bigola è la sesta della Tariffa:
M'era di mente la Bigola uscita
Che far col liscio a le crespe riparo
Pensa e tornar la cara età fuggita.
E d'anni a la Cumea può gir del paro,
Né vi giovan gl'impiastri e '1 farsi i denti
Spesso purgar, ond'esce il fiato amaro,
E i suoi capei già divenuti argenti
Coprir romanamente sotto il velo
E usar parlando i profumati accenti
Malgrado altri artifici non la si apprezza più di sei scudi, e spesso anche meno.
— 125 —
Che si tien nata di sangue reale
Poi che patrigno l'è Borrin bestiale.
Conta talhor la sua genealogia,
Et fassi figlia del Procuratore
De ca' Griraani, ch'a sua madre ria
Già fece a che Tè dentro, a che l'è fuore,
Ma viemmi humore ne la fantasia
Di cantar puntualmente in bel tenore
Il suo gran grado in omnibus et come
S'ha guadagnato il puttanesco nome *).
Noi vo' dir no, perchè de le puttane
Sempre giostran del par principio e fine,
Cominciano a ingrandirsi con un pane,
E con un pan finiscon le meschine.
Basta che la Zafi'etta è in ambracane,
In seta e in òr con pompe alte e divine,
Non già per sua virtù, bellezza o gratia,
Ch'ella nascendo nacque la disgratia.
Il caso del suo grande et alto stato
Che i nostri gentilhuomini ognhor soia ') '
Da una sorte di corrivi è nato
Che per morbezza, per gara e per foia
Cercando haver l'un l'altro superato '),
A questa arpia, che a chi più l'ama annoia,
Han dato senza merito e diletto
L'anima e i soldi a lor marcio dispetto.
Perdonatemi, giovani, l'amore
Ch'io vi porto fa dirmi ciò ch'io dico,
Sapete ben ch'io vi son servitore,
Non pur compagno, fratello et amico.
Poi ne la lingua io ho quel ch'ho nel core,
Io l'ho detto et di novo lo ridico:
Le vostre gare e non gratia o bellezza
Hanvi abbassati e lei posta in altezza.
*) La prima edizione della Zaffetta legge invece:
Ma viemmi grizzol ne la fantasia
Di cantar puntualmente in bel tenore
Il suo grado in minoribus et come
C'ha guadagnato ecc.
') Uccella, inganna.
') La seconda edizione legge, sconvolgendo il senso :
Cercando hor l'uno hor l'altro scioperato.
— 126 —
Questa figliastra di birro era dunque diventata la cortigiana di moda,
contesa fra loro da' giovani patrizi dissoluti ; e n'aveva sempre attorno
una gran comitiva^ ammaliando e derubando
Ciascun con la sua faccia artificiosa.
Più infatuato d'ogni altro era un gentiluomo amabilissimo, che schiavo
d'ogni capriccio della Zaffetta si faceva mangiare allegramente il suo,
pur d'essere il prescelto. Ma appena si sa beffato e tradito, concerta
subito con due amici la più crudele vendetta : invita l'infedele corti-
giana ad una gita di piacere; ed essa accetta, senza sospetto, anzi
lusingata dalla proposta d'una allegra colazione a Malamocco. Là infatti
divora delle pernici e tracanna della malvasia : e al ritorno, in gondola
sorride e cinguetta e vezzeggia. Eacconta le sue grandezze; tuttavia
insaziabile, desidera ancora le venga montata una casa più ricca e
fastosa.
Voglio, dìcea la gloriosa alfana
Che voi morosi mi facciate avere
Per sempre a fitto la cà Loredana;
Se no, mi morirò di dispiacere.
Poi cominciò a cantar una pavana *)
Che già la casa le parca godere.
Vuol comprare spalliere e rasi eletti,
Vuol far di seta e d'or cinque o sei letti.
Poi entra a dir di certi cavedoni,
0 capofuochi che dica il Petrarca,
Gli vuol d'argento che sian belli e buoni,
Vuol sei massare, un ragazzo, una barca.
