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Full text of "Pietro Aretino nei primi suoi anni a Venezia e la corte dei Gonzaga"

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PIETRO  ARETINO 


NEI     PRIMI    SUOI     ANNI     A    VENEZIA 


LA  CORTE  DEI  GONZAGA 


PER 


ALESSANDRO  LUZIO 


TORINO 
ERMANNO    LOESCHER 


FIRENZE 
Vi»  Tornabuoni,  20 


1888 


BOMA 
Via  del  Corio,  80? 


PROPRIETÀ     LETTERARIA 


Torino  -  StaWlimento  Tipografico  VINCENZO  BONA 


AL  PKOFESSORE 
FRANCESCO     ISTOVATI 


Dedico  a  te  queste  pagine  staccate  dalla  monografia,  che  da 
lungo  tempo  vagheggio,  su  Pietro  Aretino:  e  ti  prego  di  accet- 
tarle cornee  tenue  segno  della  più  alta  stimma  e  di  vivissimo  affetto. 

Permettimi  poi  di  spiegar  brevemente  per  quali  circostanze  ho 
creduto  di  anticipare  questo  fram^mento  del  mio  futuro  lavoro. 
—  Son  oltre  venVanni,  da  che  Armand  Baschet  produceva  nel- 
l'Archìvio storico  italiano  UTia  serie  di  documenti  mantovani,  che 
gettarono  molta  luce  sulla  giovanezza  dell'Aretino  alla  corte  di 
Clemente  VII.  Il  Baschet  prometteva  di  far  quanto  prima  seguire 
una  seconda  serie  illustrante  il  soggiorno  dell'Aretino  a  Venezia: 
ma  distratto  dalle  sue  svay^iate  ricerche  letterarie  non  seppe  tro- 
varne mxxi  il  tempo  ;  finche  quell'operosa  esistenza  venne  pur- 
troppo troncata  da  morte  precoce. 

Appunto  allora  io  mi  proposi,  come  om/iggio  alla  memoria  del 
dotto  francese,  avuta  cortese  adesione  rfa//' Archivio  storico  italiano, 
di  completare  la  sua  puUicazione  interrotta:  senonchè,  volendo 
accompagnare  i  documenti  della  necessaria  illustrazione,  mal- 
grado la  maggior  sobrietà  mi  si  allargò  tra  wuno  la  materia, 
per  modo  da  oltrepassare  lo  spazio  che  quel  periodico  poteva 
accordarmi. 

È  così  che  il  mio  saggio,  dopo  esser  giaciuto  polveroso  non 
breve  tempo,  esce  ora  a  parte  in  volume:  e  m'auguro  richiamai 
egualTYiente  l'attenzione  degli  studiosi.  —  Benché  comprenda  un 
ristretto  periodo,  di  soli  quattr'  anni,  esso  tratta  un  punto  im- 
por tantissimo,  si  può  dir  decisivo,  nella  vita  dell'Aretino.  Sulla 
scorta  de'  documenti  mantovani,  noi  vediamo  infatti  come  l'A- 
retino non  s'inducesse  a  fissare  la  sua  residenza  in  Venezia,  se 
non  dopo  molte  incertezze  e  i  più  penosi  im^barazzi;  e  senza  la 
protezione  dei  Gonzaga  sarebbe  stato  costretto  a  ramingay^e  per 


—   IV   — 

V Italia,  0  fors' anche  a  '^arcare  le  Alpi.  La  mal  riposta  genero- 
sità della  corte  di  Mantova  gli  fece  per  più  anni  le  spese,  e  spianò 
la  via  a  quell'insolente  fortuna  di  cui  Venezia  doveva  per  l'A- 
retino diventare  la  base:  —  primi  i  Gonzaga  diedero  allo  sfac- 
ciato avventuriero  la  piena  coscienza  della  sua  forza,  e  agli  altri 
Principi  Vesempio  d'una  vergognosa  tolleranza,  d'una  strana 
paura  per  quella  penna  m^aledica. 

Curiosissima  a  seguire,  le  relazioni  che  l'Aretino  m^antenne 
^ino  al  1530  col  Marchese  di  Mantova  lumeggiano  dunque  inte- 
ramente il  periodo  delle  sue  prime  armi  a  Venezia:  e  i  docu- 
menti dell'Archivio  Gonzaga,  ricchi  come  sempre  di  colorito,  di 
particolari  caratteristici,  riparano  alle  lacune  dell'epistolario  stam- 
pato, 0  aiutano  a  rettificarne  le  inesattezze.  —  Già  dallo  Chasles 
e  da  altri  l'Aretino  è  stato  considerato  come  precursore  del  gior- 
nalismi) ;  ed  anch'io,  per  quanto  z  documenti  qui  prodotti  lo  con- 
sentivano, ho  m^irato  sin  da  ora  a  porre  in  rilievo  la  sua  figura 
da  tale  aspetto  —  che  sarà  poi  tema  al  più  ampio  e  meditato  la- 
voro, del  quale  vorrei  questo  saggio  non  apparisse  troppo  man- 
chevole promessa. 

Fiducioso  almeno  nella  tua  indulgenza,  caro  Nevati,  mi  ripeto 
cordialmente 

Mantova,  30  marzo  1888. 


ALESSANDRO  LUZIO. 


SOMMARIO  DEI  CAPITOLI 


L'Aretino  a  Mantova  dopo  la  morte  di  Giovanni  de'  Medici  (30  nov.  1526) 

—  Sua  disperazione  —  Tentativi  del  Marchese  Federico  Gonzaga  per  riconci- 
liarlo con  Clemente  VII  —  Pasquinate  e  pronostici  satirici  dell'A.  —  Caratte- 
ristica  speciale  de'  giudizi  dell'A.,  considerato  come  precursore  del  giornalismo 

—  Rimostranze  del  Papa  al  Marchese  per  un  libello  dell'A.  —  Il  Marchese  si 
esibisce  a  farlo  ammazzare.  —  L'A.  parte  da  Mantova. 

n. 

L'A.  arriva  a  Venezia  (25  marzo  1527)  —  Stringe  subito  amicizia  con  Tiziano, 
che  gli  fa  il  ritratto  —  Canzone  e  pasquinata  dell'A.  sul  sacco  di  Roma  —  Il 
famoso  sonetto  del  Berni  contro  l'A. 

in. 

Tentativo  fallito  dell'A.  di  andare  in  Francia  alla  corte  di  Francesco  I  — 
Intraprende  il  poema  della  Marfisa^  in  continuazione  dell'Ariosto  e  a  gloria  di 
casa  Gonzaga  (settembre  1527)  —  Amori  mantovani  dell'A.  e  compiacenza  ver- 
gognosa del  marchese  Federico  (febbraio  1528). 

IV. 

Strana  interruzione  ne'  rapporti  dell'A.  col  Marchese  —  Maldicenze  dell'A. 
disgustato  contro  la  corte  di  Mantova  —  Minacce  del  Marchese  —  L'A.  si  fa 
perdonare  —  Manda  in  dono  al  Marchese  un  pugnale  lavorato  da  Valerio  vicen- 
tino, e  riprende  la  Mar  fisa  interrotta  (ottobre  1529). 

V. 

L'A.  fa  chiedere  dal  Marchese  al  Papa  e  all'Imperatore,  convenuti  a  Bologna, 
un  privilegio  di  stampa  per  la  Marfisa  —  Loro  rifiuto  —  L'A.  è  costretto  a 
riconciliarsi  col  datario  Giberti  (febbraio  1530)  —  Spiegazioni  sul  ferimento 
dell'A.  avvenuto  a  Roma  nel  luglio  1525. 


VI. 

Il  Doge  Gritti  s'interpone  fra  il  Papa  e  l'A.  (aprile  1530)  —  Insediamento 
definitivo  dell'A.  a  Venezia  —  Stanze  in  lode  di  essa. 

VII. 

La  casa  dell'A.  —  Lusso  di  cui  si  circonda  —  Gli  amici  scapestrati  e  disce- 
poli: Lorenzo  Veniero,  e  la  sua  P.  Errante. 

Vili. 

L'A.  ottiene  per  Arezzo  la  protezione  di  Ferrante  Gonzaga  (agosto  1530)  — 
Nuovi  disgusti  col  Duca  Federico,  che  lo  fa  minacciare  di  pugnalate  in  mezzo 
a  Rialto  —  L'A.  chiede  ancora  perdono  —  Sollecita  dal  Papa  un  beneficio  in 
Arezzo  —  Riconciliazione  officiale  con  Clemente  VII  (settembre  1530). 

IX. 

Rottura  completa  fra  l'A.  e  il  Duca  di  Mantova  (febbraio  1531)  —  Influenza 
e  fortuna  sempre  crescenti  dell'A.  a  Venezia  —  Conclusione. 


INDICE  DEI  DOCUMENTI 


I.  Lettera  del  Marchese  Federico  Gonzaga  a  Francesco  Guicciardini.  Di  Man- 
tova, 23  gennaio  1527. 
IL  Dispaccio  dell'ambasciatore  Francesco  Gonzaga  al  Marchese  Federico.  Di 
Roma,  26  aprile.  —  Risposta  della  Cancelleria  ;  di  Mantova,  4  mag- 
gio 1527. 
IIL  Lettera  del  Marchese  Federico  all'Aretino.  Di  Mantova,  28  maggio  1527. 
IV.  Lettera  dell'Aretino  al  Marchese.  Di  Venezia,  7  luglio  1527.  —  Can- 
zone e  Frottola  sul  sacco  di  Roma. 
V.  Lettera  del  Marchese  all'Aretino.  Di  Mantova,  8  luglio  1527. 
VI.  Lettera  e.  s.  Di  Mantova,  4  agosto  1527. 
VII.  Lettera  e.  s.  Di  Marmirolo,  15  settembre  1527. 
Vili.  Lettera  e.  s.  Di  Mantova,  11  ottobre  1527. 
IX.  Lettera  e.  s.  Di  Mantova,  4  novembre  1527. 
X.  Lettera  e.  s.  Di  Mantova,  10  novembre  1527. 
XI.  Lettera  e.  s.  Di  Mantova,  20  novembre  1527. 
XII.  Lettera  e.  s.  Di  Mantova,  11  dicembre  1527. 

XIII.  Lettera  e.  s.  Di  Mantova,  3  gennaio  1528. 

XIV.  Lettera  e.  s.  Di  Mantova,  5  febbraio  1528. 
XV.  Lettera  e.  s.  Di  Mantova,  26  febbraio  1528. 

XVI.  Lettera  di  Pietro  Aretino  all'ambasciatore  Jacopo  Malatesta.  Di  Venezia, 

s.  d.  (27  gennaio  1529). 
XVII.  Dispacci  da  Venezia  dell'ambasciatore  Jacopo  Malatesta;   26,  29  gen- 
naio 1529. 
XVIII.  Dispaccio  da  Venezia  di  Jacopo  Malatesta  al  castellano  G.  J.  Calandra; 
14  febbraio  1529. 
XIX.  Lettera  di  Pietro  Aretino  al  Marchese  Federico.  Di  Venezia,  12  aprile  1529. 
XX.  Lettera  del  Marchese  a  Pietro  Aretino.  Di  Mantova,  24  aprile  1529. 
XXI.  Lettera  dell'Aretino  al  Marchese.  Di  Venezia,  10  settembre  1529. 
XXn.  Lettera  e.  s.  Di  Venezia,  2  ottobre  1529. 

XXIII.  Lettera  e.  s.  Di  Venezia,  3  dicembre  1529. 

XXIV.  Lettera  del  Marchese  a  Giambattista  Malatesta,  oratore  a  Bologna.  Di 

Mantova,  8  dicembre  1529. 
XXV.  Lettera  dell'Aretino  al  Marchese.  Di  Venezia,  s.  a.  (dicembre  1529). 
XXVI.  Lettera  dell'Aretino  a  Jacopo  Malatesta.  Di  Venezia,  s.  a.  (7  gennaio  1530). 
XXVII.  Lettera  dell'Aretino  al  Marchese.  Di  Venezia,  s.  a.  (febbraio  1530). 
XXVIII.  Lettera  del  Marchese  Federico  al  Vescovo  di  Verona,   datario  Giberti, 
Di  Mantova,  8  febbraio  1530. 


—  vili  

XXIX.  Lettera  del  datario  Giberti  al  Marchese.  Di  Verona,  9  febbraio  1530. 
XXX.  Lettera  del  cancelliere  marchionale  (G.  J.  Calandra)  al  datario  Giberti. 

Di  Mantova,  11  febbraio  1530. 
XXXI.  Dispaccio  dell'ambasciatore  J.  Malatesta  al  Marchese  (con  accluso  un 

biglietto  dell'Aretino,  s.  d.).  Di  Venezia,  12  aprile  1530. 
XXXII.  Lettera  dell'Aretino  al  Marchese.  Di  Venezia,  20  aprile  1530. 

XXXIII.  Lettera  di  Federico  Gonzaga,  Duca  di  Mantova,  a  Pietro  Aretino.  Di 

Mantova,  20  giugno  1530. 

XXXIV.  Dispacci  da  Venezia  dell' ambasciatore  Benedetto  Agnello;   11  luglio, 

16  agosto  1530. 
XXXV.  Lettera  dell'Aretino  al  Duca  di  Mantova.  Di  Venezia,  19  agosto  1530. 
XXXVI.  Lettera  del  Duca  di  Mantova  a  Ferrante  Gonzaga.   Di  Mantova,  24 

agosto  1530. 
XXXVII.  Lettera  del  Duca  di  Mantova  all'Aretino.  Di  Mantova,  24  agosto  1530. 
XXXVIII.  Lettera  di  G.  J.  Calandra  all'ambasciatore  Benedetto  Agnello.  Di  Man- 
tova, 16  settembre  1530. 
XXXIX.  Lettera  dell'Aretino  al  Duca  di  Mantova,  Di  Venezia,  settembre  1530. 
XL.  Lettera  del  Duca  di  Mantova  all'ambasciatore  Francesco  Gonzaga.  Di 

Mantova,  28  settembre  1530. 
XLI.  Dispaccio  dell'ambasciatore  Agnello  al  Calandra.  Di  Venezia,  4  ot- 
tobre 1530. 
XLII.  Dispaccio  dell'ambasciatore  Francesco  Gonzaga  al  Duca  di  Mantova. 

Di  Koma,  11  ottobre  1530. 
XLin.  Lettera  di  Pietro  Aretino  all'ambasciatore  Agnello.  Di  Venezia  (24  ot- 
tobre 1530). 
XLIV.  Dispacci  dell'ambasciatore  Agnello.  Di  Venezia  1531-1533. 


APPENDICE 


I.  L'Aretino  pittore. 
II.  Il  sacco  di  Roma  descritto  nei  Ragionamenti  dell'Aretino. 
ni.  I  poemetti  osceni  del  Veniero. 
rV.  Feste  veneziane  nel  1530. 


Il  30  novembre  1526  moriva  a  Mantova  Giovanni  de'  Medici,  ferito 
a  Governolo;  e  di  questa  gravissima  perdita,  che  gettò  la  desolazione 
e  lo  scompiglio  nelle  terribili  hande^  più  d'ogni  altro  sbalordito  ed 
oppresso  restò  l'Aretino,  che  s'era  visto  mancare  tra  le  braccia  il  suo 
protettore  potente,  l'amico  e  compagno  di  orgie  e  d'amori  più  che  pa- 
drone. Presso  Giovanni  de'  Medici,  l'Aretino  aveva  trovato  sicuro  ri- 
fugio, costretto  a  partirsi  da  Koma,  malconcio  e  stroppiato  dal  pugnale 
di  Achille  della  Volta  i);  e  per  l'intimità  singolare  che  a  lui,  primo 
de'  grandi  avventurieri  della  stampa,  aveva  accordato  l'ultimo  de'  grandi 
capitani  di  ventura,  l'Aretino  si  era  promesso  non  solo  l'impunità  per 
ogni  insolente  sua  audacia,  ma  chi  sa  anche  qual  avvenire  luminoso 
di  ricchezze  e  di  onori  2).  Un  colpo  di  falconetto,  de'  primi  tirati  dai 


*)  Mazzuchblli,  Vita  di  P.  A.,  Padova  1741,  p,  26;  cfr.  Baschet,  Documents 
concern.  la  personne  de  m.  P.  A.  in  Arch.  st.  it,  serie  3',  tomo  III,  parte  2»; 
e  Virgili,  Francesco  Berni,  Firenze  1881,  p.  108.  —  L'A.  fu  ferito  gravemente 
da  due  pugnalate  nel  petto  la  sera  del  28  luglio  1525. 

')  Nel  capitolo  al  Duca  Cosimo  {Opere  burlesche,  Usecht  1771,  III,  22)  l'Are- 
tino garantisce  che  Giovanni  l'avrebbe  fatto  signore  d'Arezzo: 

Egli  che  meco  per  la  sua  mercede 
Non  aveva  spartita  cosa  alcuna, 
Qual  informar  se  ne  può  chi  noi  crede, 

Sotto  Milan  dieci  volte  non  ch'una 
Mi  disse:  Pietro,  se  di  questa  guerra, 
Mi  scampa  Dio  e  la  buona  fortuna, 

Ti  voglio  impadronir  della  tua  terra. 
Ma  piace  al  destin  ladro  ch'io  pur  sia 
Povero  e  vecchio,  ed  ei  morto  e  sotterra. 

Luzio  —  Pietro  Aretino  1 


—  2  — 

lanzichenecchi  a  Governolo,  aveva  rotto  con  la  giovane  vita  del  temuto 
condottiero  le  speranze  ambiziose  del  suo  confidente,  del  suo  parassita; 
e  l'Aretino  si  trovò  solo,  odiato,  indifeso,  senza  asilo  e  senza  mezzi, 
mentre  tutta  Italia  ardeva  d'una  guerra  sterminatrice. 