Vuol di contado le sue provvisioni,
Sempre in canova vin, farina in l'arca,
E alfin vuol tante cose la borrina
Che non n'ebbe mai tante una regina.
Con questi suoi giardin fatti a sua foggia,
Confermati dal suo saij:ace amante,
Si ritrovò sua maestade a Chioggia,
E sbigottì quando gl'apparse innante.
Dicendo: mia persona non alloggia
Stasera qui; va, barcaruolo, avante,
Gira poltron, diss'ella, e piange e arrabbia,
Ma patientia al fin forza è ch'ell'habbia.
*) Su questa sorta di canzoni cfr. Rossi, op. cit, p. 419, n.
— 127 —
Non sapeva infatti spiegarsi come invece di approdare a Venezia si
andasse a finire a Chioggia : ma l'amante la conforta e persuade con
promesse di nuovi doni a passare colà la notte ; e la Zaffetta smonta,
ignara ancora del tiro serbatole.
Corre la turba a furor per vedere
La famosa Zaffetta d'humor piena,
Che indosso porta un mezzo profumiere,
Parla da ninfa, e '1 passo muove appena,
Hora su questo, bora su quel s'appoggia,
E vuol parer l'imperatrice a Chioggia.
Era già preparata una lauta cena, a cui la Zaffetta, posta a capo-
tavola, fa grand'onore con una voracità straordinaria ; e stordita dal
vino e dal cibo la cortigiana affretta lei medesima l'ora del riposo
che suona per essa il principio d'uno strazio abbominevole. L'amante
tradito dapprima, e dietro lui pescatori, facchini, villani, sfrenano la
più bestiale libidine sull'infelice che grida e supplica invano.
Dlcea la Zaffaborse *): a una signora
Che in Venetia ciascun la prima tiene,
Ch'è fanciullina e '1 latte ha in bocca ancora
A dar questo trentun non fassi bene.
Oh Dio, Dio mio! volete voi ch'io mora
Magnifico raesser dolce e da bene?.... —
Ma che vad'io contando ad uno ad uno?
Eccoti che sforzata è pur la porta,
Chioggia è venuta a furore a communo.
Per haver la sua parte de la torta
Così la Zaffetta multorum absorbuit ictus — un apposito incaricato
ne teneva il conto col carbone sul muro — ; e alle lacrime, alle pre-
ghiere dell'oltraggiata il vendicativo gentiluomo, origliante all'uscio,
rispondeva con ischerno feroce :
Madonna mia, il mondo è fatto a scale,
Sempre non ride del ladro la moglie,
A Chioggia scende chi a Venetia sale
E pur talhor de le volpi si coglie.
*) La seconda stampa ha scorrettamente:
Dicea la Zaffa forsi a una signora.
— 128 —
Voi rideste di me di carnevale,
Quando ch'io havea del vostro amor le doglie.
Hor di quaresma io mi rido di voi,
E così pari il gioco va fra noi.
Più morta che viva, il giorno appresso, sopra una barca da melloni»
la Zaffetta è riportata a Venezia; dove sua madre le appresta le ne-
cessarie cure, mentre il patrigno sbirro infuriato vuol ammazzare mezzo
mondo, per vendicarla.
Lo sbisao ^) bestiai Borrin feroce
Col pistoiese in man, stringendo i denti,
In portico spasseggia e ad alta voce
Dice: mille vo' farne mal contenti.
Fa su le dita il segno della croce,
E su vi giura mille sacramenti
Che vuol far diventar sangue il suo rio:
Ah mondo infame! oh benedetto Dio!
Già per Venetia è '1 trentun divulgato,
Della Zafifetta è pieno ogni bordello.
Né pur un sol s'è in la cita trovato
Che non esalti chi gl'ha dato quello.
Infino il buon compagno Gian Donato
Et Lunardo da Pesar buono e bello
Han caro ogni suo mal, perch'ella impari
Con le soie a burlar con i suoi pari....