Resi  a  Giovanni  gli  estremi  onori,  e  celebratene  le  lodi  con  una 
sincerità  di  dolore  che  gli  dava  accenti  di  vera  e  vigorosa  eloquenza  i), 
l'Aretino  dovè  pensare  a'  casi  suoi,  volgersi  attorno  odorando  il  vento 
infido  per  vedere  in  qual  luogo  avrebbe  potuto  riparare,  a  chi  offrire 
i  suoi  servigi  con  qualche  probabilità  di  fortuna.  Di  tornare  a  Roma 
non  gli  passava  neppure  per  il  capo;  sovr'essa  si  sapeva  diretta  la 
marcia  degli  imperiali,  assetati  di  preda  e  di  strage  ;  e  senza  ciò  l'Are- 
tino, in  disgrazia  del  Papa  e  del  datario  Giberti,  che  aveva  maggior- 
mente provocati  ed  offesi  all'ombra  di  Giovanni  de'  Medici,  si  sarebbe 
esposto  a  certo  pericolo,  a  un  nuovo  attentato  di  sicari.  Nessun'altra 
corte  italiana  gli  presentava  prospettiva  migliore  fuori  di  Mantova: 
e  là  avrebbe  avuto  di  grazia  poter  rimanere,  era  anzi  quello  il  porto 
tranquillo  che  s'era  già  augurato  tra'  disgusti  e  le  amarezze  di  Roma, 
componendo  La  Cortigiana  ^j.  Ma  il  marchese  Federico  Gonzaga,  che 


*)  Basti  ricordare  la  stupenda  lettera  sulla  morte  di  G.  de'  M,,  con  la  data  di 
Mantova  10  dicembre  1526  (Aretino,  Lettere,  Parigi  1609;  I,  5). 

')  Nel  codice  magliabecchiano,  CI.  VII  n"  84,  ci  è  conservata  la  prima  reda- 
zione di  questa  commedia,  che  dovè  essere  composta  tra  il  febbraio  e  il  luglio 
del  1525,  dopo  cioè  la  battaglia  di  Pavia  e  prima  del  ferimento  dell'Aretino 
Infatti  nel  prim'atto,  là  dove  viene  in  scena  quel  «  furfante  che  vende  istorie  » 
fra  le  altre  che  grida  v'è  anche  la  presa  del  Me  :  e  in  più  luoghi  sono  onorevol 
mente  ricordati  il  Papa  e  il  Datario.  Il  codice  è  come  autografo,  recando  corre 
zioni  di  pugno  dell'Aretino  :  e  questa  prima  redazione  offre  molte  e  assai  notevoli 
varianti  con  la  Cortigiana,  quale  si  ha  a  stampa  nel  rimaneggiamento  che  ne 
fece  più  tardi  l'Aretino  a  Venezia.  Appunto  in  quella  scena  del  terz'atto,  dove 
Flaminio  e  Valerio  passano  in  rassegna  le  corti  italiane  perchè  ne  risalti  maggior 
gloria  a  Venezia,  noi  troviamo  invece  nella  prima  redazione  che  Flaminio  (ossia 
l'Aretino)  dichiarava  allora  di  preferir  Mantova  sopra  ogni  altra  corte.  «  Anderò 

<  a  Mantova,  dove  la  ex.^  del  Marchese  Federico  non  nega  il  pane  a  ninno,  et 

<  ivi  mi  tratterrò  tanto  che  N.  S.  acconci  le  cose  del  mondo,  non  sol  d'Italia,  e 
«  poi  ritornerò,  ch'io  son  certissimo  che  sua  S.^  rileverà  le  virtù  come  fece  Leon 
«  suo  fratello.  »  —  È  certo  questa  commedia  che  l'Aretino  aveva  inviato  al  Mar- 
chese, il  quale  ne  lo  ringraziava  così,  dell'agosto  1526:  «  Io  mi  vado  pigliando 
€  spasso  in  la  vostra  dotta  comedia,  vero  spechio  de  la  corte  moderna  et  di  la 

<  vita  humana  presente,  la  cui  lettione  non  vi  potrei  dir  quanto  mi  delecta.  » 
(Arch.  Gonzaga,  Copialettere  dei  Marchesi,  Lib.  287  ;  lett.  22  agosto.  Tutti  i 
doc.  inseriti  nel  testo,  e  quelli  a  parte,  che  non  abbiano  altra  indicazione,  s'in- 
tendono tratti  dall'arch.  mantovano). 


—  3  — 

aveva  tanto  accarezzato  l'Aretino  quando  a  Koma  era  in  auge,  e  si 
piaceva  ancora  della  sua  conversazione  mordace  e  de'  suoi  scritti,  non 
volle  più  saperne  di  accettarlo,  per  non  tirarsi  a'  fianchi  un  uomo  di 
tal  fatta,  che  l'avrebbe  guastato  con  Clemente  e  col  Giberti:  addu- 
cendo  a  pretesto  che  gli  anni  volgevano  disastrosi,  il  mantovano  era 
stato  disertato  dal  passaggio  de'  lanzichenecchi,  e  dalle  inondazioni 
del  Po  ;  distrutte  le  rendite,  stremato  l'erario,  quindi  già  troppo  obe- 
rata la  corte.  Il  Marchese  non  lo  respinse  tuttavia  ;  gli  concesse  ospi- 
talità pel  momento,  e  tentò  qualche  via  di  riconciliarlo  col  Papa  ^). 
L'Aretino  —  scriveva  il  Gonzaga  al  Guicciardini  luogotenente  pon- 
tificio in  Parma  —  non  si  cura  di  ritornare  a  Koma  :  vuole  soltanto 
qualche  dimostratione  che  gli  provi  la  sua  serviti!  con  casa  Medici 
non  esser  affatto  perduta.  E  il  Marchese  soggiungeva  con  calore  che 
ci  andava  anche  del  decoro  del  Papa  a  quietare  costui,  perchè  si  era 
in  tempi  in  cui  giovava  più  la  lode  che  il  biasimo;  e  poi  infine  il 
ferimento  dell'Aretino,  se  non  ordinato,  tollerato  e  impunito  dal  Da- 
tario e  dal  Pontefice,  era  cosa  «  brutta  e  nota  a  ciascuno.  » 

11  Guicciardini  promise  di  adoperare  i  suoi  buoni  offici  -):  e  in- 
tanto l'Aretino  passò  qualche  tempo  a  Mantova  nella  più  penosa  in- 
certezza, sfogandosi  a  buttar  giù  versi  e  prose,  con  una  fecondità  che 
il  Marchese  diceva  miracolosa,  perchè  in  un  mese  lo  vedeva  fare  quanto 
non  avrebbero  messo  assieme  in  dieci  anni  tutti  i  letterati  d'Italia  !  ^). 
Naturalmente  in  questa  sbalorditola  produzione   non   potevano  non 


1)  Doc.  I. 

')  Già  all'Aretino  stesso  il  Guicciardini  aveva  scritto  (14  nov.  1526):  e  Spero 
«  in  Dio  che  vedrovvi  riconciliato  seco,  secondo  il  merito  de  la  vostra  virtù.  » 
Leti,  scritte  ai  sig.  P.  A.,  Venezia,  Marcolini,  1551;  I,  9. 

')  Di  questo  tempo  dev'essere  il  sonetto  che  troviamo  nel  cod.  marciano  CI.  XI 
it,  n»  LXVI  a  e.  434  v: 

Sett'anni  traditori  ho  via  gettati 

Con  Leon  quatro  et  tre  con  ser  Chemente, 

E  son  fatto  nemico  de  la  gente 

Più  per  li  lor  che  per  li  miei  peccati 
Et  non  ho  pur  d'intrata  dui  ducati 

Et  son  da  men  che  non  è  Gian  Manente, 

Onde  nel  e...  se  ponete  mente 

Ho  tutte  le  speranze  de  papati. 
Se  le  ferite  vacasser  ne  havrei 

Per  diffender  l'honor  di  miei  patroni 

Motu  proprio  ogni  dì  ben  cinque  o  sei. 


—  4  — 

aver  larga  parte  degli  scritti  satirici,  de'  soliti  libelli  :  ed  uno  di  essi 
era  già  arrivato  a  Roma,  proprio  in  tempo  per  distruggere  l'effetto 
delle  raccomandazioni  del  Marchese.  Insieme  a  una  disperata^  un  ca- 
pitolo cioè  pieno  di  imprecazioni  e  di  vituperi  a  tutta  la  corte  pa- 
pale ^),  egli  aveva  composto  uno  di  que'  giudizi  che  dovevano  diven- 
tare una  specialità  dell'Aretino,  ora  per  altro  quasi  affatto  sconosciuta: 
su'  quali  è  perciò  necessario  premettere  qualche  schiarimento. 


Ma  benefici,  offici  et  pensioni 
Hanno  bastardi  et  furfanti  plebei 
Che  i  Papi  mangeriano  in  duo  bocconi. 

E  i  suoi  servitor  buoni 
Muojon  di  fame,  come  che  facc'io. 
Cosa  da  renegar  Domeneddio. 

*)  Questa  «  Disperata  di  P.  A.  »  l'abbiamo  nel  cit.  cod.  marciano  a  e.  255  r, 
ed  è  una  serqua  di  terzine  velenose  e  rabbiose  contro  tutto  e  contro  tutti.  Fra' 
primi  malmenati  è  il  cardinal  fiammingo  Enkefort,  creato  da  Papa  Adriano,  e 
ribattezzato  Trinkefort  dall'Aretino  come  dal  Berni;  e  via  via  altri  cardinali,  il 
viceré  Lannoy  che  nel  marzo  del  1527  concluse  un  armistizio  col  Papa,  ecc. 

Io  son  crutiato  e  in  colera  sì  forte 
Che  vivo  e  senza  sai  mi  mangeria 
Quel  gaglioffo  fiammingo  Trincaforte 

Vorrei  che  fusse  officio  di  Pasquino 
A  la  Marcha  donar  la  pelle  bona 
Di  quel  ladro  ladron  de  l'Armellino 

Vorrei  che  fusse  legato  per  pazzo 
El  nostro  raesser  Carlo  imperatore 
Che  lassò  re  Francesco  ire  a  sollazzo 

Vorrei  che  '1  viceré  fusse  squartato, 
0  tornasse  homo  d'arme  come  gli  era 
S'egli  ha  coi  preti  lo  acordo  firmato 


Vorrebbe  la  rovina  di  Roma  e  di  Clemente  —  «  Più  misero  et  da  poco  di 
Adriano  »  —  veder  il  clero  tagliato  a  pezzi  e  Italia  fantesca  di  Spagna,  ciò  che 
iu  breve  s'avverò  pur  troppo.  Non  risparmia  che  due  prelati,  Ercole  Gonzaga  e 
Benedetto  Accolti  d'Arezzo;  e  dice  d'esser  così  in  furia 

Poi  eh' è  successo  nel  capitanato 
Dopo  la  morte  del  signor  Giovanni 
Bernardin  da  la  Barba  schiericato 

Per  gratia  e  per  bontà  di  Papa  Janni. 

Al  Da  la  Barba  si  trovano  per  altro  dirette  parecchie  lettere  adulatorie  delI'A. 
(II,  18,  227). 


—  5  — 

Gli  astrologi  solevano  al  principio  d'ogni  anno  pubblicare  i  loro 
pronostici,  che  redatti  in  forma  più  o  meno  sibillina,  con  più  o  meno 
abile  ciurmeria,  avevano  diffusione  grandissima  non  solo  nel  volgo, 
ma  tra  le  classi  più  elevate  e  nelle  corti.  Questi  pronostici  erano  chia- 
mati judict,  e  per  lo  più  si  dividevano  in  tanti  paragrafi  o  capitoli: 
capitolo  del  tempo,  de'  raccolti,  degli  stati  e  signori,  della  guerra...; 
e  così  via  via  davano  su  tutto  delle  predizioni  con  un  gergo  arruffato, 
che  la  credulità  generale  s'affannava  a  decifrare.  Non  mancavano  per 
vero  gli  scettici  e  i  beffardi,  che  facevan  magari  spiritose  parodie  di 
questi  judict^):  ma  ciò  non  toglie  che  se  ne  stampasse  un  numero 
infinito  di  copie  2),  e  che  anche  i  Principi  commettessero  a'  loro  am- 
basciatori di  comperare  quanti  ne  uscivano  ^).  Orbene  l'Aretino,  con 
uno  di  que'  presentimenti  di  modernità  onde  lo  Chasles  vide  in  lui 


^)  Il  cod.  mare.  cit.  a  e.  134  v.  ne  ha  una  graziosa,  tutta  predizioni  burlesche, 
che  finisce  cosi:  «  Li  astrologi  diranno  quest'anno  più  busie  assai,  et  non  seguirà 
*  uno  quarto  di  quello  haranno  ditto.  » 

*)  Cfr.  FuLiN,  Nuovi  doc.  per  servire  alla  si.  della  tipogr.  venez.  in  Arch.  Ve- 
neto, tomo  XXIII,  parte  II.  Nell'inventario  d'un  fondo  librario  del  1480  che  egli 
reca  figurano  molti  Jiidicii,  per  il  prezzo  di  2,  4  e  al  più  5  soldi. 

')  Sigismondo  Golfo  scriveva  da  Ferrara  ad  Isabella  d'Este  il  7  gennaio  1494: 
€  Ha  vendo  m.'"'*  Petro  Bono  Ad  voga  rio  compilato  uno  judicio  de  le  cose  che  hanno 
€  a  succedere  in  lo  anno  presente  me  è  parso...  farlo  transcrivere  et  mandarlo  a 

<  la  Ex.  V.  »  —  Dello  stesso  Advogario  inviava  un  judicio  al  marchese  Fran- 
cesco nel  1499  (24  dicembre)  un  Pietro  del  Bruno:   «Essendo  andato  a  visitare 

«  maistro  Pietro  Bon  da  l'Avogaro sciapendo  che  quella  è  desiderosa  di  ve- 

«  dere  li  Juditij   gè  ne  adimandai  uno  per  la  S.  V.  et  così  gè  lo   mando  et  un 

<  altro  per  Madonna  Marchesana;  benché  non  sia  costume  de  darli  fora  se  non 

<  lo  primo  di  Vanno  tuttavia  lui  me  l'ha  dato  molto  volentieri.  »  —  Egual- 
mente l'ambasciatore  Angelo  Germanello  scriveva  da  Roma  5  genn.  1523  al  mar- 
chese Federico:  «  Mando  doi  Judicij  ad  la  Ex.  V.  li  quali  son  de  li  primi  che 
«  siano  dati  fora:  capitando  de  li  altri  li  mandarò  subito.  »  E  il  25  nov.  1525: 
«  Mando  ad  la  V.  Ex.  alligati  ad  questo  uno  judicio  novo  de  l'anno  futuro.  »  — 
Il  Marchese  poi  dava  quest'ordine  a  Francesco  Gonzaga  il  27  nov.  1526:  «  Ap- 
«  presso  se  sono  stampati  judicij  de  l'anno  futuro  mandaticine  uno  d'ogni  sorta 
«  di  quelli  che  verranno.  »  (cfr.  in  Baschet,  l.  e.  doc.  XXXI,  la  risposta).  — 
Fra  le  lettere  al  Bembo  ve  n'ha  una  di  Andrea  Garisendo  del  dicembre  1517 
che  dice:  «  Le  mando  un  altro  judicio  novo  di  un  nostro  valente  astrologo  bo- 
«  lognese  novaraente  pubblicato.  Vedrà  che  minaccia  assai  mali.  *  (cfr.  Gian,  Un 
decennio  della  vita  di  m.  P.  Bembo,  Torino  1885,  p.  146  n.).  —  Tre  giudizi,  del 
1517,  del  1522  (scritto  dal  Gaurico)  e  del  1524  son  riferiti  nelle  Storie  Senesi 
del  Tizio. 


acutamente  un  precursore  del  giornalismo  i),  comprese  per  primo  il 
partito  che  si  poteva  trarre  dall'uso  invalso  di  questi  giudizi^  dove 
se  ne  fosse  fatto  un  genere  nuovo,  lasciate  da  parte  le  astruse 
ciarlatanerie  degli  astrologi,  per  arrogarsi  invece  davvero  quel  giu- 
dizio su  tutto  e  su  tutti,  che  oggi  ha  elevato  la  stampa  a  un  potere. 
I  suoi  pronostici  erano  quindi  qualche  cosa  di  molto  simile  alle  ri- 
viste annuali  satiriche  de'  nostri  giornali  umoristici  :  non  si  fondavano 
già  su  vane  contemplazioni  del  cielo  e  degli  astri,  ma  erano  argute 
e  piccanti  divinazioni,  basate  nella  sua  larga  conoscenza  degli  uomini 
e  della  vita  contemporanea,  nell'abilità  di  sfruttare  il  pettegolezzo  e 
lo  scandalo,  i  secreti  di  anticamera  di  tutte  le  corti,  nel  suo  genio 
infine  di  libellista.  Ond'è  che  questi  giudizi  dell'Aretino  erano  cercati 
più  avidamente  d'ogni  altro  da'  Principi,  desiderosi  di  esservi  nomi- 
nati con  onore,  e  di  vedervi  lacerati  i  loro  nemici  ;  e  siccome  spesso 
colpivano  giusto,  ottennero  a  Pietro  —  egli  fu  naturalmente  il  primo 
a  conferirselo  —  persino  il  vanto  di  profeta. 

D'altronde  l'Aretino  non  aspettava  soltanto  l'epoca  fissa  del  ca- 
podanno per  emettere  i  suoi  giudizi  ;  via  via  che  gli  avvenimenti  si  pre- 
sentavano, ei  li  gettava  là  con  delle  lettere  in  foglietto  volante,  che 
anticipavano  gli  articoli  politici  de'  nostri  giornali,  e  ne  avevano  la 
prontezza,  l'opportunità,  l'acume,  lo  stile  incisivo  e  mordace  ^),  Nelle 
sue  lettere  è  facile  ravvisare  quelle  d'occasione  che  doverono  esser 


*)  Ph.  Chasles,  Étud.  sur  W.  ShaJcfpeare,  M.  Stuart  et  VArétin,  Parigi,  1851, 
p.  382. 

')  Quando  TAretino  era  nel  campo  di  G.  de'  Medici  il  Marchese  di  Mantova 
gii  scriveva,  7  ag.  1526:  «  Vi  ringratio  infinitamente  de  l'officio  che  fate  in  avi- 
«  sarmi  le  cose  che  accadono,  e  quanto  più  frequentarete  tal  officio  tanto  maggior- 
«  mente  vi  restarò  obbligato.  Et  pregovi  che  non  solamente  mi  avisate  le  cose 
«  che  accadono  ma  anche  li  pareri  et  juditii  vostri,  li  quali  saranno  extimati 
€  da  me  quanto  un  oracolo  proprio.  Di  questo  non  vi  potrei  pregare  più  di  core 
€  di  quel  che  faccio.  »  —  E  ancora  il  22  agosto:  «  Non  lego  mai  cosa  che  tanto 
€  mi  diletti  quanto  il  scriver  vostro,  maximamente  poi  che  per  amor  mio  vi  ha  veti 
€  lassato  intrar  nel  capo  il  spirito  prophetico.  Che  si  ben  li  agenti  mei  che  sono 
«  in  campo  havessero  potuto,  il  che  non  potriano,  agguagliar  la  loro  diligenza 
<  con  la  vostra  in  scrivere  le  cose  che  occorreno  alla  giornata  et  che  si  vedeno 
€  publicamente,  non  posso  già  aspettar  né  da  loro  né  da  altri  quello  che  dal 
«  vostro  facondissimo  et  presago  ingegno,  dal  quale  intendo  così  ben  lo  advenire 
«  come  il  presente.  Et  però  tanto  più  vi  prego  che  perseverati  in  el  cominciato 
«  officio.  »  {Copialett.,  Lib.  287).  Il  qual  officio  si  rassomigliava  precisamente  a 
qaello  do'  nostri  giornalisti  in  tempo  di  guerra. 


—  7  — 

pubblicate  alla  spicciolata  ^)  :  e  l'intero  epistolario  in  sei  volumi  rap- 
presenta quasi  la  collezione  degli  articoli  quotidiani  di  questo  mera- 
viglioso giornalista,  che  seppe  imporsi  al  suo  tempo,  attinger  larga- 
mente a'  fondi  segreti  di  tutte  le  corti,  crearsi  de'  tributari,  degli 
abbonati  tra'  Principi,  dominare  letterati  ed  artisti  in  ricambio  di 
reclame  e  per  solidarietà  di  combriccola. 

Preoccupando  sempre  l'opinione  pubblica  —  e  interpretandola  spesso 
—  con  i  giudici  su  ogni  fatto  più  in  vista,  l'Aretino  raggiunse  una 
grande  popolarità,  perchè  quegli  scritti  volanti  si  vendevano  e  grida- 
vano per  le  vie:  e_ nella  scena  IV  del^ijn^att<LilellaL.£or^(aw^^ 
quel  fur£anta-clia--g£Jide_^istorie,  par  giàjli_se.ntire  il  venditore  giro- 
vago  di  giornali,  il  nostro  strillone.  «  A  le  belle  istori e^  istorie,  istorie, 
«  la  guerra  del  Turco  in  Ungheria,  le  prediche  di  Fra  Martino,  il 
«  Concilio,  istorie,  istorie,  la  cosa  d'Inghilterra,,  la  pompa  del  Papa 
«  e  de  l'Imperatore,  la  circumcision  del  Vaivoda,  il  sacco  di  Roma, 


*)  Per  es.  nel  primo  libro  quelle  a  Re  Francesco  sulla  battaglia  di  Pavia,  al- 
l'Albizzi  sulla  morte  di  Giov.  de'  Medici,  al  Papa  e  all'  Imperatore  sul  sacco  di 
Roma,  ai  signori  Veneziani  (p.  269),  ecc.  Quest'ultima,  a  stampa  in  foglietto  vo- 
lante, si  trova  nel  Cod.  Ambrosiano  H.  245  in  f.  con  a  tergo  l'indirizzo,  di  pugno 
dell'Aretino  stesso,  ad  Agostino  Ricchi.  —  Era  forse  dell'Aretino  un  giudizio 
sulla  morte  di  Leone  X  che  l'Equicola  comunicava  al  Marchese  Gonzaga;  Man- 
tova, 12  febr,  1522:  «  Mandoli  questo  iudicio  facto  perla  morte  di  Papa  Leone 
sancta  memoria.  V.  S.  il  veda  che  ne  harà  piacere.  »  —  L'Aretino  era  già  assai 
conosciuto  pel  suo  genio  satirico,  e  ne  è  prova  una  lettera  bizzarra,  conservata 
all'Archivio  di  Firenze  fra  le  carte  strozziane  (filza  133,  a  e.  255,  che  si  com- 
pleta con  la  e.  114  àeìVApp.  IX).  Pietro,  che  dopo  l'elezione  di  Adriano  VI  s'era 
ritirato  a  Firenze  col  cardinal  Medici,  finge  di  ricever  notizie  di  Roma  dall'amico 
Pasquino;  il  quale,  in  data  31  luglio  1522  gli  scrive:  «  Aretino  carissimo  sa- 
«  Iute  ecc.  Quanto  dolore  abbia  accresciuta  la  vostra  partita  da  Roma,  m"  Pa- 

«  squino  il  sa  et  mai  à  fatto  parola  et  porta  la  gramaglia Et  per  mia   fé 

«  che  gli  avete  renduto  ingratitudine,  che  sapete  quanto  utile  et  honore  vi  à 
«  dato.  Pure  Roma  meterà  questa  con  l'altre  isventure,  e  se  non  fussi  che  le  pro- 
«<  cessione  li  danno  alquanto  di  consolatione  per  la  imbarcatione  del  Papa  s'im- 

«  picherebbe »  Prosegue  descrivendo  umoristicamente  una  di  queste    ladre  e 

divote  processioni,  in  cui  dice  esser  state  portate  attorno  delle  strane  reliquie: 
«  la  schufia  de  l'Unico  Aretino  quondam  S^e  ^j  Nepi,  il  brachiere   de  Flischo, 

«  la  cintura  della  mammà  di  Trani, la  statua  equestre  del  S^'e  Renzo  (di  Ceri) 

«  intagliata  di  pane  fresco, la  palota  la  quale  fu  cavata  da  la  natica  al  conte 

«  Anibale  (Bentivoglio  ?)  a  le  mura  di  Bologna,  il  bubone  di  Colonna  ecc.  » 

Finisce  con  l'irridere  agli  sforzi  impotenti  che  si  facevano  per  soccorrere  i  valo- 
rosi difensori  di  Rodi,  onde  si  erano  —  dice  —  spedite  «  sino  agli  antipodi  staf- 
«  fete  per  agunare  i  signiori  cavalieri  erranti.  » 


«  l'assedio  di  Fiorenza,  lo  abboccamento  di  Marsilia  con  la  conclu- 
«  sione,  istorie,  istorie,  »  In  un  dispaccio  di  Jacopo  Malatesta  amba- 
sciatore mantovano  a  Venezia  troviamo  la  seguente  curiosa  notizia: 
«  È  anche  in  questa  terra  un  povero  homo  che  va  vendendo  li  giu- 
«  ditij  per  Rialto,  che  parmi  bavere  un  humore  malinconico  più 
«  presto  che  altrimente,  el  quale  si  è  obligato  alla  111."*  S."*  voler 
«  perdere  la  testa  se  per  le  prime  lettere  che  veneno  di  Lautrech 
«  non  si  ha  nova  che  Francesi  habbin  rotti  spagnoli  »  (Venezia, 
19  marzo  1528).  —  Vediamo  così  disegnarsi  chiaramente  le  forme 
rudimentali  della  stampa  periodica  :  e  l'Aretino  è  come  l'Omero  nella 
folla  oscura  ed  anonima  de'  primi  giornalisti. 

Sugli  ultimi  del  1526  essendo  dunque  a  Mantova,  l'Aretino  non 
mancò  di  fare  il  suo  giudizio  per  l'anno  nuovo:  e  l'intitolò  in  nome 
di  Pasquino  al  Marchese  di  Mantova.  Ce  ne  rimane  appena  un  fram- 
mento: però  da  lettere  posteriori  del  Gonzaga  sappiamo  che  gli  av- 
venimenti seguirono  così  conformi  alle  predizioni  dell'Aretino,  che 
quello  poteva  ben  dirsi  «  il  più  veridico  judicio  »  fosse  stato  «  fatto 
già  molti  anni  »  e  l'autore  esser  tenuto  per  «  il  miglior  astrologo 
che  sia  »,  per  «  propheta  divino  !  »  ^).  Questo  frammento  lo  troviamo 
nel  prezioso  codice  marciano  già  ricordato  e  che  avremo  più  volte  a 
citare  (CI.  XI,  it.  n.«  LXVl)  a  carte  255  v: 

Judicio  over  pronostico  de  mastro  Pasquino  quinto  evangelista  del  anno  1527. 

Al  S.  Marchese  de  Mantova  Petro  Aretino 

Signore,  la  castronaria  del  Gaurico  et  di  quel  bestiolo  che  sta  col  conte  Ran- 
gone  et  gli  altri  giotti  ribaldi,  vituperio  de  le  prophetie,  m'hanno  questo  anno 
fatto  diventare  philosopho:  a  la  barbacela  di  quella  pecora  de  Abumasar  et  di 
Ptolomeo  io  ho  composto  il  judicio  del  1527  et  non  sarò  bugiardo  come  son  li 
sopraditti  manigoldi,  che  la  minore  et  di  meno  importanza  menzogna  che  habino 
detto  è  stato  il  diluvio,  per  cui  dubitando  il  focho  s'aparechiò  a  diffendere  Thonor 
suo  nel  Cardinale  de  Monte  et  Rangone  et  omnium  prelatorum.  Io  non  son  per 
dirvi  così  a  minuto  ogni  favola, ma  toccheremo  de  cose  più  importante;  siche  le- 
gete et  credete  et  nolite  timere,  perchè  sete  tropo  homo  da  bene  maxime  a  questi 
tempi. 

Capitolo  primo  de  la  dispositione  del  aere  et  introiti  del  sole.  Secondo  la  op- 
pinione  di  moderni  interpreti  dei  pianeti,  dico  de  Zulian  Leni  et  Ceccotto  geno- 
vese, lo  introito  del  sole  sarà  ne  la  prima  taverna  ch'egli  troverà,  chome  il  ma- 
nigoldo appare,  et  usciranne  irabriaco   in    termine   di   otto   giorni  al  meridiano 


')  Dee.  in,  XIV. 


-  9  — 

vostro  horologio  di  Mantua.  L'aere  sarà  molto  disposto  a  corrompersi  per  la  fe- 
tida materia  dei  piedi  et  fiato  de  todeschi  tracannanti  in  vino  italico.  La  quarta 
de  la  primavera  (secundo  Thoraaso  Philologo  da  Ravenna)  sarà  ventosa  come  el 
sexo  di  Jacomo  da  San  Secondo.  Et  haveremo  neve  et  brine  frigidissime  le  quali 
dannificheranno  molto  i  seminati  et  frutti  et  le  quatrupedi  bestie,  et  saranno  di 
gran  naufragio  a  li  hortagii  ducali  nel  ferrarese,  così  a  li  armenti  del  detto.  Et 
porta  periculo  de  infetarse  i  bovi,  pecore  et  castroni  de  Jacopo  Salviati  et  de  l'Ar- 
mellino.  Il  Duca  de  Camerino  pecoraro  aumenterà  oves  et  boves  de  l'aer  tempe- 
perato (Manca  il  seguito) 


Come  si  vede,  l'Aretino  comincia  col  deridere  il  Gaurico  ^)  ed  un 
altro  astrologo;  poi  allude  bizzarramente  al  gavazzare  che  le  orde  te- 
desche avrebbero  fatto  nella  povera  Italia,  e  di  questo  passo  con  ori- 
ginali scappate  satiriche,  che  oggi  in  parte  ci  sfuggono,  doveva  segui- 
tare accoccandola  a  tutti,  specialmente  al  Papa,  Cardinali,  Prelati. 
Per  modo  che  quando  quel  «  libretto  »  fu  conosciuto  a  Roma,  si  restò 
indignati  e  sorpresi  di  vederlo  dedicato  al  Marchese  di  Mantova,  ca- 
pitano della  Chiesa  ;  e  il  confessore  del  Papa  andò  a  farne  rimostranze 
all'ambasciatore  Francesco  Gonzaga  2).  Il  Marchese,  che  aveva  pur  tro- 
vato in  quel  giudizio  tante  belle  cose,  fece  rispondere  di  non  saperne 
nulla  e  di  aver  già  bruscamente  licenziato  l'Aretino,  respingendo  le 
insistenti  sollecitazioni  con  cui  s'era  esibito  per  suo  cortigiano.  L'aveva 
tollerato  dopo  la  morte  di  Giovanni  de'  Medici,  e  aveva  talvolta  pre- 
stato orecchio  per  svago  alle  sue  composizioni  ;  ma  non  aveva  per  si- 
mile bestia  una  tenerezza  qualsiasi...  e  si  offriva  bellamente  di  farlo 
ammazzare  con  un  buon  colpo  sicuro  e  discreto,  di  cui  non  sarebbe 
trapelato  mai  nulla.  Se  l'Aretino  è  scappato  dalle  mani  d'altri  — 
conchiudeva  il  cancelliere  gonzaghesco  la  sinistra  e  tortuosa  pro- 
posta —  non  scapperà  dalle  nostre.  Roma  era  alla  vigilia  del  sacco, 
e  questa  lettera  non  fu  certo  recapitata.  Sarebbe  stato  edificante  sen- 


*)  Sul  Gaurico  a  cui  la  professione  dell'astrologia  giudiziaria  non  impedì  di 
diventar  vescovo  veggansi  Tiraboschi,  St.  d.  leti,  il,  Venezia,  1824,  VII,  650 
e  un  articolo  del  Ronchini  negli  Atti  e  Mem.  delle  EB.  Beput.  di  st.  patria 
per  le  prov.  modenesi  e  parmensi,  voi.  VII,  fase.  1.  —  Del  Gaurico  ho  trovato 
nell'Arch.  Gonzaga  un  giudizio  del  1509,  diretto  al  marchese  Francesco,  vera- 
mente ridicolo.  Gli  predice  infatti  un'infinità  di  belle  cose,  proprio  per  quell'anno 
in  cui  il  Marchese  venne  imprigionato  da'  Veneziani I....  «  Et  questa  sua  opinione 
«  la  fortifica  con  voler  far  gagliarde  scomese.  »  (lett.  di  Girolamo  Casio  a  Isa- 
bella d'Este;  Bologna  27  febr.  1509). 

*)  Dog.  il 


—  10  — 

tire  la  risposta  da  parte  del  Papa  all'offerta  del  Marchese,  che  ci  dà 
il  miglior  documento  delle  relazioni  dell'Aretino  co'  Principi  del  suo 
tempo.  Lo  accarezzano,  lo  pagano  e  gli  preparano  nell'ombra  il  pu- 
gnale. Buon  per  lui  che  era  partito  già  da  Mantova  per  Venezia,  e 
il  Marchese  che  poi  si  mostrava  così  volonteroso  sicario  aveva  fornito 
all'Aretino  i  mezzi  del  viaggio:  cento  scudi,  del  broccato  e  del  raso  !  ^). 


IL 


L'Aretino  arrivò  a  Venezia  il  25  marzo  1527  ^),  ed  entrando  nella 
meravigliosa  città  delle  lagune  nulla  poteva  fargli  presentire  che  non 
ne  sarebbe  mai  più  partito,  che  vi  sarebbe  rimasto  per  quasi  trent'anni, 
stendendo  di  là,  come  da  covo  sicuro,  le  sue  reti  su  tutte  le  corti  ita- 
liane, instaurandovi  il  suo  incontrastato  dominio  di  avventuriero. 

Infatti  l'Aretino  era  andato  a  Venezia  senza  idea  prefissa  di  stabi- 
lirvisi,  ma  solo  per  vaghezza  di  nuovi  luoghi  e  in  cerca  di  fortuna. 
Da'  registri  di  lettere  del  marchese  Gonzaga  non  appare  menomamente 
che  l'avesse  raccomandato,  come  è  stato  asserito,  al  Doge  Gritti  od 
anche  al  suo  ambasciatore  Malatesta  :  l'Aretino  partendo  da  Mantova 
vi  aveva  lasciato  i  cavalli  ^),  che  gli  avevan  servito  nel  campo,  quand'era 
a  fianco  di  Giovanni  de'  Medici  ;  e  si  ri  serbava  certamente  di  ripren- 


^)  «  Cento  scudi  et  cert'altre  cose  »  dice  il  cancelliere  (doc.  II);  e  l'Aretino 
{Lettere,  I,  10)  del  24  aprile  1527  scrive  al  Cavalier  da  Fermo  (Guerrieri): 
«  Se  voi,  signor  Vincenzo,  quando  per  parte  di  sua  Eccellenza  mi  deste  i  cento 
«  scudi,  il  broccato  et  il  raso,  mi  haveste  veduto  il  cuore...  non  vi  maraviglia- 
«  vate  punto  del  mio  non  haver  fatto  motto  nel  ricever  Toro  e  la  seta ,  perchè 
*  interponendosi  la  indegnità  mia  a  la  splendida  bontà  del  Marchese  di  Mantova, 
«  tocca  dalla  coscienza  del  suo  poco  merito,  si  vergognò  ecc.  » 

')  In  una  lettera  del  25  marzo  1537  (1,  83)  scrive:  «  questo  giorno  fornisce 
«  i  dieci  anni,  che  io  ricovrato  sotto  il  lembo  de  la  clemenza  venetiana  l'ho  ce- 
<  lebrata  sempre.  » 

')  Lett.  all'ab.  Gonzaga,  da  Venezia  8  giugno  1527  (I,  14):  «  Si  degnerà  la 
«  S.  V.  di  accettar  in  dono  il  barbaro  giovanetto,  che  io  venendo  qui  lasciai 
«  nella  stalla  di  quella,  perchè  la  città  mi  è  talmente  piaciuta,  che  bisogna  che 
«  me  ne  procacci  uno  di  legno,  s'io  voglio  cavalcar  per  queste  acque.  » 


—  11  — 

derli  al  ritorno,  sia  che  il  Marchese  avesse  al  line  consentito  di  tener- 
selo in  corte,  o  da  Venezia  avesse  preso  le  mosse,  come  disegnava  più 
tardi,  per  andare  in  Francia.  Appoggi  potenti  a  Venezia  non  aveva 
dunque  :  ]ion  vi  era  tuttavia  affatto  ignoto,  perchè  da  Koma  il  nome 
dell'Aretino,  del  portavoce  di  Pasquino,  dell'autore  de'  giudizi^  si  era 
sparso  per  tutta  Italia;  e  il  buon  Sanudo  ^),  infaticabile  sempre,  in 
un  suo  zibaldone  di  poesie,  aveva  trascritto  parecchi  sonetti  dell'Are- 
tino e  in  lode  di  lui  ;  ed  uno  tra  gli  altri  in  cui  Pasquino  piangeva 
la  partenza  del  suo  Pietro,  costretto  ad  andare  ramingo  per  aver  osato 
dire  la  verità  di  vili  favoriti  nella  corte  pontificia  2). 