I signor cinque e i capi dei sestieri
A cui n'andò la querela volando.
Ridendo dei carnefici cristeri
Di far l'esecution la van solando.
Onde i terrieri e tutti i forestieri
Del bene merto suo vanno parlando....
L'Angela stassi peggio che romita
In cordoglio, in silentio, sobria e casta.
Passan sei giorni, è presso che guarita,
Altro non dice co' suspir che basta.
Già la vergogna l'è di mente uscita.
Non sentendosi più nei sessi guasta.
Più sfacciata che prima, ladra e ghiotta,
In su '1 balcon fa la regina Isotta ').
1) Stolido, vile.
*) Malgrado infatti questa avventura, la Zaifetta restava sempre la cortigiana
in voga: e nel 1582 il Cardinale de' Medici, andato a Venezia, ospite dell'am-
basciatore cesareo, passò una notte con lei. cfr. Molmenti, La storia di Venezia
— 129 —
Forse che pensa diventar migliore,
Non soiar, non tradire et non rubbare?
Forse che pensa al suo perdutj honore
Ch'ogni puttana faria vergognare?
Ma pensa più che mai cavar '1 core
A quelli che la corron a adorare
Et per una vestura in nova foggia
Voi far la pace col trentun di Chioggia.
L'esempio invece è stato salutarmente pauroso per le altre cortigiane^
rapaci o infedeli, che serratesi in casa non avrebbero accettato qualsiasi
partita di piacere, né a Lio, né ala Zuecca^ o in barca, nel dubbio di
incappare in un tiro consimile da parte di amanti offesi. 11 Yeniero
prende a catechizzarle tutte, rimproverando loro i tradimenti e l'ingor-
digia : e descrive con molta vivacità la condizione tormentosa di chi
s'abbandoni alla mercè di cotali femmine. Una sola eccezione ha incon-
trato finora; ma quella cortigiana-fenice è morta, e il Veniero le con-
sacra un mesto ricordo :
Una fra mille millanta migliara
Di puttane viventi a nostre spese
Ho conosciuta bella buona e cara
Et da bene al possibile e cortese:
Che Giacoma chiamossi da Ferrara
0 vogliam dir Giacoma Ferrarese,
Che per esser da bene e bella e buona
In questi giorni s'è morta in persona.
nella vita privata, 3* ediz. Torino, 1885, p. 274 n. — Nella Tariffa del 1535,
il Veniero o chi per esso ribadiva implacato gli ingiuriosi giudizi sulla Zaffetta,
scrivendo :
La terza apunto è la Zaffetta, e questa
Per aver nome d'Angiola a una foggia
Vuol venti, a l'altra trenta, se è richiesta.
E pur il mal di Francia seco alloggia
E la disgratia che vi sta in persona,
Oltra il trentun che le fu dato a Chioggia.
Ma di lei così a fil scrive e ragiona
Il mio Venier nel suo sacrato annale,
Che '1 nome suo per tutto ancho risuona.
Ne taccia la grande superbia, e finisce con disgustanti particolari intimi sulla
persona di lei.
Luzio — Pietro Aretino 9
— 130 —
L'ultima stanza del poema è un nuovo monito alla Zaffetta, perchè
moderi l'eccessiva superbia: persino il Doge e i maggiorenti della Se-
renissima sono cortesi, affabili con tutti;
Ma Vostra Altezza per portar l'insegna
Delle puttane, esser maggior si crede
Che non è di San Marco il campanile,
Però dato vi fu il trentun gentile.
La ribalderia descritta in questo poema — nel quale anche il Virgili
riconosce « molta energia di stile in così infame soggetto » — fu com-
messa il sei aprile del 1531: e la prima delle edizioni della Zaffetta re-
gistra chiaramente la data.
Rimasti a Chioggia quei compagni buoni
Scrisser per ogni muro e in ogni via
Come l'Angela Zalfa nel trentuno
Ai sei d'aprile habbia havuto '1 Trentuno.
Questo bisticcio fra la data e l'oscena qualifica del fatto non fu con-
servato nella stampa posteriore ^), che reca invece:
Come l'Angela Zaffa nel trentuno
Ai sei d'aprile habbia sfamato ognuno.
La qual variante ha lasciato in dubbio qualche bibliografo: ma è,
parmi, sicuro che non solo l'infame avventura avesse luogo in quel-
l'anno, sibbene altresì che il poema fosse composto e pubblicato subito
dopo, a render maggiore lo scorno della superba cortigiana e alimentare
lo scandalo e il chiasso che il fatto aveva suscitato a Venezia. Il Virgili
*) Un Alessandro Zanco detto il Poetino, scrivendo da Padova il 26 marzo 1536
all'Aretino, con l'ossequiosa deferenza d'un novellino a un maestro famoso, si
diceva incaricato di chiedergli « la Zaffetta corretta e la Errante » {Leti. alVA.,
I, 300). In questa seconda edizione della Zaffetta, certo uscita su' primi del 1536,
la lezione è generalmente migliorata, sebbene non manchi, come s'è visto, qualche
grave errore di stampa che la prima non ha: però le varianti tra le due edizioni non
sono di tale importanza che valesse la pena di dare il testo doppio, come ha fatto
il Gay. — La lettera del Zanco può essere una prova di più della collaborazione
dell'Aretino ai due poemetti del suo discepolo. Nella seconda giornata della prima
parte de' Ragionamenti, l'A. descrivendo alla sua volta un trentuno ha in molti
punti parafrasato la Zaffetta, e le somiglianze sono così marcate da far quasi
vedere la stessa mano nelle due narrazioni.
— 131 —
ha provato che nel 1531 il Berni teneva già pronto per la stampa il
rifacimento àeW Orlando innamorato, e n'aveva ottenuto su' primi
d'agosto il relativo privilegio dalla Signoria di Venezia: e perciò quel-
l'ottava incastrata dal Veniero nel principio della Zaffetta contro il
... ghiotton presuntuoso Berna
Che per haver Orlando sconcacato
Con rimaccie da banche e da taverna
Il nome suo ci ha scarpellato sopra
Come se del furfante fosse l'opra,
era un attacco suggerito certo dall'Aretino, diretto a screditare in anti-
cipazione l'opera del suo mortale nemico, prossima a veder la luce i).
Poi, la Zaffetta nel poema si dà per « fanciuUina » che « '1 latte ha
in bocca ancora » 2): e nel 1537 la vediamo consumata e scaltrita cor-
tigiana ricevere gli omaggi dell'Aretino nel primo libro delle Lettere.
Dovevano dunque esser passati parecchi anni, perchè la dura lezione le
avesse tanto giovato da sapersi meritare i più caldi omaggi di un giu-
dice competente di quel genere. « Io vi do la palma di quante ne fur
« mai — scrive Pietro — poi che voi più ch'altra havete saputo porre al
« volto de la lascivia la mascara de l'honestà, procacciandovi per via de la
« saviezza e de la discretione robba e laude. Voi non essercitate l'astutia,
« anima de l'arte cortigiana, col mezzo dei tradimenti, ma con sì fatta
« destrezza che chi spende giura d'avanzare». Con sapiente ripartizione
dei suoi favori, essa si allaccia e concilia gli amanti, senza che mai
sorgano conflitti spiacevoli : non è ingorda nell'esiger doni ; non ricorre
alle commedie e agli ingannuzzi delle cortigiane volgari. « Il vostro
« saper donnesco procede a la reale, né vi vanno a gusto le ciancette
« femminili, ne vi si raggirano intorno frasche ne milantatori : pratiche
« honorevoli godono de la gentil bellezza, che vi fa splender rarissima-
« mente; ferme son le speranze de lo stato in cui triomphate degli or-
\
*) Virgili, op. cit, pp. 240, 251.