Poco  dopo  il  suo  arrivo,  l'Aretino  ebbe  la  fortuna  d'incontrar  Ti- 
ziano, di  stringersi  con  lui  di  quell'amicizia,  quella  camaraderie  sin- 
golare che  doveva  durar  per  la  vita,  e  che  allora  nella  condizione 
precaria  in  cui  si  trovava  potè  forse  più  di  tutto  decidere  l'Aretino 
a  fermarsi  in  Venezia.  Solo  tre  mesi  dopo  egli  può  mandare  al  Mar- 


1)  A  proposito  del  quale  in  un  dispaccio  dell'amb.  Malatesta  s'incontra  questa 
notizia  stranissima  (29  genn.  1529):  «  Il  Sanuto  è  gentilissimo,  come  ha  parlato 
«  tre  volte  con  una  persona  lo  afrunta  che  lo  impali,  et  è  doto  et  saria  in  re- 
«  putatione  in  questo  stato  se  non  fusse  tale  vitio.  Io  solea  haver  uno  servitore 
«  al  quale  gli  donava  tre  mozenighi  la  septimana,  ma  era  obligato  correre  le 
«  lanze  tre  volte.  Costui  è  famosissimo  nel  mestiero  qui.  » 

')  È  il  cod.  marciano  CI.  IX  it.  n*»  369,  tutto  di  pugno  del  Sanudo.  Vi  si  tro- 
vano parecchi  sonetti  dell'Aretino ,  che  avremo  occasione  di  citare ,  0  a  lui  rife- 
rentisi;  fra'  quali  il  seguente,  che  dovè  esser  scritto  su'  primi  del  1526,  poco  dopo 
la  partenza  di  Pietro  da  Roma,  in  seguito  alla  pugnalata  di  Achille  della  Volta. 
n  sonetto  è  a  e.  171  v: 

Pasquin  quest'anno  l'Aretino  ha  perso 
Né  per  lui  è  chi  dica  sua  ragione, 
Se  inteso  non  sarà  da  le  persone 
Il  suo  dir  elegante  ornato  e  terso. 

La  colpa  non  è  sua,  perchè  a  riverso    . 
Vide  ogni  cosa  andar  senza  ragione 
E  per  difetto  de  un  mulo  poltrone 
Di  Roma  fu  caciato  e  va  disperso. 

Per  dir  la  verità  d'uno  sfratato, 
D'uno  ch'à  facto  di  suo  e...  tanto 
Che  ascese  al  grado  del  datariato. 

E  se  la  lingua  sua  rafrena  alquanto 
E  per  paura  che  Achilìe  li  ha  dato 

È  lo  stesso  codice  in  cui  il  Sanudo  ci  ha  lasciato   un  primo   saggio    di   biblio- 
grafia dei  poemi  cavallereschi,  cfr.  Giornale  storico  dsJla  leti,  it,  V,  181  e  sgg. 


—  12  — 

chese  di  Mantova  il  suo  ritratto  eseguito  da  Tiziano^):  inaugurando 
quella  società  di  mutuo  profitto,  in  cui  il  sommo  artista  metteva  i 
suoi  stupendi  lavori,  e  l'Aretino  la  sua  abilità,  la  sua  influenza  di 
giornalista,  mediatore  co'  Principi,  dispensiere  di  fama.  Non  è  a  me- 
ravigliare che  Tiziano  subisse  così  di  primo  acchito  l'ascendente  del- 
l'Aretino, quando  si  pensi  alla  simpatia  irresistibile  che  dovevano 
esercitare  le  sue  qualità  geniali  straordinarie  ^)  ;  quando  si  tenga  conto 
del  grande  sentimento  artistico  di  Pietro  —  quale  molti  critici  d'oggi, 
che  vanno  per  la  maggiore,  potrebbero  invidiargli  —  ;  quando  si  sappia, 
-cosa  ignorata  finora,  che  anch'egli  aveva  esordito  come  pittore  a  Pe- 
rugia 3).  E  un  pittore  mancato  poteva  allora,  meglio  che  oggi,  im- 
pancarsi a  critico.  Ma  v'è  di  più:  Tiziano  non  era  ancora  stato  a 
Roma,  e  quindi  doveva  avere  per  lui  speciale  attrattiva  la  conoscenza 
dell'Aretino,  che  col  suo  linguaggio  caldo,  colorito  gli  portava  le  im- 
pressioni fresche,  vivaci  di  tante  meraviglie  dell'antichità  e  dell'arte 
contemporanea  ;  lo  metteva  nel  segreto  della  perfezione  raggiunta  da 
que'  grandi  pittori  con  cui  l'Aretino  era  vissuto  in  molta  intimità  in 
casa  Chigi,  alla  corte  di  Leone  e  di  Clemente.  Senza  dire  che  l'Are- 
tino nel  non  breve  soggiorno  a  Mantova  aveva  potuto  ammirare  le 
grandiose  concezioni  che  Giulio  Eomano  andava  prodigando  ne'  pa- 
lazzi del  Marchese:  e  tutto  ciò  formava  argomento  pe'  piti  geniali 
colloqui  tra  lui  e  Tiziano.  Al  quale  intanto  l'Aretino  mostrava  come 
bisognava  fare  per  imporsi  alle  grazie  de' Principi;  e  de'  dipinti  man- 
'dati  al  marchese  Gonzaga  divisero  il  premio  a  metà,  perchè  Pietro 
da  buon  sozio,  appena  avuta  la  sua  parte,  insistè  vivamente  perchè 
il  pittore  non  fosse  dimenticato  *). 

Quel  primo  ritratto  dell'Aretino,  fatto  da  Tiziano,  è  andato  perduto 
con  l'altro  dell'Adorno  ;  ma  i  recenti  biografi  del  Vecellio  ^)  hanno 
creduto  che  in  una  tela  posseduta  dal  conte  Giustiniani  di  Padova 
possa  ravvisarsi  «  il  primo  studio  del  ritratto  dell'Aretino  che  fu  sì 
accuratamente  mandato  a  Mantova  ».  —  Benché  abbrunita  e  guasta 


*)  Doc.  V.  —  Cfr.  lettera  di  Tiziano  al  march.  Gonzaga  da  Venezia,  22  giu- 
gno 1527,  in  Cavalcaselle  e  Crowe,  Tiziano,  la  sua  vita  e  i  suoi  tempi  (Fi- 
renze 1877;  I,  284)  e  Braghirolli,  Tiziano  alla  corte  dei  Gonzaga  in  Atti  del 
ì Accademia  Virgiliana,  Mantova,  1881,  p.  68. 

*)  Su  che  vedi  qualche  buona  osservazione  del  Panzacchi  in  un  suo  scritto,  del  resto 
mediocre,  premesso  al  grottesco  dramma  di  Paulo  Fambri  (P.  A.,  Milano  1887). 

')  Vegggasi  Appendice,  I. 

*)  Doc.  VII. 

')  Cavàlcabelle  e  Crowe,  op.  cit.,  p.  287. 


-     18  — 

dal  tempo  e  da'  ristauri,  soggiungono,  «  rappresenta  senza  dubbio  le 
«  fattezze  dell'Aretino  da  giovane,  in  cui  spicca  il  bel  naso  aquilino, 
«  l'occhio  grande  e  aperto,  la  fronte  alta  e  spaziosa,  circondata  da  una 
«  foresta  di  capelli  spessi  e  ricciuti.  Sotto  la  folta  barba  nera  vedesi 
«  il  collare  della  bianca  camicia.  Indossa  una  veste  con  rivolto  di 
«  pelliccia  e  il  giustacuore  di  colore  scuro.  » 

V'è  però  un  sonetto  dell'Aretino,  che  può  forse  escludere  questa 
identità,  poiché  ci  mostra  che  il  suo  primo  ritratto  eseguito  da  Ti- 
ziano lo  presentava  in  atto  di  gettare  l'alloro  :  e  non  v'ha  dubbio  che 
si  tratti  del  dipinto  mandato  a  Mantova.  11  sonetto  è  nel  cod.  mar- 
ciano, CI.  XI,  it.  n°  LXVI  a  e.  435  r,  con  questa  didascalia:  «  P.  Are- 
tino pel  suo  ritratto  dipinto  che  zetta  la  laurea  girlanda.  » 

Togli  il  lauro  per  te,  Cesare  e  Omero, 

Che  impera tor  non  son,  non  son  poeta, 

Et  lo  stil  diemmi  in  sorte  il  mio  pianeta 

Per  finger  no,  ma  per  predire  il  vero. 
Son  FAretin,  censor  del  mondo  altero,        ,  » 

Et  de  la  verità  nuncio  e  propheta, 

Chi  ama  la  virtù  con  faccia  lieta, 

Di  Titian  contempli  il  magistero. 
Et  quel  ch'idol  s'ha  fatto  il  vicio  borrendo 

Chiuda  per  non  vedermi  gli  occhi  suoi, 

Che  anchor  ch'io  sia  dipinto  io  parlo  e  intendo. 
Federico  Gonzaga,  io  adoro  voi 

Et  il  signor  Giovanni  anchor  tremendo: 

Ch'altri  non  c'è  che  '1  meriti  tra  noi. 

Mentre  l'Aretino  posava  pel  suo  ritratto,  Koma  era  a  fuoco  e  sacco  ; 
e  dinanzi  a  questo  avvenimento,  che  lasciava  percossa  ed  attonita  tutta 
Europa,  egli  non  poteva  tacere  :  interprete  della  commozione  pubblica, 
scrisse  subito  il  suo  giudizio,  il  suo  articolo,  in  forma  di  lettere  al 
Papa  e  all'Imperatore  ^).  A  Cesare,  magnificando  la  straordinaria  for- 
tuna, che  gli  dava  prigioniero  il  Pontefice,  quando  ancora  non  era 
«  ben  rinchiuso  il  carcere  »  di  Ee  Francesco,  dirigeva  esortazioni  alla 
clemenza,  perchè  la  rovina  non  procedesse  più  oltre,  perchè  non  incru- 
delisse nel  castigo  di  cui  Dio  l'aveva  fatto  strumento  sul  suo  vicario; 
—  e  al  Papa,  con  una  compunzione  che  fa  sorridere  nell'Aretino,  con- 
sigliava di  rivolgersi  «  a  Gesìi  con  i  preghi  e  non  a  la  sorte  con  le 
querele  ».  Era  necessario  che  «  la  licentia  de  i  peccati  del  Clero  » 


1)  Lettere,  I,  11-12. 


—  14  — 

fosse  scontata  dal  sommo  pastore  ;  e  Clemente  doveva  sommettersi  a'  de- 
creti di  Dio,  che  dandolo  in  mano  all'Imperatore  gli  additava  chiara- 
mente di  congiungere  ormai  «  le  voglie  papali  con  i  voleri  cesarei  », 
e  uniti  rivolgere  «  la  catholica  spada  inverso  il  fiero  petto  de  l'Oriente.  » 

Ma  assai  più  notevoli  sono  le  due  composizioni  poetiche,  una  can- 
zone e  una  frottola,  che  sul  sacco  di  Koma  l'Aretino  indirizzò  al  Mar- 
chese di  Mantova  ^).  Malgrado  le  improprietà,  le  scorrettezze,  ed  anche 
qualche  stramberia  della  forma,  la  sua  canzone  ha  tratti  vigorosi,  elo- 
quenti di  commozione  sentita  ^)  :  quella  Eoma  ingrata,  a  cui  egli  stesso 
aveva  predetto  ed  augurato  lo  sterminio,  l'Aretino  l'amava  con  cuore 
di  artista,  vi  aveva  passato  i  più  begli  anni  della  giovinezza,  ed  ora 
airappronderne  la  vera  lacrimevole  rovina  si  sollevava  di  patriottico 
sdegno  '^),  a  sfogare  il  quale  —  diceva  —  sarebbe  ben  bisognato  che 
le  parole  fossero  spiedi  e  archibugi.  Egli  descrive  con  efficacia,  benché 
un  po'  di  maniera,  lo  spettacolo  orrendo  della  città  saccheggiata,  chiede 
atterrito  a  Dio  come  mai  abbia  permesso  tante  nefandezze  contro  i  suoi 
santuari,  le  sue  vergini;  e  in  un'apostrofe  a  Carlo  V  lo  scongiura 
perctìè  richiami  le  sue  barbare  schiere,  rialzi  la  Koma  de'  Cesari  e 
pensi  infine  a  pacificare  l'Italia  e  il  mondo,  acciò  tanto  sangue  sparso 
non  abbia  a  gridare  vendetta  ne  a  sollevargli  addosso  tutta  l'Europa 
in  uno  sforzo  estremo  e  disperato  contro  la  sua  strapotenza.  —  La 
canzone  termina  mestamente  col  prostrarsi  sulla  tomba  di  Giovanni 
de'  Medici,  dopo  la  cui  morte  Roma  non  fu  più  nostra. 

Chi  lo  direbbe?  Mentre  l'Aretino  piange  ed  invita  a  piangere  l'ec- 
cidio della  commun  patria,  più  miserando  della  rovina  di  Gerusa- 
lemme, di  Troia,  di  Cartagine,  e  la  sciagura  di  tanti  incliti  spiriti, 
fuggiti  da  Roma  a  mendicare  per  l'Italia  ;  insieme  all'elegia  commossa 


1)  Doc.  IV,  V. 

')  Freddissima  e  scolorita  al  confronto,  checché  dica  il  Virgili,  op.  cit,  p.  178» 
è  la  descrizione  del  sacco  che  fa  il  Berni  neìV  Orlando  Innamorato. 

')  Nel  cit.  cod.  Sanudo,  a  e.  193  r,  si  ha  anche  traccia  di  poesie  dell'Aretino 
contro  il  Cardinal  Pompeo,  dopo  l'insulto  dei  Colonnesi: 

Visto  ho  i  sonetti  di  Pietro  Aretino 
Con  l'usato  suo  stil  sdegnoso  e  intento 
A  dir  le  meraviglie  e  '1  tradimento 
Del  Cardinal  Pompeo  fatto  assassino, 

Che  messo  ha  Cristo  e  i  suoi  santi  a  bottino, 
E  '1  lume  della  fede  ha  quasi  spento, 
Del  che  Sciarra  Colonna  hor  sta  contento 
Del  suo  parente  e  d'ogni  suo  vicino 


—  15  — 

e'  dà  fuori  la  pasquinata  insolente.  In  tanto  disastro  pubblico  l'Are- 
tino presenta  il  suo  compare  sempre  gaio  e  mordace  :  e  fa  raccontare 
a  Pasquino  il  brutto  quarto  d'ora  che  anch'esso  ha  passato  a  Koma. 
Capitato  tra  l'unghie  degli  spagnuolij  Pasquino  ne  ha  sofferto  di  tutte 
le  sorte  da  quegli  scherani  che  volevano  a  ogni  costo  cavargli  denari 
dal...  corpo;  e  s'è  salvato  come  d'incanto,  appena  da  un  suo  forziere 
nascosto  per  celia  ha  tirato  fuori  i  sonetti  del  profeta  Aretino.  Tutti 
anzi  allora  gli  hanno  fatto  festa,  ma  Pasquino  poco  fidandosi  di  quella 
razza  d'amici  è  scappato  di  soppiatto:  ed  eccolo  ora  a  sfogare  il  suo 
umore  contro  l'esercito  della  lega,  gentaglia  raccogliticcia,  tolta  alle 
vanghe,  debellatori  di  galline  e  ladri  di  villaggi,  che  lasciarono  as- 
sassinar Roma,  seguendo  a  rispettosa  distanza  i  lanzichenecchi  e  gli 
spagnuoli,  senza  osar  loro  precludere  la  via,  o  coglierli  e  massacrarli 
mentre  erano  intenti  alla  preda  dell'infelice  città.  Pasquino  non  dimen- 
tica il  Giberti,  il  nemico  dell'Aretino,  il  maldestro  politico  e  consigliere 

di  Clemente e  chi  sa  quant'altre  doveva  dirne,  descrivendo  il  sacco 

di  Roma  ^),  ma  nel  codice  marciano  la  frottola  Fax  vobis  è  incompleta. 
Pare  fosse  stampata  in  Siena:  e  sappiamo  da  un  amico  e  conterraneo 
dell'Aretino  '^)  che  il  Papa  nel  ricevere  quella  pasquinata  se  la  lasciò 
piangendo  cadere  di  mano  «  con  esclamare:  è  possibile  che  si  patisca 
«  che  un  Pontefice  si  laceri  in  sì  crudel  maniera?  Confessamo  il  torto 
«  fatto  a  l'Aretino,  e  il  comportammo  per  importarci  più  Gian- 
«  matteo,  ministro  de  i  nostri  secreti  che  lui,  che  in  luogo  di  amico  e 
«  non  di  servitore  lo  tenevamo »  E  già  Clemente,  nelle  ore  ango- 
sciose passate  in  Castel  S.  Angelo,  mentre  Roma  era  devastata,  aveva 
deplorato  —  se  si  ha  a  credere  a  Sebastiano  del  Piombo  —  che 
l'Aretino  non  gli  fosse  più  a  fianco,  e  non  avesse  potuto  più  in  tempo 


*)  Una  descrizione  sguaiata  ma  originalissima  del  sacco  di  Roma  è  nei  Ragio- 
namenti, seconda  giornata  della  2*  parte  (ediz.  Cosmopoli,  1660,  p.  262  e  sgg.); 
V.  Appendice,  II. 