') L'Aretino in una curiosissima lettera alla cortigiana Angela Sarra (IV, 284)
in data del giugno 1548 parla di Cornelia del Marchese, Angela Zaffetta e Ma-
rina Basciadonna come belle tuttora ne' loro sei lustri. La Zaffetta avrebbe avuto
appena quattordici anni all'epoca del trentuno! — A quell'Angela Sarra l'Aretino
vuol rifare addirittura una verginità, e la paragona alla luna, candida com'essa,
e ombrata solamente da qualche piccola macchia. La Tariffa del 1535 era invece
assai dispregiativa verso la Sarra: le concedeva per degnazione il prezzo di due
scudi « benché sia la disgratia e la bruttezza » . La Sarra fu poi celebrata anche
dal Calmo (cfr. Rossi, op. cit., p. 243 sgg.).
— 132 —
« dini che esseguite (?). La bugia, l'invidia e la maldicenza, quinto
« elemento de le cortigiane non vi tengono in continuo moto l'animo e
« la lingua. Voi accarezzate le vertù et honorate i vertuosi, cosa fuor
« del costume e de la natura di coloro, che compiacciono ai prezzi de
« l'altrui volontà ^). » Perciò l'Aretino con questa lettera — che
arieggia un articolo di giornalista compiacente per qualche odierna
orizzontale in voga — le dava il primato delle cortigiane di Venezia ,
la risarciva ampiamente della gogna che le avevano inflitta i versi del
Trentuno e della Tariffa; ed anche dieci anni più tardi chiamava la
Zaffetta a compagna delle sue allegre cene con Tiziano ^).
IV.
Feste veneziane nel 1530.
Delle feste di Venezia nell'ottobre 1530, in onore del Duca di Milano,
che l'Aretino si proponeva descrivere con tanta vivezza al Duca di Man-
tova, da fargli provare più sollazzo di chi le aveva viste in persona^
l'ambasciatore Agnello die alla sua volta estesi e curiosi ragguagli,
che riportiamo per supplire alla relazione dell'Aretino, o non più
mandata, o perduta. — Sin dal giorno dell'entrata solenne dello Sforza
a Venezia (12 ottobre) i giovani della Calza, scrive l'Agnello, armarono
« otto bregantini, con li quali scorrevano il mare, che era bella cosa da
4. vedere » ; e quantunque stringesse il tempo, perchè la venuta improv-
i) LeUere, I, 243.
') L'A. scrive infatti al compare Tiziano, nel dicembre 1547: « Un paio di fa-
* giani et non so che altro vi aspettano a cena insieme con la signora Angela
< Zaflfetta ed io; sì che venite, aciò che dandoci continuamente ispasso la vec-
« chiaia, spia della morte, non gli rapporti mai che noi siamo vecchi, imperochè
€ trasformandola tutti due con la mascara della gioventù non è per si presto ac-
« corgersi del carico nostro degli anni, i quali di maturi tornano acerbi, quando
« gli attempati gli vanno vivendo piacevolmente. Venite via adunque, et se lo
€ Anichino vi vuol far compagnia mi sarà caro carissimo. > Lettere, IV, 133.
- 133 —
visa dell'ospite illustre li aveva colti impreparati, disegnavano di
« voler fare chiostre, balli, caccie di tori et battaglie navali ^) ».
Infatti il 20 ottobre l'invitarono, per assistere ad una regata, sul Bu-
cintoro « et havendo retrovato ivi da circa 100 bellissime gentildonne...
« andarono per il canale ballando fin alla casa di Foscari ». Eran
là le regate, a cui presero parte anche delle donne, con premi spe-
ciali: si diedero de' sontuosi rinfreschi al palazzo della Signoria, « et
« dapoi la colatione si fecero alcune momarie (rappresentazioni) che
« così le chiamano ^) ». — La grandiosa battaglia navale, che ebbe luogo
il 23 ottobre, è ben rappresentata nella seguente lettera dell'Agnello :
IlWo et Ex°^° S"" patrone mio obser"^»
Hoggi s'è fatta la battaglia navale de la quale ho voluto dar aviso a V. Ex.