^)  Leu.  sor.  al  sig.  P.  A.,  I,  409:  Girolamo  Montaguto  scrive  da  Roma  5  di- 
cembre  1527  (è  evidentemente  errata  nella  stampa  la  data  del  1537):  «  Messer 
«  Pietro,  io  son  vivo  e  non  lo  credo,  sì  mi  parse  esser  gettato  fuora  di  una  fi- 
«  nestra,  essendo  d'Arezzo,  nel  darsi  a  N.  S.  il  Pax  vobis  che  la  persuasione  de 
«  maligni  più  che  lo  sdegno  vi  ha  fatto  uscir  de  la  penna,  stampato  per  quel 
«  che  si  pensa  in  Siena.  E  così  vituperosa  novella  oimè  che  piangendo  se  lo  è 
«  lasciato  cader  di  mano  Sua  Beatitudine  ecc.  Per  Dio  che  se  bene  sono  decano 
«  de  i  camerieri  non  ardisco  e  tremo  andandogli  dinanzi  ;  sì  lo  avete  acorato  in 
«  la  vendetta  di  sì  strana  manifattura,  del  che  se  ne  dole  con  cotesta  Illustris- 
«  sima  Signoria  di  mala  sorte,  e  piaccia  a  Cristo  che  il  tutto  si  risolva  senza 
«  vostro  danno  e  dispregio.  » 


—  16  — 

sentire  il  libero  giudizio  di  quel  gazzettino  ambulante  :  e  tra  una  folla 
di  secretari  che  avevan  perduto  la  testa,  non  sapendo  come  scrivere 
una  lettera  opportuna  all'Imperatore,  Papa  Clemente  aveva  rimpianto 
la  penna  facile  e  brillante,  da  giornalista,  dell'Aretino  ^). 

E  qui  a  proposito  della  frottola  Fax  vohis  credo  appormi  al  vero 
ritenendo  che  il  famoso  sonetto  del  Berni  contro  l'Aretino  dovett' es- 
sere composto  in  questa  occasione,  come  una  replica  giustamente  san- 
guinosa allo  sguaiato  pasquillo  che  aveva  tanto  accorato  il  Pontefice. 
Verrebbero  così  interamente  rimosse  le  parecchie  difficoltà  incontrate 
dal  Virgili  nel  riporre  qualche  anno  più  tardi  questo  sonetto,  cioè 
nel  1531  2).  Nel  qual  anno,  come  si  vedrà  in  seguito,  l'Aretino  s'era 
riconciliato  col  Papa  e  col  Giberti,  e  al  contrario  l'aveva  rotta  col 
Gonzaga,  a  cui  il  Berni  nella  sua  rovente  invettiva  avventa  una  frec- 
ciata pungentissima  ^).  Ora  l'Aretino  nel  1527  non  solo  era  il  favo- 
rito del  Marchese,  ma  a  lui  precisamente  aveva  intitolato  quel  giu- 
dizio mordace  per  cui  il  Papa  aveva  fatte  delle  rimostranze,  nonché 
la  canzone  sul  sacco  di  Koma,  e  fors' anche  quella  stessa  frottola,  che 
certo  gli  aveva  inviato  e  il  Marchese  trovò  «  piacevolissima  ».  Dal 
sonetto  del  Berni  è  facile  ravvisare  che  egli  insorge  in  difesa  del  Papa 
e  del  Datario  ingiuriati  nella  loro  disgrazia; 

Il  Papa  è  Papa  e  tu  sei  un  furfante 

non  vuol  già  dire,  come  stiracchiatamente  è  costretto  a  interpretare 


*)  Leti.  scr.  alVA.y  I,  11-12:  «  Son  doi  giorni  —  scrive  Fra  Bastiano  il  15 
€  maggio  1527  —  che  Papa  Clemente,  mangiando  in  castello  piti  presto  pan  de 
€  dolori  che  vivande  magnifiche,  disse  con  un  sospiro  che  si  fece  sentire:  Se 
«  Pietro  Aretino  ci  fusse  stato  appresso,  noi  forse  non  saremmo  qui  peggio  che 
«  prigioni,  però  che  ci  avrebbe  detto  liberamente  ciò  che  si  diceva  in  Roma  de 
e  lo  accordo  cesareo  trattato  per  il  Feramosca  et  il  vice  Re  di  Napoli,  tal  che 
€  noi  non  avremmo  posto  la  nostra  buona  volontà  in  mano  de  tali.  *  —  E  più 
tardi:  «  Sua  Santità  ha  fatto  imporre  a  tutti  i  dotti  che  faccino  una  lettera  a  lo 
€  Imperatore,  recomandando  a  la  maestà  sua  Roma,  ogni  dì  saccheggiata  peggio 
€  che  prima;  e  il  Tebaldeo  insieme  con  gli  altri  serratisi  per  tal  cosa  in  gli  studi 
€  hanno  fatto  presentare  le  loro  lettere  a  nostro  Signore,  il  quale  lettone  quattro 
€  versi  per  una  le  gettò  là  con  dire  che  da  voi  solo  era  materia  tal  suggetto.  > 

')  Virgili,  op.  cit.,  p.  247  e  sgg.  —  Cfr.  la  sua  edizione  (Firenze  1885)  delle 
Rime,  poesie  latine  e  lettere  del  Berni,  p.  62. 

')  Sul  Marchese  di  Mantova  fa  anzi  un  bisticcio  osceno,  e  nel  1531  Federico 
Gonzaga  era  già  duca,  ond'è  men  plausibile  ancora  la  supposizione  del  Virgili. 
Cfr.  il  doc.  XLIV  che  prova  come  sui  primi  di  quell'anno  l'Aretino  avesse  già 
perduto  la  grazia  del  principe  mantovano. 


—  17  — 

il  Virgili,  assegnando  il  sonetto  al  1531,  che  l'Aretino  restava  sempre 
un  furfante,  malgrado  la  deplorevole  indulgenza  di  Clemente  nel  ri- 
conciliarsi con  lui  ^).  È  assai  più  naturale,  mi  sembra,  intendere  :  il 
Papa,  malgrado  le  sue  disgrazie  ed  anche  i  suoi  errori,  è  sempre 
Papa,  e  tu  resti  eternamente  un  figuro.  Così  gli  altri  versi: 

Giovammatteo  e  gli  altri  ch'egli  ha  presso 
Che  per  grazia  di  Dio  soh  vivi  e  sani 

convengono  mirabilmente  alle  traversie  passate  dal  Giberti  nel  1527, 
che,  dopo  il  sacco,  dato  in  ostaggio  agli  imperiali,  corse  pericolo  di 
esser  scannato  dalle  feroci  soldatesche,  e  riuscì  per  miracolo  nel  no- 
vembre a  ricuperare  la  libertà  ^).  Noi  sappiamo  che  la  frottola  Pax 
vobis  non  fu  conosciuta  a  Roma  prima  del  dicembre,  onde  nella  sua 
replica  il  Berni  poteva  ben  dire  con  gioia  che  il  suo  padrone  per  grazia 
di  Dio  era  vivo  e  sano  a  dispetto  dell'Aretino  ^). 

Si  vorrà  forse  obbiettare  che  costui  ne'  primi  tempi  a  Venezia  non 
poteva  aver  ancora  quella  corte  di 

leccapiatti 

BardasBonnacci,  paggi  da  taverna 

a  cui  accenna  il  Berni?  Ma  l'Aretino,  come  non  aveva  tardato  a  co- 
noscer Tiziano,  così  più  facilmente  potè  mescersi  alla  società  di  tutti 
i  buontemponi  e  cattivi  soggetti  che  pullulavano  in  Venezia,  e  de'  quali 


*)  Scrive  il  Virgili  che  «  in  quest'anno  1531  qael  verso  potrebbe  avere  anche 
«  questo  significato  terribile  (!!):  —  Il  Papa  di  cui  tu  vanti  la  protezione,  per 
«  non  essersi  vergognato  di  riconciliarsi  con  te,  sarà  sempre  ciò  non  ostante  Papa.  » 

')  Gkegorovius,  St.  della  città  di  Boma  nel  M.  E.,  trad.  it.,  Vili,  726. 

')  Se  nel  codice  marciano  il  Pax  vobis  fosse  completo,  potremmo  forse  trovarvi 
anche  la  ragione  di  que'  versi  del  sonetto  del  Berni,  allusivi  alle  sorelle  dell'Are- 
tino, pretese  meretrici  (cfr.  Luzio,  La  famiglia  diP.  A.  in  Giornale  storico  della 
letta.,  voi.  IV,  p.  369): 

Di  queste,  traditore. 
Dovevi  far  le  frottole  e  novelle 
E  non  del  Sanga  che  non  ha  sorelle. 

Cfr.  Virgili,  op.  cit,  p.  248.  —  Ho  messo  in  corsivo  in  que'  versi  la  parola 
frottole,  come  un  altro  lieve  indizio  che  la  replica  del  Berni  era  ad  una  frottola 
dell'Aretino. 

Lwzio  —  Pietro  Aretino  2 


—  18  — 

diventò  subito  il  capo  naturale.  Si  è  visto  che  dal  Marchese  di  Man- 
tova aveva  ricevuto  in  dono  l'occorrente  per  fare  ricchissime  vesti;  ed 
eran  proprio  quelle  che  il  Berni,  con  pittoresca  espressione,  dice: 

accattate  e  furfantate 

Che  ti  piangono  indosso  sventurate; 

le  stesse  probabilmente  con  cui  l'Aretino  posò  pel  suo  ritratto  dinanzi 
a  Tiziano. 


III. 


Fra  gli  artisti  che  il  sacco  di  Roma  aveva  disperso  per  l'Italia,  uno 
de'  più  riputati,  Sebastiano  del  Piombo,  era  riparato  a  Venezia  ;  e  l'Are- 
tino che  gli  era  amicissimo  adoperò  anche  per  lui  i  suoi  buoni  uffici 
di  mediatore  presso  il  Marchese  di  Mantova.  L'Aretino,  il  Tiziano  e 
il  Sanso  vino  s'erano  già  costituiti  in  quel  triumvirato  che  li  rese  in- 
separabili per  la  vita. 

I  piccoli  doni  mantengono  l'amicizia,  e  l'Aretino  si  ricordava  al  solo 
protettore  che  allora  avesse,  il  marchese  Gonzaga,  con  presenti  di  vetri 
di  Venezia  «  bellissimi  e  di  foggia  molto  nova  »  i);  e  come  aveva 
fatto  pe'  ritratti  di  Tiziano,  così  prometteva  di  procurargli  dal  Sanso- 
vino  «  una  Venere  sì  vera  e  sì  viva,  che  empie  di  libidine  —  scri- 
veva —  il  pensiero  di  ciascun  che  la  mira  »  2),  e  da  Sebastiano  del 
Piombo  un  quadro  di  bella  invenzione,  fuori  de'  consueti  soggetti  sacri, 
senza  cioè  che  vi  fossero  «  hipocrisie,  ne  stigmati,  ne  chiodi  »  ^).  Dal 
suo  canto  il  Marchese  di  Mantova  sovveniva  a'  bisogni  dell'Aretino, 
se  non  con  grande  larghezza,  con  molto  cortese  premura:  e  pe'  ritratti 


*)  Doc.  VI. 

«)  Lettere,  I,  13;  doc.  VITI. 

')  Così  le  prime  edizioni  delle  Lettere;  in  quella  di  Parigi  1609,  che  general- 
mente seguiamo,  la  frase  è  un  po'  smorzata,  sostituita  da  quest'altra  «  pur  che 
<  non  ci  sien  su  chietarie.  » 


—  19  — 

dei  Tiziano  mandò  a  donargli  una  ricca  veste;  a  una  domanda  di  ven- 
ticinque scudi  rispondeva  col  darne  cinquanta  ^).  Ma  ci  voleva  ben 
altro  per  uno  spensierato  scialacquatore  come  Pietro:  e  vedendo  che  a 
Venezia  gli  affari  non  s'avviavano  ancora,  come  avrebbe  desiderato, 
trovando  nel  Gonzaga  la  stessa  persistenza  a  schermirsi  dal  prenderlo 
in  corte,  l'Aretino  formò  il  progetto  di  recarsi  in  Francia.  Da  Gio- 
vanni de'  Medici  era  stato  già  presentato  a  Re  Francesco,  che  gli  aveva 
fatto  la  più  cordiale  accoglienza,  e  si  era  doluto  più  tardi  col  grande 
capitano  che  non  gliel'avesse  di  nuovo  condotto  2)  ;  e  l'Aretino  pensò 
che,  richiamandosi  alla  memoria  del  re  liberale  e  magnanimo,  non  gli 
sarebbe  stato  difficile  ridestarne  il  favore,  e  trovare  oltralpe  quella  for- 
tuna che  gli  sfuggiva  in  Italia. 

Un  mese  dopo  da  che  aveva  scritto  con  tanto  ossequiosa  deferenza 
i  suoi  giudizi  e  i  suoi  versi  per  l'Imperatore,  l'Aretino  indirizzò  per- 
tanto un'epistola  al  Re  di  Francia,  in  nome  d'Italia.  Ci  è  conservata 
anche  questa  dal  cod.  marciano  CI.  XI  it.  n<*  LXVI  ^):  ed  è  la  cosa 


4)  Doc.  VII. 

')  Leti.  scr.  al  sig.  P.  A.,  I,  6. 

')  A  carte  435  r  e  sgg.  —  È  uno  de*  Lamenti  cosi  in  uso  nella  poesia  poli- 
tica del  tempo: 

Italia  afflitta  nuda  et  miseranda 

Ch'or  de'  Principi  suoi  stancha  si  lagna 

A  te,  Francesco,  questa  cartha  manda. 
Offesa  m'hanno  i  miei  più  ch'Alamagna, 

Gli  miei  m'hanno  ferito  il  petto  tristo 

Et  di  lor  mi  doglio  io  più  che  di  Spagna. 
Et  però  dopo  il  scellerato  acquisto 

Di  Carlo  a  te  la  tua  divota  corre 

Specchiandose  ne  l'oltraggiato  Christo 

Vien  per  Christo  e  per  me  ch'ogniun  ti  brama 

Et  se  indugi  non  metti  al  degno  intento 

Verrai,  vedrai  e  vincerai 

Che  se  avvien  che  tu  venga  a  liberarlo 

Dirà  Pietro  contento  inanci  a  Dio: 

Vado  a  Roma  domane  a  incoronarlo 

Son  d'ossa  in  Roma  i  borgi  ancho  depinti, 

Fatto  è  stalla  di  Dio  l'excelso  tempio. 

Sono  in  catene  i  degni  huomeni  avvinti 

Termina  con  lodi  al  conte  Guido  Rangoni  e  al  Gonzaga,  a  cui  l'Aretino  mandò 
subito  copia  di  quest'epistola  (doc.  VI). 


—  20  — 

più  infelice  e  tediosamente  prolissa  che  si  possa  immaginare.  L'Italia 
vi  espone  in  una  serqua  interminabile  di  sciatte  terzine  i  suoi  dolori, 
le  sue  miserie,  dipinge  al  Cristianissimo  lo  stato  desolante  di  Roma, 
inveisce  contro  le  scellerate  vittorie  di  Carlo  V,  e  invoca  soccorso  dal 
Re  prode  e  cavalleresco,  suo  ultimo  rifugio.  —  Ma  fra  tanto  incal- 
zare di  avvenimenti  non  si  poteva  badare  all'Aretino  :  non  era  giunto 
il  tempo  in  cui  Francesco  I  e  Carlo  V  si  sarebbero  disputato  anche 
costui,  l'uno  tentando  di  legarlo  con  le  catene  d'oro,  l'altro  conqui- 
standolo con  assegni  di  annue  pensioni.  Malgrado  dunque  il  suo  cam- 
biamento improvviso  dalla  parte  imperiale  alla  parte  francese,  l'Are- 
tino nulla  ottenne  con  la  sua  epistola,  e  vide  bene  che  gli  bisognava 
restare  a  Venezia,  e  attaccarsi  al  Gonzaga  che  solo  mostrava  di  vo- 
lerlo efficacemente  proteggere. 

Per  conciliarsene  sempre  più  la  grazia  formò  allora  un  grandioso 
progetto:  nient'altro  che  di  accingersi  a  comporre  un  poema  cavalle- 
resco da  far  riscontro  b\V  Orlando  Innamorato  e  al  Furioso,  e  nel 
quale  tra  le  avventure  d'armi  e  d'amori  inserire  i  fasti  di  casa  Gon- 
zaga, che  avrebbe  trovato  così  il  suo  Ariosto.  La  Marfisa,  quale  ci 
è  rimasta,  non  è  che  un  aborto,  un  informe  abbozzo  che  non  permette 
neppure  di  scorgere  le  linee  del  primitivo  disegno  ;  ma  delle  idee  am- 
biziose dell'Aretino  nell 'intraprenderla  abbiamo  tuttavia  documenti  si- 
curi. Fino  dal  settembre  del  1527  vediamo  il  Marchese  di  Mantova 
ringraziar  caldamente  l'Aretino  del  principio  inviatogli  della  Mar- 
phisa  disperata  (così  allora  pensava  intitolarla):  e  nelle  successive 
lettere  ^)  è  una  stucchevole  ripetizione  delle  più  enfatiche  ed  esagerate 
lodi  per  i  saggi  del  poema  che  via  via  riceveva.  Il  Marchese  era  fe- 
lice dell'onor  grande  che  l'Aretino  gli  faceva  nel  comporre  quest'opera, 
da  cui  pensava  sarebbe  venuta  immortai  fama  ad  entrambi,  e  non  si 
saziava  di  sollecitarne  le  primizie,  e  per  risparmiare  al  poeta  la  noia 
del  trascrivere  aveva  stabilito  apposta  un  abile  amanuense.  Perchè  poi 
l'Aretino  avesse  il  materiale  storico,  su  cui  ricamare  le  sue  poetiche 
invenzioni  adulatorie,  il  Marchese  fece  compilare  da  un  vecchio  precet- 
tore il  sommario  della  genealogia  di  casa  Gonzaga,  con  l'elenco  cioè 
degli  antenati  de'  quali  nella  Marfisa  si  sarebbero  intercalate  le  lodi 
e  celebrata  l'apoteosi  ^). 

Di  quanto  la  Marfisa  conteneva  a  onore  e  gloria  de'  Gonzaga  nelle 
stampe  frammentarie  in  tre  canti  al  più,  che  l'Aretino  diede  del  suo 


*)  Doc.  VII,  Vm,  IX,  XI,  XII,  XX. 
•)  Dot.  XV. 


—  21  — 

poema,  è  disparsa  ogni  traccia;  però  che  Pietro  disgustatosi  in  breve 
col  signore  di  Mantova  lasciò  a  mezzo  l'opera,  e  la  parte  compiuta 
intitolò  a  un  nuovo  padrone  più  promettente,  il  marchese  del  Vasto  ^), 
cambiando  appena  qualche  verso  nella  sua  dedica  ampollosamente 
adulatoria.  Una  stampa  popolare,  di  cui  ebbi  altra  volta  ad  occu- 
parmi 2),  basta  tuttavia  a  stabilire  questo  fatto  curioso  che  qualifica  la 
servile  volubilità  dell'Aretino.  È  noto  che  la  Marfisa,  per  quanto  può 
raccappezzarsi  da  queir  assordante  guazzabuglio,  prende  le  mosse  dalla 
morte  di  Rodomonte  —  a  meglio  simulare  la  continuazione  dell'Ariosto, 
che  era  nella  mente  dell'autore  —  e  ci  dà  per  prologo  meraviglioso  le 
prodezze  e  le  prepotenze  che  fa  Rodomonte  anche  all'inferno.  Quest'epi- 
sodio strampalato  ottenne  immediatamente  una  certa  popolarità,  e  ne 
troviamo  subito  una  stampa  veneziana  del  1532  ^),  più  tardi  un'altra 
di  Fermo  (1583),  tutte  due  senza  il  nome  dell'Aretino,  e  la  seconda 
presentata  anzi  come  «  inventione  poetica  di  Christoforo  Scannello  detto 
il  cieco  da  Forlì  ».  Orbene  è  la  prima  appunto  di  queste  stampe,  che 
ci  conserva  l'introduzione  del  poema,  quel  «  principio,  cioè,  della 
Marfisa  disperata  »  che  piacque  tanto  al  marchese  di  Mantova. 
Esposto  l'argomento  col  sacramentale  «  Canto  la  donna  invitta  ecc.  » 
l'Aretino  continua: 

Ma  la  mia  mente  innamorata  et  vaga 

Di  celebrar  Thonor  del  tempo  antico 

Nulla  sa  dir  se  prima  non  s'appaga 

Ne  l'util  gratia  vostra,  Federico 

0  magnanimo  duca  di  Gonzaga, 

Solo  della  malconcia  Italia  amico, 

Doveria  poi  che  in  me  non  può  il  valore 
'  Aiutarmi  ciascun  a  farvi  honore. 

Et  perchè  in  questa  età  malvagia  et  fella 

Unico  splende  '1  vostro  nome  pio 

Sì  come  fé  l'Egiptia  età  novella  (sic) 

Che  si  credette  che  il  Sol  fussi  Dio, 

Et  non  vedendo  altra  cosa  più  bella 

Quello  adorò,  così  proprio  ho  fatto  io 

Che  non  vedendo  altro  di  ben  fra  noi 

L'anima  inchino  solamente  a  voi. 


1)  Cfr.  Virgili,  op.  cit,  p.  242;  e  nel  Fanfuìla  delia  Domenica,  Anno  IV,  n"'  4. 

^)  L'  Orlandino  di  P.  A.  in  Giornale  di  filol  romanza,  III,  p.  70. 

')  Che  s'intitola:  Opera  yiova  del  superbo  Rodomonte  Be  di  Sarza  che  da 
poi  la  morte  sua  volse  signorizare  Vinferno.  In  Vinetia,  per  Guilielmo  da  Fon- 
taneto  di  Monferrà,  ad  instantia  de  Hipolito  detto  il  Ferrarese,  MDXXXII  (Bibl. 
Corsinìana). 


—  22  — 

Date  favor  dunque  alla  penna  mia 
Che  lodar  brama  et  con  fervente  zelo 
Eì  giemolo  e  quél  ceppo  onde  usci  pria 
La  vostra  stirpe  et  per  voi  sbalza  in  cielo, 
Ch'ogni  chiara  d'altrui  genologia  {sic) 
Vince  Thonor  nel  sempre  verde  stelo. 
Ma  da  voi  mi  toglie  hor  l'alto  Ruggiero 
Che  è  delle  spoglie  del  nemico  altiero, 

e  di  cui  descrive  l'ingresso  trionfale  a  Parigi  ^). 

Ignorando  quant'era  passato  fra  l'Aretino  e  i  Gonzaga  per  la  com- 
posizione della  3farfisa,  la  prima  volta  che  parlai  di  questa  stampa  la 
credetti  uno  de'  tanti  rabberciamenti  popolari;  e  la  dedica  al  Duca  di 
Mantova,  un'arbitraria  sostituzione  di  qualche  guastamestieri,  a  cui 
premeva  ingraziarsi  l'inclito  principe.  Ma  ora  è,  parmi,  evidente  che 
questa  stampa  ci  rappresenta  invece  i  due  canti  genuini  della  Marfisa, 
quali  furon  dapprima  scritti  dall'Aretino  e  da  lui  inviati  al  Gonzaga. 
Per  le  copie  che  questi  ne  aveva  ordinato  da  amanuensi,  nulla  di  più 
naturale  che  fossero  pubblicati  anche  contro  la  volontà  dell'Aretino 
stesso  2),  quando  cioè  per  le  relazioni  bruscamente  troncate  col  signore 
di  Mantova  (1531)  egli  aveva  messo  gli  occhi  su  nuovo  mecenate,  a  cui 
dedicare  il  poema  con  relativa  genealogia. 

Dalle  stanze  recate  si  è  visto  di  che  misera  broscia  andasse  in  solluc- 
chero il  marchese  Federico  :  eppure  mentre  l'Aretino  gli  ammanniva 
di  quella  roba  non  v'era  favore,  di  cui  in  pari  tempo  sollecitasse  il 


*)  Nella  Marfisa  dedicata  al  Del  Vasto,  l'Aretino,  aggiunta  di  nuovo  una 
stanza  in  onore  del  D'Avalos,  rabbercia  alla  meglio  questa  stessa  dedica  fatta 
pel  Gonzaga: 

Dovrebbe  poi  che  in  me  non  ò  '1  valore 
Aiutarvi  ogni  stile  a  farvi  honore. 
Dovrebbe  il  mondo  quasi  a  fida  stella 
Il  cor  sacrare  al  vostro  nome  pio, 
A  guisa  de  l'egiptia  età  novella 
Che  bramando  offerir  gl'incensi  a  Dio 
Adorò  il  sol,  poi  che  luce  piìi  bella 
Non  vide  in  cielo,  e  ciò  proprio  ho  fatto  io ... 

con  quello  che  segue. 

')  Ossia,  secondo  il  Veniero,  in  Ancona  «  per  altrui  ignorantia  et  maligna  in- 
vidia »  e  con  un'infinità  di  errori  (cfr.  Virgili,  Fr.  Berni,  p.  243).  È  da  questa 
prima  edizione  oggi  sconosciuta  che  deve  aver  avuto  origine  la  ristampa  popolare. 


—  23  — 

Gonzaga,  che  questi  non  gli  avesse  prontamente  accordato.  Per  racco- 
mandazione di  Pietro,  fece  prosciogliere  da  un'accusa  di  omicidio,  e 
accettò  al  suo  servizio,  un  Taddeo  Boccacci  da  Fano,  soldato  già  alievo 
di  Giovanni  De'  Medici,  e  come  fratello  d'armi  perciò  con  l'Aretino^); 
infine...  che  più?  Il  Principe  non  sdegnò  di  prestarsi  poco  meno  che  da 
mezzano  al  suo  poeta.  —  Stando  a  Mantova  nel  febbraio  del  1527, 
Pietro  s'era  invaghito  d'una  Isabella  Sforza:  e  in  osceni  sonetti  aveva 
celebrato  quest'amore  come  un  avvenimento,  perchè  tutt' immerso  nei 
vizi  nefandi  dell'epoca  egli  se  la  faceva  poco  con  donne  e  preferiva  altri 
diletti  erotici  2).  Infatti  pare  che  quest'amore  per  l'Isabella  poco  du- 
rasse, 0  che  per  lo  meno  in  Mantova  l'avesse  colpito  del  pari  un  bel 
giovincello,  che  i  documenti  indicano  semplicemente  come  «  figliolo  del 
Bianchino  ».  L'Aretino  si  aprì  liberamente  col  Marchese  per  queste 
passioni  tormentose,  che  gli  avevan  destato  due  suoi  sudditi,  dell'uno 
e  dell'altro  sesso;  e  il  Gonzaga  mostrò  tuttala  miglior  volontà  di  com- 
piacerlo, affannandosi  dei  travagli  amorosi  del  suo  poeta,  e  desideroso 
di  lenirli  perchè  la  Mar  fisa  disperata  non  ne  fosse  interrotta  e  per- 


1)  Doc.  IX  e  X. 

')  Nel  più  volte  cit.  codice  marciano  a  e.  434  v  si  hanno  appunto  questi  due 
osceni  sonetti  dell'Aretino,  del  primo  de'  quali  ecco  il  principio  e  la  chiusa: 

Laudate  pueri  dominum,  laudate 
Hormai  putti  messer  domenedio, 
Poichò  Isabella  Sforza  ha  fatto  ch'io 

Ho  car  che  l'uscio  drieto  mi  serrrate 

Et  vo' mandar  il  bando 
Come  di  novo  è  fatto  l'Aretino 
Servus  servorum  al  sesso  feminino. 

Sullo  stesso  motivo  è  intonato  anche  il  secondo: 

Sia  noto  a  ogni  persona  et  manifesto 
Come  Isabella  Sforza  ha  convertito 
L'Aretin  da  ch'ei  nacque  sodomito, 
Che  San  Francesco  non  potria  far  questo. 

A  ventun  di  febraro  nel  bisesto 
Fu  '1  gran  miracol  ch'havete  sentito 
In  Mantova,  e  se  n'è  '1  mondo  stupito 
Ch'ella  habbia  fatto  tal  cosa  sì  presto... 

Sì  che  in  timpano  et  organo  laudate 
Isabella  divina  che  a  staffetta 
V'ha  dal  vostro  nimico  liberate. 


—  24  — 

venisse  presto  «  al  laudato  fine  »,  ne  egli  avesse  a  restar  privo  del  pia- 
cere che  provava  per  le  composizioni  dell'Aretino.  Non  risparmiò  dunque 
pratiche  e  tentativi  per  trarre  a  disposizione  di  Pietro  gli  oggetti  delle 
sue  pene;  ma  il  figliolo  del  Bianchino  non  parve  troppo  lusingato  del- 
l'onore, ed  oppose  invincibile  renitenza,  davanti  alla  quale  il  Marchese 
non  trovò  «  giusto  né  onesto  il  comandargli  »  ed  insistere  :  di  che  si 
scusava  coli' Aretino,  pregandolo  ad  accettare  il  suo  buon  animo!... 
E  basti  aver  sfiorato,  senza  rimestare  più  oltre,  questa  vergognosa  com- 
piacenza del  Principe  per  1  Aretino:  i  documenti  parlano,  mi  sembra, 
anche  troppo  chiaro  ^). 


IV. 


Per  l'anno  1528  l'Aretino  pubblicò,  come  d'ordinario,  il  suo  giudizio; 
e  il  marchese  Gonzaga  nel  riceverlo  scriveva  d'averlo  trovato  «  una 
prophecia  dilettevole  »,  né  dubitava  si  sarebbe  avverato  come  quello 
dell'anno  precedente  2).  Doveva  essere  però  assai  più  temperato  e  rive- 
rente verso  il  Papa  e  la  sua  corte,  perchè  l'Aretino  non  aveva  rinunziato 
al  desiderio  di  riamicarsi  Clemente  VII,  e  di  quei  giorni  pregava  il 
marchese  di  Mantova  a  interporsi  presso  Sua  Santità  col  mezzo  di  mon- 
signor del  Monte  e  del  fratello  cardinal  Ercole  Gonzaga.  Evidentemente 
a  tali  pratiche  concilianti  l'Aretino  era  indotto  dalla  sua  condizione 
non  prospera  a  Venezia,  dove  era  sempre  costretto  a  vivere  alla  giornata, 
e  a  far  assegnamento  soltanto  sul  signore  di  Mantova.  I  contributi  del 
quale  per  la  vita  chiassosa  e  sregolata  che  avrebbe  voluto  condur 
l'Aretino  erano,  ripeto,  povera  cosa  :  e  Pietro  pensò  di  tentare  un  bel 
colpo,  una  lotteria  da  cavarne  parecchie  migliaia  di  ducati.  Come  fosse 
organizzata  questa  lotteria  non  appare;  dovevano  probabilmente  en- 
trarvi a  part^  compar  Tiziano,  il  Sansovino  ed  altri  amici  artisti  :  e  il 
Gonzaga  concesse  volentieri  all'Aretino  la  patente  necessaria  per  farla 


*)  Doc.  XII,  XIII,  XIV,  XV. 
•)  Due.  XIV. 


—  25  — 

in  Mantova,  benché  non  si  nascondesse  la  difficoltà  di  ottenerne  così 
vistosa  somma  come  Pietro  sperava  ^).  Ad  ogni  modo  questi  ne  avrà 
pur  tratto  un  qualche  profitto,  con  cui  tirare  innanzi  quell'anno  e  sup- 
plire a'  sussidi  del  Marchese  che  vennero  improvvisamente  a  mancargli. 

Una  strana  interruzione  si  produce  in  fatti  ne'  rapporti  di  Federico 
Gonzaga  con  l'Aretino:  cessa  di  scrivergli,  non  mostra  neppur  più  di 
curarsi  del  poema  a  cui  prima  smaniava  di  veder  raccomandata  la  fama 
immortale  della  sua  casa.  Il  Marchese  fa  splendidi  doni  a  Tiziano  2), 
fors' anche  al  Sansovino  da  cui  ebbe  finalmente  la  statua  promessa  di 
una  Venere  attraentissima  ^)  ;  ma  per  il  loro  amico  più  nulla.  È  vero 
che  il  Marchese  si  faceva  scusare  più  tardi,  allegando  che  per  otto  mesi 
non  aveva  avuto  entrate  dal  suo  stato*);  ma  l'Aretino  era  sdegnato  che 
non  si  rispondesse  nemmeno  alle  sue  lettere,  che  non  si  tenesse  più 
alcun  conto  della  Marfisa. 

Privato  del  più  valido  appoggio,  Pietro  cercò  nuovamente  d'entrare 
in  grazia  del  Ke  di  Francia;  e  aiutato  dal  conte  Guido  Rangoni  questa 
volta  ne'  suoi  tentativi  ebbe  migliore  successo.  L'ambasciatore  francese, 
residente  a  Venezia,  prese  a  proteggerlo  ;  e  con  più  fondamento  potè 


1)  Doc.  IX,  XI,  XII. 

*)  Riporto  questa  lettera,  sfuggita  al  Braghirolli,   che  scrive  {mem.  cit.)   non 
aver  trovato  del  1528  alcuna  notizia  sulle  relazioni  fra  Tiziano  e  i  Gonzaga: 

<  Bastavame,  IH'"»  et  Ex"»"  Signor,  Signor  mio  obser.™»,  haver  per  molte 
et  diverse  altre  experientie  conosciuta  la  grandezza  de  la  munificentia  et  libera- 
lità de  la  S.  V.  Ili""*,  senza  che  di  novo  la  me  havesse  più  obligato  et  devincto 
cum  così  nobel  et  honorevol  presente,  non  indegno  invero  a  cadauno  alto  et  su- 
blime principe,  da  me  ultimamente  cum  ogni  submissione  et  reverentia  recevuto 
insieme  cum  le  humanissime  et  benignissime  littere  sue,  quale  ho  collocato  nel 
centro  del  core  mio.  Et  perchè  so  esser  noto  a  V.  Ill"^'  S.  la  mia  profesione  esser 
aliena  di  formar  parole,  che  quanto  più  mi  extendesse  in  referirli  quelle  immortai 
gratie  se  conveneria  seria  cum  lei  un  perder  tempo  et  darli  più  presto  noglia  che 
altramente,  sapendo  la  innata  magnanimità  et  libéralissima  natura  sua,  la  su- 
plico  si  degni  accettar  el  mio  bon  animo  et  promptissirao  desiderio  di  servirla 
sempre  cum  ogni  mio  potere  in  tutte  quelle  cose  che  V.  111°»*  S.  harà  piacer  di 
comandarme,  et  io  da  per  me  cognoscerò  doverli  esser  grate  et  accepte  :  alla  qual 
hurailmente  mi  aricomando. 

In  Venetia  a  i  IJ  di  marzo  1528. 
De  V.  Ili'"»  S. 

Servitor  et  schiavo 
Ticiano.  » 
')  Doc.  XV. 
♦)  Doc.  XVII. 