parendomi così esser mio debito, anchor che mi persuada che meglio la intenderà
la cosa dal Peveraro et da altri che si sono retrovati a vedere il tutto. Quella
adunche sapperà come a l'incontro del palatio del Gran Consilio in meggio del
Canal Grande è sta' fabricato sopra alcune zatte un castello de legnami, quale
compareva molto bene sì perchè era tutto finto di marmore, sì anche perchè era
formato a guisa d'una bellissima forteza con quattro torrioni uno per ogni can-
tone et con un'altra gran torre nel meggio. Et essendo munito il ditto castello
d'artegliaria grossa et minuta et de diverse altre cose necessarie alla deffensione
d'una terra, il cap° Gattino tolse il carrico di guardarlo con quaranta compagni,
et così entratovi dentro con essi la matina a l'alba, essendosi radunato numero
infinito di persone a vedere la festa, circa le deceno ve bore da la banda del
Kesanala si scopersero trenta bregantini armati, et come quelli di dentro li
videro buttorno fuori da li merli duoi puoni '} fingendo quelli essere soldati che
havessero voluto tradire la forteza, poi cominciorono a scarricare gran numero
de artegliaria, del che mostrando li bregantini haver timore stavano da la larga,
et andando intorno del castello in foggia di scaramutia tiravano anche essi la
loro artegliaria: et scaramuzatosi così per un pezo Tarmata deliberò di expu-
gnare il castello, donde che quindeci bregantini si ridussero da un canto del
castello et li altri quindeci da l'altro, et scarricando molte volte la loro arte-
gliaria in la quale non ponevano altro che polvere et paglia mostravano di far
due battarie: et dapoi che hebbero fatto questo per un pezzo si appresentorono
alla battaglia accostando le schale al castello et attacando fochi artificiati in
alcuni lochi di esso, ma quelli di dentro combattendo gagliardamente con spade
di legno buttando fora pegnatte legnami et ciò che li veniva alle mani si def-
fendevano benissimo et buttavano in acqua quanti volevano ascendere le schale,
di modo che era cosa assai bella da vedere, ma molto più bella seria stata se
^) Disp. dell'Agnello 12 e 14 ottobre.
') Il raed., 20 ottobre. — Sulle momarie cfr. Molmenti, op. cit, p. 298.
') Fantocci.
— 134 —
la fosse durata più, però che in spatio di meza bora dapoi principiata la bat-
taglia il castello fu preso essendovi entrato dentro quelli de l'armata per la via
fatta dal foco artificiato; et anchor che poi presa la prima cinta del castello la
torre di raeggio si deflfendesse pur anch'essa durò poco che in un tratto si perse.
Expugnato il castello furono scarricati infiniti pezzi d'artegliaria in la piazza
del palazzo, che era segno de la colatioiie che veniva, la quale fu portata da
quattrocentosessanta schuderi guidati da 23 gentilhomini de la Calza havendo
cadauno d'essi vinti schuderi a sua obedientia, et cadaun schudero portava o
piatto 0 taza d'argento con dentro cose fatte di zucharo, alcuni haveano un
Cupidine, altri una Venere, molti un Neptuno et un Mercurio, et altri altre
diverse figure così de Dei comò de homini et de diversi animali di modo che fu
cosa molto delectevole da vedere. Questa colatione fu portata parte alla S.ria,
al S.r Duca di Milano et a quello di Ferrara che stavano sopra il portico
del palazzo a vedere la festa, parte fu presentata a centosei bellissime gentil-
donne et a molti gentilhomini che erano sopra un palcho fatto dinanzi al ditto
palazzo et coperto di panni di color celeste con ornamenti de finissimi tapeti et
di bellissime spallere di seta et d'ogni altra sorte, di modo che questo palcho
per l'ornamento che haveva cosi de le donne le quali erano state invitate perchè
superano di belleza tutte le altre de la città, come anchor de li altri apparati
è stato indicato la più bella cosa che abbia havuto tutta la festa. Fornita la
colatione si cominciò a ballar sul palcho et ballatosi tre balli comparsero li trenta
bregantini, quindeci per ogni parte, li quali andarono con gran furia ad inve-
stirse, et li galleotti et soldati che vi erano sopra, poi che hebbero gettato l'un
centra l'altro pegnatte et altri fochi artificiati venero alle mani con le spade et
altre arme d'hasta, le quali erano però di legno et havevino usato d'esse ne la
battaglia del castello, di sorte che demostravano una vera battaglia navale, et
se la notte non li havesse dispartiti molto più presto di quello che conveniva a
un tal spectacolo certamente si haveria havuto assai bel spasso; ma come ho
detto, la notte interroppe, et retiratosi li bregantini ognuno partite salvo quelli
che volsero veder ballare. Il ballare durò fin alle tre bore di notte, che poi ogniuno
andò a casa sua, et a questo modo la festa hebbe il suo fine, la quale è sta
laudata da molti, molti anche la biasmino dicendo che si poteva fare assai
meglio di quello che è sta' fatto. Io l'ho scritta come l'è non aggiungendoli
né minuendoli cosa alcuna. Me raccomando in bona gratia di V. Ex.