—  26  — 

l'Aretino  trattare  di  andarsi  a  stabilire  in  Francia.  Oh  appena  avesse 
inesso  1  piedi  fuori  d'Italia  n'avrebbe  dette  delle  belle  sui  Principi  no- 
strani «  che  non  haveano  voluto  cognoscerlo  et  aiutarlo  »  :  si  sarebbe 
ben  sbizzarrito  sul  loro  conto,  ed  avrebbe  fatto  ridere  re  Francesco  alle 
loro  spalle,  senza  dir  altro  che  la  verità.  Diventato  tutto  di  parte  fran- 
cese, l'Aretino  affidava  all'avvenire,  che  si  prometteva  brillante  nella 
corte  di  re  Francesco,  le  sue  vendette  contro  gli  sconoscenti  Principi 
italiani  ;  e  tra  questi  non  sarebbe  stato  risparmiato  neppure  il  Marchese 
di  Mantova,  della  cui  freddezza  aveva  ormai  troppo  a  dolersi.  —  Pub- 
blicando nel  1529  il  suo  solito  giudmo  dell'anno,  pieno  di  elogi  per  il 
Rangone  e  l'ambasciatore  francese  che  lo  favorivano,  Pietro  scriveva 
sdegnosamente  a  Jacopo  Malatesta,  agente  mantovano  a  Venezia,  che  lo 
mandasse  se  voleva  al  Marchese,  ma  quanto  a  se  s'intendeva  già  sciolto 
da  ogni  servitù,  da  ogni  impegno  con  chi  lo  lasciava  morire  di  fame  ; 
ne  avrebbe  più  finito  l'intrapreso  poema.  Padroni  a  Pietro  Aretino  non 
sarebbero  mancati  :  e  così  rinviava  senz'altro  il  sommario  della  genea- 
logia de'  Gonzaga  che  aveva  ricevuto  per  la  Marfisa  ^).  Ma  quel  che  è 
peggio,  sembra  che  l'Aretino  avesse  già  incominciato  a  dir  male,  nel 
suo  giudmo,  della  corte  mantovana,  cioè  di  Carlo  da  Bologna  ^\  di  un 
fra  Benedetto,  ed  altri  confidenti  del  Marchese,  a'  quali  imputava  forse 
l'avarizia  e  la  taccagneria  che  gli  si  usava  ;  e  l'ambasciator  Malatesta 
ritenne  opportuno  che  ad  evitanda  scandala  si  dovesse  cercare  di  rab- 
bonir l'Aretino.  Sarebbe  stato  un  peccato  se  fosse  rimasto  incompiuto 
quel  poema  in  cui  non  era  solamente  esaltato  alle  stelle  il  Marchese, 
ma  anche  rammentato  con  onore  qualcuno  dei  più  eminenti  della  corte, 
come  il  castellano  G.  J.  Calandra  ^).  Parve  infatti  che  l'Aretino  si  ac- 
chetasse, ma  in  breve  vedendo  che  lo  si  pasceva  di  belle  parole  senza 


0  Doc.  XVI 

')  Si  veggano  di  costui  alcune  lettere  umilissime  che  scrive  all'Aretino  (op.  cit, 
I,  34  e  sgg.)  tutto  affannato  a  placarlo,  e  a  protestargli  la  sua  devozione  e  i 
buoni  offici  che  ha  fatto  sempre  per  lui  col  Marchese.  Lo  prega  a  scusare  se  non 
gli  si  mandan  subito  i  danari  che  chiede,  perchò  —  dice  —  «  qua  stemo  molto 
€  male,  ma  la  importanza  vostra  è  tale  che  se  lascierà  ogni  altra  cosa  perchò 
€  la  conosca  il  buon  conto  se  fa  de  lei.  »  (Lett.  3  luglio  1529).  Più  tardi  il  Bo- 
logna procurava  all'Aretino  un  «  disegno  de  Diana  »  di  mano  di  Giulio  Pippi 
(lett.  25  ott.  1529).  —  Il  gran  segreto  dell'Aretino  fu  sempre  questo  di  essersi 
procurato  a  fianco  de' Principi  siffatti  agenti  servizievoli,  allacciati  a  lui  dalla 
paura  e  dall'ambizione.  E  di  Carlo  Bologna  egli  fece  onorevol  menzione  nel  Ma- 
rescalco, Atto  V,  se.  III. 

')  Doc.  XVII.  —  Sul  Calandra  v.  Bettinelli,  Delle  Lett.  e  delle  Arti  mantov., 
p.  106. 


—  27  — 

nulla  di  sodo,  e'  riprese  le  sue  maldicenze  contro  Mantova,  tantoché 
con  Tamb.  Malatesta  ebbe  una  vivissima  scena,  di  cui  questi  in  un  suo 
dispaccio  dà  interessante  ragguaglio  1).  L'Aretino,  in  casa  dell'amba- 
sciatore francese,  presenti  il  Kangoni  e  un  inviato  fiorentino,  è  là 
che  sbriglia  il  suo  umore  sarcastico  contro  la  corte  mantovana:  e  il 
Malatesta  arrivando  si  sente  motteggiare  dai  tre  personaggi  che  hanno 
ascoltato,  divertendosi  un  mondo,  la  tirata  dell'Aretino.  Sorge  allora  un 
fiero  battibecco,  e  Pietro  risponde  impudente  che  ha  detto  la  verità, 
che  sarà  per  dirne  di  peggio,  come  meglio  gli  pare  e  piace,  senza 
rispetto  ne  paura  d'alcuno.  E  l'ambasciatore  a  ribattergli  recisa- 
mente che  avrà  a  pentirsene,  che  dal  Marchese  può  aspettarsi  tal 
lezione  come  non  ha  mai  avuto,  ne  sarà  sicuro  neppure  in  para- 
diso. Gridano  un  pezzo,  finche  gli  astanti  intervengono  avviando  un 
altro  discorso;  e  l'Aretino,  malgrado  la  sua  spavalderia,  resta  tutto 
impaurito  dalle  «  parole  crudeli  »  dell'ambasciatore  :  e  quando  quésti 
esce,  gli  va  dietro  umile  e  sommesso  a  pregarlo  che  non  scriva  nulla 
dell'occorso  al  Marchese,  lo  compatisca  se  ha  ecceduto  per  amore,  per 
gelosia  de'  favori  del  principe,  per  dispetto  di  non  vedersi  compensato 
come  merita  della  grand'opera  incominciata ,  e  finisce  promettendo 
che  sarà  in  avvenire  piìi  riguardoso  e  prudente,  e  anche  in  Francia  non 
parlerà  se  non  onorevolmente  di  Federico  Gonzaga.  In  quella  lettera 
del  Malatesta  v'ò  il  più  bel  ritratto  morale  dell'Aretino:  petulante 
sfrontato  che  affila  la  lingua  e  la  penna  contro  il  padrone  di  ieri 
che  non  lo  paga  più  ;  e  ad  un'intimazione  minacciosa  si  raumilia,  si 
accovaccia  chiedendo  perdono.  Come  si  vede,  egli  era  già  in  auge, 
andava  liberamente  per  le  case  degli  ambasciatori,  accarezzato  e  ascol- 
tato, si  vantava  di  avere  una  certa  influenza  nel  metter  male  fra  un 
principe  e  l'altro:  e  quand'anche  questi  si  facevano  a  minacciarlo 
sentivano  tuttavia  che  era  meglio  tenerselo  amico  e  partigiano. 

Il  Malatesta  malgrado  la  promessa  riferì  al  Marchese  quanto  era 
passato  con  1-' Aretino,  e  indi  a  poco  avuta  occasione  di  andare  a  Man- 
tova ebbe  dal  Gonzaga  un'ambasciata  tale  da  dover  fare  rinsavire 
del  tutto  messer  Pietro.  Come  confessava  più  tardi  egli  stesso,  il 
Marchese  per  quelle  due  parole^  l'aveva  semplicemente  fatto  minac- 
ciare di  torgli  la  vita  2);  e  l'Aretino  mogio,  mogio  alla  fiera  ammo- 
nizione portatagli  dal  Malatesta  rispondeva  assicurando  che  non 
avrebbe  mai  più  dato  motivo  di  disgusto  al  principe  mantovano.  AI 


1)  Doc.  XVIII. 
-)  Doc.  XXV. 


—  28  — 

quale  s'era  già  direttamente  prosternato i),  pentito  e  supplicante, 
promettendo  di  riprendere  il  poema  e  inviandogliene  nuovi  saggi  :  e 
il  Marchese  lo  aveva  di  nuovo  raccolto  benigno,  non  nascondendo  che 
gli  piaceva  essere  lodato,  specialmente  da  ingegni  insuperabili  come 
l'Aretino,  ed  esortandolo  per  suo  bene  a  persistere  nell'opportuno  rav- 
vedimento 2).  La  pace  fu  celebrata  non  solo  col  Marchese,  ma  altresì 
co' suoi  cortigiani,  felici  di  non  aver  più  a  temere  della  maledica  penna 
dell'Aretino:  e  questi  potè  pompeggiarsi  pel  dì  àelVascensa  «  d'una 
«  roba  di  velluto  nero,  fregiata  di  cordoni  d'oro,  con  la  fodra  di 
«  tela  d'oro,  d'un  saio  e  d'un  giubbone  di  broccato  »,  consegnatigli 
dal  Malatesta  a  nome  del  principe  Federico,  oltre  a  delle  «  calze  d'oro 
e  di  seta  cremisi  »  di  cui  regalò  una  sua  comare  gentilissima.  Quel 
dono  l'aveva  fatto  tutto  ringalluzzire,  non  tanto  «  per  la  ricchezza 
sua  »,  quanto  —  scriveva  al  Marchese  —  perchè  un  così  nobil  signore 
l'avesse  giudicato  «  degno  di  portare  gli  abiti  dei  Principi  ^)  ».  Di 
simili  doni  ne  riceveva  ormai  da  più  parti:  il  marchese  di  Musso  gli 
mandava  nel  giugno  del  1529  cento  scudi;  altri  scudi,  un'impresa  e 
un  saio  di  raso  bianco  poco  dopo  gli  faceva  avere  il  conte  Guido 
Rangoni  *). 

Per  gareggiare  di  cortesia  col  Gonzaga,  l'Aretino,  che  avendo 
sempre  più  esteso  le  sue  relazioni  artistiche  contava  fra  gli  amici  anche 
il  meraviglioso  intagliatore  Valerio  Belli  da  Vicenza,  pensò  di  fargli 
eseguire  un  pugnale  di  finissimo  e  ricco  lavoro  da  offrire  al  Marchese 
di  Mantova:  e  non  ci  vollero  meno  di  sei  mesi  per  condurlo  a  ter- 
mine. Nell'ottobre  del  1529  era  spedito  dall'Aretino  per  mezzo  di  un 
suo  servitore  ^)  :  e  Federico  dello  splendido  presente  ringraziava  am- 
mirato, non  mancando  di  ricambiarlo  con  «  alcune  cose  »  che  l'Are- 
tino avrebbe  goduto  per  amor  suo  ^).  Maggior  dono  avrebbe  fatto 


1)  Doc.  XIX. 

')  Doc.  XX,  e  fra  le  Leti.  scr.  al  sig.  P.  A.  un'  altra  del  Marchese  in  data 
1  giugno  1529  (I,  17). 

')  Lettere,  I,  15:  al  Duca  {sic)  di  Mantova,  da  Venezia  11  maggio  1529. 

*)  Lettere,  I,  16-17. 

")  Doc.  XXI,  XXII. 

")  Lett.  scr.  all' A.,  I,  17.  Lett.  23  ott.  1529,  ripubblicata,  al  suo  solito,  come 
inedita  dal  Bertolotti,  Artisti  in  relazione  coi  Gonzaga,  Modena  1885,  p.  105, 
il  quale  afferma  a  casaccio  che  l'Aretino  «  allora  doveva  trovarsi  a  B  logna  (!).  » 
—  Questa  lettera,  come  è  data  nella  stampa  raarcoliniana  —  perchè  il  copista 
Bertolotti  l'ha  infiorata  di  qualche  sproposito:  teno  per  terrò,  immortalia  per 
immortalità  —  corrisponde  perfettamente  all'originale  conservato  nel  Copiaìett, 
Lib.  299,  e  cosi  altre  due  del  Marchese  che  furon  pure  stampate  da  Pietro.  Ciò 


—  29  — 

nel  vicino  natale,  quando  cioè,  come  l'Aretino  gli  annunziava,  la 
Mar  fisa  sarebbe  Unita;  e  difatti  sui  primi  del  dicembre,  Pietro  of- 
ficiò il  Marchese  a  volergli  ottenere  il  relativo  privilegio  di  stampa  dal 
Papa  e  dall'Imperatore,  allora  convenuti  a  Bologna  pel  famoso  con- 
gresso —  sul  quale  anzi  il  Gonzaga  sollecitava  un  giudùio  del- 
l'Aretino ^). 


V. 


L'Aretino  nel  chiedere  quei  privilegi  non  si  dissimulava  che  spe- 
cialmente da  parte  del  Pontefice  non  si  sarebbe  avuta  la  miglior  dispo- 
sizione di  concedere  a  lui  ciò  che  pure  si  accordava  facilmente  a 
chiunque.  È  vero:  confessava  d'aver  offeso  e  ingiuriato  Papa  Clemente; 
ma  non  aveva  avuto  anche  giusti  motivi  d'"esacerbazione  ?  D'altronde 
se  aveva  sparlato  del  Pontefice  era  stato  soltanto  nelle  pasquinate,  nei 
giudizi,  in  ciancie  insomma  destinate  a  effimera  vita;  mentre  ora  nel 
poema  che  consegnava  all'immortalità  aveva  inchiuso  lodi  e  per  il 
Papa  e  per  l'Imperatore.  Potevano  dunque  fargli  quella  grazia,  perchè 
altrimenti  avrebbe  composto  una  ventina  di  stanze  da  levar  il  pelo  a 
sua  Santità  ed  a  Cesare.  Vedesse  il  Marchese  di  Mantova  di  evitare 
tanto  scandalo  e  ottenergli  il  privilegio,  che  di  poco  momento  a  chi  lo 
dava  era  utilissimo  per  l'autore  :  certo,  conchiudeva,  che  «  la  stampa 
mi  premierà  et  non  i  Principi  2).  »  Il  Marchese  mandò  subito  istruzioni 


che  prova  come  siano  infondate  le  diffidenze  di  molti  eruditi,  che  reputano  quelle 
lettere  a  lui  scritte,  pubblicate  dall'Aretino  stesso,  non  esenti  da  qualche  sua 
manipolazione.  Come  è  ovvio  osservare  nel  caso  nostro,  l'Aretino  anzi  non  pub- 
blicò che  la  minima  parte  delle  molte  lettere  avute  dal  Gonzaga. 

^)  «  In  questo  convento  di  Bologna  aspetto  cosa  che  venga  dal  vostro  prudente 
«  judicio.  »  Leti.  scr.  aWA.,  I,  18.  —  Nicola  di  Trotti  gli  scriveva  il  28  no- 
vembre 1529  {ibid.,  I,  42):  <  Son  stata  a  Bologna,  dove  ho  veduti  molti  vostri 
«  subietti  consimigliarsi  benissimo  a  quelle  rime  e  prose  dove  depinti  sono;  et 
«  in  mille  buon  propositi  sete  stato  ricordato  da  dame  e  gentilhuomini;  e  molti, 
«  che  di  voi  non  havean  chiara  notitia,  per  quei  ragionamenti  son  restati  vostri.  » 

')  Doc.  XXIII. 


—  30  — 

opportune  a  G.  B.  Malatesta,  che  aveva  inviato  a  Bologna  per  il  con- 
gresso del  Papa  con  l'Imperatore;  ma,  come  ben  temeva  FAretino,  la 
domanda  non  trovò  ne  dall'imo  né  dall'altro  accoglienza  favorevole  ^). 
Opponevano  che  l'Aretino  non  aveva  mai  cessato  di  scriver  male  del 
Papa  e  di  sua  Maestà,  e  anche  di  recente  aveva  «  composto  un  testa- 
mento in  loro  grandissimo  obbrobrio  ».  L'Aretino  negò  d'averlo  fatto 
lui  ;  ma  non  restava  meno  che  fossero  suoi  molti  altri  scritti  satirici, 
irriverentissimi  in  specie  contro  Clemente.  Dopo  tanto  tempo  da  che  era 
partito  da  Koma  per  la  pugnalata  di  Achille  della  Yolta,  egli  non 
aveva  mai  potuto  dimenticare  a  Venezia  il  danno  patito  nella  per- 
sona, e  all'onta  di  veder  impunito  il  suo  sicario  s'aggiungeva  il 
dispetto  per  le  vane  pratiche  fatte  più  volto  di  riamicarsi  il  Pontefice. 
Contro  questo  e  contro  il  datario  Giberti  non  aveva  lasciato  perciò  oc- 
casione di  sfogare  la  sua  rabbia,  e  con  tanta  più  più  violenza  in  quanto 
ne'  disastri  di  quegl'anni  li  aveva  visti  travolti  e  pressoché  sommersi, 
e  poteva  sicuramente  irridere  e  insultare  a'  caduti,  come  s'è  visto  dalla 
frottola  sul  sacco  di  Roma.  Anche  in  quell'anno  1529,  quando  il  Papa 
s'era  gravemente  ammalato  ed  era  corsa  già  la  voce  della  sua  morte, 
l'Aretino  aveva  scritto  un  sonetto  insolente  2),  lanciando  un'accusa  vele- 
nosa contro  il  suo  mortale  nemico,  il  Giberti,  e  i  più  scurrili  oltraggi 
contro  tutto  il  sacro  Collegio,  non  risparmiando  una  frecciata  al  Berni, 
a  cui  dopo  quel  sanguinoso  sonetto  aveva  giurato  odio  implacabile. 


*)  Doc.  XXIV;  e  fra  le  Leti,  scr,  air  A.,  I,  18  e  sgg.,  due  altre  lettere  del 
Marchese  in  data  19  die.  1529  e  19  genn.  1530,  di  cui  la  prima  si  ha  tal  quale 
nel  Copidktt,  Lib.  299. 

')  È  ancora  nel  cit.  cod.  marciano  a  carte  437  r: 

Fa  noto  et  manifesto  a  tutta  gente 

Il  vescovo  bastardo  di  Verona 

Che  '1  Papa  è  morto  come  si  ragiona 

Ai  diciasette  ladri  del  presente. 
El  detto  Gian  Mattheo  publicamente 

Contessa  a  ognun  come  daben  persona 

Ch'ei  solo  ha  fatto  per  far  opra  bona 

Dal  Sanga  velenar  mastro  Chemente. 
Il  Bernia  che  a  Roma  ha  negotiato 

L'utile  sancto  sacro  tradimento 

N'ha  in  visibilio  il  datario  advisato. 
Et  Dio  volesse  che  come  Chimento 

Stesse  il  Collegio  arcigaglioffo  e  ingrato 

Che  '1  mondo  et  Piero  viverla  contento. 