Da Venetia ali 23 di octobre 1530.
D. V. Ex.
Humil'^^8 gor
B. Agnello.
Di altri divertimenti offerti al Duca di Milano non si ha memoria.
— Certo è che le compagnie della Calza si trovavano allora nel
maggior splendore, e concorrevano a rendere straordinariamente solenni
le feste così pubbliche come private di Venezia *). Essere accolti da
') Cfr. MoLMENTi, op. cit, p. 308 e sgg.
- 185 -
quelle società brillanti di gentiluomini era un onore ambito da' perso-
naggi più cospicui, e non sempre facilmente concesso. Al qual pro-
posito l'amb. Malatesta scriveva, in questo stesso anno 1530, del
4 maggio al Duca di Mantova:
« Una compagnia nova de questi gioveni che si nomina imortali boggi ac-
cettano in la compagnia il S. Principe di Salerno et gli fanno una festa et
convito alla foggia che fu fatto a V. Ex. quando la entrette in una simile.
Danserano per Canale suso le piate con le gentildonne, le quali sinhora non
hanno potuto ottenere de vestirse a loro modo come fu concesso al detto convito
de V. Ex. Quando il Marchese di Monferrato fu qua un'altra compagnia de gli
floridi invitate Sua S.ria ad entrare in essa, poi ad accettarlo gli compagni
furono discordi et non intrette, ma solamente gli fu fatto il convito ».
E il giorno appresso annunziava che la festa al Principe di Salerno
era riuscita meschina : la colazione aveva costato poco più di venti
ducati, e in tutto non se n'eran spesi quattrocento; mentre pel suo
padrone non bastarono i tremila. Federico Gonzaga infatti, andato
a Venezia nel febbraio del 1520, vi aveva avuto eccezionali accoglienze
da un'altra compagnia degli Immortali ^).
A queste fiorite e distinte società di pa^m^ poteva già essere aggre-
gato nel 1530 un avventuriero come l'Aretino? Se si considera che
egli era ormai cresciuto di influenza e di fama, protetto dal Doge,
camerata del Tiziano, maestro del Veniero, non è improbabile: — e
sta di fatto che alcuni anni più tardi troviamo come la Taìanta fosse
« composta a petitione dei magnifici signori sempiterni e recitata dalle
lor proprie magnificentie con mirabil superbia d'apparato » ; apparato
descritto per filo e per segno dal Vasari '^\ che ne fu l'ordinatore,
espressamente chiamato a Venezia da Pietro, cui stava a cuore di
far conoscere e ammirare l'artista concittadino.
Anche nel 1530, s'è visto (doc. XXVI) che l'Aretino si faceva ri-
mandare da Mantova il Marescalco « con dire che era richiesto da
« assai gentilhomini ».
^) MoLMENTi, op. ciL, p. 316, e Rossi, op. cit., p. XX.
-) Vasari, Opere, ed. Sansoni, Vili, 283.
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