—  31  — 

Naturale  perciò  che  gli  si  negasse  ora  il  privilegio  per  la  Marfisa  :  e  il 
Marchese  di  Mantova  avvisò  dispiacentissimo  l'Aretino  del  cattivo  esito 
delle  pratiche  fatte.  L'Aretino,  fieramente  irritato,  rispose  con  una  lettera 
che  è  un  piccolo  capolavoro  d'impudenza  ^).  —  Immaginando  il  rifiuto, 
diceva  d'essersi  subito  pentito  della  dimanda  di  quella  grazia,  della 
quale  al  postutto  poteva  fare  benissimo  a  meno.  Avrebbe  al  più  perduto 
l'utile  di  qualche  scudo,  ma  le  opere  dell'ingegno  non  erano  sottoposte 
alle  disgrazie  dei  Principi,  e  presto  si  sarebbe  visto  chi  era  l'Aretino. 
L'imputazione  che  gli  si  apponeva  di  aver  composto  quel  testamento 
ingiurioso  per  il  Papa  e  l'Imperatore  era  falsa:  sapeva  bene  chi  n'era 
invece  l'autore,  gente  cioè  che  mangiava  il  pane  di  sua  Santità,  ma  non 
voleva  dir  altro  perchè  non  si  credesse  che  sfogava  qualche  odio  perso- 
nale. Egli  al  contrario,  se  pure  prima  aveva  sparlato  di  Clemente  —  ma 
meno  di  tant'altri,  come  si  poteva  vedere  confrontando  i  suoi  scritti, 
che  avevano  un'  impronta  troppo  originale  per  non  confonderli,  con  tutti 
quelli  usciti  contro  il  Papa  —  ora  aveva  cambiato  stile;  e  il  giudizio 
delVanno  pel  1530,  pubblicato  come  di  solito,  era  stato  tutto  in  favore 
di  sua  Santità  e  di  Cesare.  Volesse  dunque  il  Marchese  scagionarlo  e 
difenderlo  con  tutti  i  mezzi  che  avrebbe  ritenuto  piii  adatti...  Ma  qui 
seguiva  la  stoccata  anche  pel  Gonzaga.  L'Aretino,  che  s'aifannava  tanto 
pel  privilegio  di  stampa  alla  Marfisa,  confessa  che  ha  dovuto  metterla 
in  pegno  per  duecento  scudi  ;  avendola  tra  le  mani,  per  disperazione  la 
brucierebbe  !  È  mai  possibile  che  il  Marchese  lo  riduca  a  questi 
estremi?  quando  vorrà  dunque  assicurargli  il  pane?  quando  sarà  morto? 
La  sua  sorte  col  Gonzaga  è  peggiore  anche  di  quella  che  ha  avuto  col 
Papa:  sperava  una  grande  ricompensa  per  levare  di  pegno  il  poema, 


Ma  a  dirlo  lento  lento 
Cioè  pian  pian,  del  nostro  messer  Christo 
Sia  Vicario  chi  vuol  che  '1  sarà  tristo 

Se  già  sul  papalisto 
Non  s'improntasse  per  rader  i  preti 
Quella  pazza  animuccia  di  Ser  Chieti. 

Che  tale  sonetto  fosse  fatto  nel  1529  per  quella  malattia  di  Clemente  VII, 
a  cui  si  riferiscono  tre  sonetti  del  Berni  {Bime,  ed.  cit.,  p.  57  e  sgg.)  lo  prova 
il  seguente  dispaccio  dell'arabasciator  mantovano  a  Venezia,  22  gennaio  :  «  Questa 
«  notte  il  S."  Duca  d'Urbino  per  messo  a  posta  ha  avisato  il  Serenissimo  come 
«  alli  17  del  presente  il  Papa  ha  reso  il  spirito  a  Dio.  Qua  niuno  ha  tale  aviso 
«  excetto  Sua  Sub**.  »  E  su  questa  falsa  voce,  sparsa  poi  per  Venezia,  che  l'Are- 
tino compose  il  suo  pataffio. 

')  Doc.  XXV. 


—  32  — 

quando  aveva  donato  al  Marchese  il  pugnale  lavorato  da  maestro 
Valerio  ;  ma  s'era  ingannato  e  gli  restava  sulle  spalle  il  debito  con- 
tratto per  farlo.  Ah  il  Marchese  credeva  troppo  facilmente  che  per 
contentarlo  bastassero  qualche  saio  ed  un  giubbone,  scarti  della  sua 
guardaroba  :  e  chi  aveva  visto  il  pugnale  e  i  presenti  del  Marchese 
—  aggiungeva  più  tardi  l'Aretino  in  un  biglietto  all'ambasciatore  Ma- 
latesta  ^)  —  non  aveva  avuto  poco  a  meravigliarsi  e  a  biasimare  la  tac- 
cagneria del  Principe.  Con  tutto  ciò  l'Aretino  chiudeva  la  sua  lettera 
al  Gonzaga,  profferendosi  ancoj-a  a  fargli  lavorare  una  sella  stupenda 
anche  più  ricca  nel  suo  genere  del  pugnale  ;  e  non  dimandava  per  ora 
che  cinquanta  scudi. 

Sempre  tollerante  e  cortese,  malgrado  così  sfacciata  petulanza,  il 
Gonzaga  mandò  all'Aretino  i  cinquanta  scudi,  e  fece  proseguire  dal 
suo  inviato  a  Bologna  le  pratiche  pel  privilegio  della  Marfisa  :  assi- 
curando al  Pontefice  che  l'Aretino  non  aveva  scritto  l'ingiurioso  libello 
attribuitogli  ed  anzi  aveva  composto  in  favor  suo  ì\  giudizio  dell'anno, 
e  valendosi  presso  Clemente  de'  buoni  uffici  di  mons.  Vasoue,  affezio- 
natissimo  a  Pietro  ^). 

Con  tutti  i  suoi  spavaldi  dispregi  e  i  suoi  inveterati  rancori,  l'Aretino 
era  troppo  accorto  per  non  vedere  che  a  persistere  negli  attacchi  contro 
il  datario  Giberti  si  recava  danno  gravissimo  :  e  mentre  il  Marchese 
di  Mantova  perorava  caldamente  la  causa  di  lui  presso  il  Papa,  Pietro, 
essendo  di  quei  giorni  il  Giberti  andato  a  Venezia,  mosso  da  improv- 
visa ispirazione  —  che  diceva  divina. —  andò  a  gettarglisi  a'  piedi,  per 
aver  pace,  per  riconciliarsi.  11  pio  prelato  lo  accolse  con  paterna  bontà; 
e  l'Aretino  per  battere  il  ferro  finché  era  caldo  ne  die  subito  avviso 
al  Marchese  di  Mantova  3),  pregandolo  a  significare  al  Giberti  il  pia- 
cere che  provava  per  la  riconciliazione  avvenuta,  e  a  farlo  in  termini 
che  mostrassero  il  suo  vivo  desiderio  di  vedere  ormai  favorito  e  rime- 
ritato un  uomo,  per  cui  aveva  grande  stima  ed  affetto.  Il  Marchese 
scrisse  immediatamente  nel  modo  che  l'Aretino  desiderava,  ed  alla  sua 
lettera  *)  dobbiamo  la  fortuna  di  veder  chiarita  dal  Giberti  stesso  la 
parte  da  lui  presa  nel  mancato  assassinio  perpetrato  cinque  anni 
prima  dal  suo  familiare  Achille  della  Volta.  Esprimendo  la  soddisfa- 


*)  Doc.  XXVI. 

')  Leu.  8cr.  all' A.,  I,  62.  —  Lett.  del  Vasone  da  Bologna,  17  maggio  1530. 
')  Doc.  XXVII. 

*J  Doc.  XXVIII.  —  Cfr.  Lett.  scr.  aWA.,  I,  21;  lett.  del  Marchese   in  data 
13  febr.  1530,  anche  questa  conservata  nel  Copialett.,  Lib.  299. 


—  33  — 

zione  che  gli  aveva  recato  la  notizia  della  pace  fatta  con  l'Aretino,  il 
Marchese  si  lasciò  sfuggire  una  frase  oscura,  che  racchiudeva  un'insi- 
nuazione contro  il  Giberti,  a  cui  la  pubblica  voce,  alimentata  dalle 
recriminazioni  dell'Aretino,  attribuiva  una  diretta  responsabilità  in 
quel  biasimevole  fatto.  Il  Giberti  addolorato  rispose  con  una  let- 
tera nobile,  dignitosa,  che  provocò  da  parte  del  Marchese  le  più 
ampie  scuse  ^).  Dopo  aver  rilevato,  con  molto  fine  ironia,  la  grande 
premura  che  il  Marchese  s'era  dato  a  rallegrarsi  della  seguita  con- 
ciliazione, il  Giberti  lo  pregava  a  credere,  con  energica  protesta,  che 
verso  l'Aretino  egli  non  aveva  nulla  a  rimproverarsi  di  men  che  dice- 
vole a  un  cristiano  e  ad  un  prelato.  Quanto  era  stato  fatto  contro 
Pietro,  era  avvenuto  «  senza  ordine,  senza  consenso,  senza  saputa  » 
di  lui,  Giberti',  e  se  n'era  anzi  così  sdegnato  ed  afflitto  che  non 
avrebbe  mancato  di  punirne  maggiormente  l'autore,  se  non  fosse  stato 
«  sforzato  dalli  infiniti  preghi.  »  Infatti  Achille  della  Volta  era  ri- 
masto egualmente  a'  servigi  del  Datario  ^)  :  e  da  questa  dichiarazione 
è  permesso  arguire  che  al  colpo  contro  l'Aretino  avevano  più  o  meno 
concorso  tutti  i  famigliari  del  Giberti,  e  probabilmente  non  ultimo 
il  Berni  stesso,  che  anche  più  tardi  dolente  dell'assassinio  fallito  s'au- 
gurava per  l'Aretino 

un  pugnale 

Miglior  di  quel  d'Achille  e  più  calzante. 


*)  Doc.  XXIX,  XXX. 

')  Noir Archivio  di  Stato  di  Bologna,  tra  le  carte  criminali,  esistono  gli  atti 
d'un  processo  fatto  nel  1542  per  omicidio  contro  Achille  della  Volta  e  Marcan- 
tonio suo  fratello;  del  qual  processo  ha  dato  appena  un  cenno  il  Mazzoni  To- 
SELLi,  Eacconti  storici  estratti  dalVArch.  Crini,  di  Bologna^  Bologna  1870,  II,  322. 
Achille  si  mantenne  sempre  sulla  negativa,  malgrado  le  mille  circostanze  emerse  a 
suo  carico,  resistendo  alla  tortura  con  costanza  ammirabile.  Gli  fu  inflitta  per  più 
giorni  consecutivi  e  all'ultimo  non  reggendo  più  «  dum  ligaretur  dixit:  scrivete 
«  ch'io  mi  protesto  che  se  io  vi  dicessi  cosa  alcuna  me  la  farà  dir  il  tormento  et  la 
«  febre.  »  Ne'  suoi  costituti,  interrogato  e  an  alias  in  urbetemporis  S"»  Clementis  VII 
«  vulnera verit  D.  Petrum  Aretinum  et  quibus  vulneribus,  respondit:  Signor  sì, 
«  che  l'è  il  vero  ch'io  li  detti  doi  ferite  nel  petto.  »  Eichiesto  se  lo  stesso  giorno 
che  ferì  l'Aretino  andò  poi  a  trovarlo  degente  in  letto,  come  nulla  fosse,  risponde: 
«  io  non  mi  ricordo  se  fu  quel  dì  o  un  altro,  ma  l'è  vero  ch'io  l'andai  a  veder 
«  di  poi  che  l'hebbi  ferito,  che  non  si  sapeva  ch'io  fussi  stato  che  l'havesse  ferito.  » 
E  in  seguito,  rettificando  asseriva  d'esserci  andato  perchè  l'Aretino  stesso  ignaro 
dell'untore  del  ferimento  l'aveva  fatto  chiamare  per  esser  raccomandato  al  Datario. 
È  questa  una  circostanza  importante,  che  aggrava  il  tentato  assassinio  co'  carat- 
teri odiosi  dell'agguato,  della  simulazione  e  del  tradimento,  senza  che  appaia  de- 
terminato da  nessuna  ragionevole  causa. 

Loiio  —  Ptttro  Aretino  3 


—  34  — 

Ciò  che  al  caso  renderebbe  la  sua  guerra  contro  l'Aretino  non  in 
tutto  così  bella  e  nobile,  come  è  parso,  con  solennità  a  volte  sover- 
chia, rappresentarla  al  suo  recente  biografo. 


I 


VI. 


La  pace  col  Datario,  che  ad  ogni  altro  sarebbe  parsa  umiliante  i), 
rese  felicissimo  l'Aretino,  che  in  quel  carnevale  si  die  tutto  ai 
sollazzi,  agli  amori,  godendo  con  amici  scapigliati  i  doni  ricevuti 
da  più  parti.  Il  conte  Claudio  Kangoni  gli  mandò  delle  maschere 
di  Modena  2),  il  Marchese  di  Mantova  del  broccato  e  della  tela 
d'oro;  il  conte  Stampa  una  «  veste  di  damasco  sopra  e  sotto  di 
«  velluto  nero,  dentro  e  di  fuora  listata  del  medesimo  velluto  »  e  un 
«  saio  di  velluto  nero,  in  tutti  i  busti  e  per  tutte  le  falde  ricamato  di 
«  cordoni  d'oro  ricchissimamente  ^).  » 

Passato  il  carnevale  tra  le  feste,  le  mascherate,  i  bagordi,  l'Aretino 


*)  Quanto  poco  fosse  sincera  questa  riconciliazione  da  parte  dell'Aretino  lo  mostra 
la  velenosa  invettiva  ch'egli  lanciò  contro  il  Giberti,  appena  morto  Clemente  VII 
(cfr.  Mazzuchelli,  p.  254),  Ci  è  conservata  in  copia  nel  cod.  marciano  CI.  XI  it., 
n"  XL,  a  e.  30:  ha  la  data  di  Venezia  8  ottobre  1534;  e  dopo  un  grido  selvaggio 
di  gioia  per  la  morte  del  Papa,  con  cui  viene  a  mancare  la  fortuna  del  nemico 
Datario,  erompe  verso  quest'ultimo  nelle  più  violente  e  scurrili  contumelie.  Gli 
getta  in  faccia  la  sua  origine  illegittima,  le  disgrazie  d'Italia  dovute  alla  sua  in- 
sipienza politica  —  purtroppo  non  a  torto  — ,  l'ipocrisia  imposta  alla  corte  e  al 
clero  con  le  sue  riforme,  l'ingordigia  nel  beccarsi  i  più  pingui  benefizi.  Con  un 
grottesco  confronto  fra  se  stesso  e  il  Giberti,  l'Aretino  gli  dice:  «  leggi  l'Apoca- 
«  lisse  che  io  ho  fatto  et  i  sette  salmi,  leggi  la  passione  de  Christo  >  ...  e  vedrai 
chi  di  noi  sia  più  religioso.  Dopo  aver  accennato  che  malgrado  le  persecuzioni  del 
Giberti  è  arrivato  a  invidiabile  fortuna  presso  tutti  i  Principi  del  tempo,  l'Aretino 
conclade:  «  attendi  a  viver,  bastardaccio,  ma  perchè  io  spero  di  parlarti  a  bocca  ti 
«  dico  in  ultimo  che  s'io  ho  parlato  bugia  di  quanto  scrivo,  assassinami  im'aUra 
*  volta  ch'io  tei  perdono.  » 

')  Leu.  scr.  alVA.,  I,  46. 

')  Lettere,  I,  18. 


—  35  — 

a  quaresima  si  decise  di  far  penitenza  solenne,  dacché  anche  il  Papa 
s'era  finalmente  arreso  a  perdonargli,  in  seguito  alle  raccomandazioni 
non  solo  del  marchese  Gonzaga  e  di  monsignor  Vasone,  ma  perfino  del 
Doge  di  Venezia.  Ne  ci  voleva  meno  di  così  autorevoli  appoggi,  perchè 
l'Aretino  malgrado  le  sue  promesse  non  aveva  tralasciato  del  tutto  di 
scriver  contro  il  Pontefice,  e  aveva  anzi  commesso  l'imprudenza  di 
pronunziarsi  contro  gli  aggressori  di  Firenze,  e  per  la  libertà  della  re- 
pubblica, appunto  allora  votata  all'estrema  rovina  nel  congresso  di 
Bologna  ^).  Nella  vita  dell'Aretino  quest'intromissione  del  Doge  Gritti 
a  suo  favore  presso  il  Papa  è  un  punto  di  capitale  importanza.  Fin 
allora  l'Aretino  era  rimasto  a  Venezia,  senza  avere  da'  reggitori  della 
Serenissima  una  prova  di  benevolenza  o  d'appoggio  qualsiasi;  ed  egli 
stesso  diceva  in  una  lettera  del  20  aprile  1530  al  marchese  di 
Mantova  che  il  Doge  non  l'aveva  mai  prima  visto  ne  chiamato  ^). 
Pare  sia  stato  il  Vergerlo  che  interessò  il  Gritti  ad  accettare  d'esser  ■ 
per  l'Aretino  mediatore  col  Papa  ;  ma  certo  è  che  da  questa  spiegata 
protezione  incomincia  la  vera  e  stabile  fortuna  dell'Aretino  a  Venezia. 
Ormai  non  era  più  un  semplice  avventuriero,  tollerato  all'ombra 
della  libertà  veneta,  poiché  il  primo  magistrato  della  repubblica  si 
degnava  di  sposare  la  sua  causa,  consacrando  per  così  dire  official- 
mente  la  popolarità  e  la  fama  dell'autore  dei  giudizi^  del  portavoce 
di  Pasquino.  S'era  dunque  riconosciuto  che  egli  poteva  esercitare 
un'influenza  sull'opinione  pubblica,  e  che  non  sconveniva  assicurargli 
asilo  e  protezione  a  Venezia,  lasciando  sbizzarrire  la  sua  penna  e  la 
sua  lingua,  che  se  si  affilavano  contro  i  Principi  non  trovavano  invece 
se  non  inni  di  ammirazione  per  la  repubblica  e  i  suoi  governanti.  E 
l'Aretino  comprese  bene  tutta  l'importanza  di  questa  deferente  dimo- 
strazione del  Doge  a  suo  riguardo;  ed  ei  che  poc'anzi  parlava  di  andare 
in  Francia  3),  dove  di   fatto  pare  lo  si  aspettasse  da  un  giorno  al- 


^)  Leu.  sor.  aìVA.,  I,  144;  Paolo  Guerretto  gli  scrive  da  Firenze  8  genn.  1530: 
<  Si  sono  viste  più  vostre  cose  che  avete  fatte  a  questi  dì  in  laude  di  Fiorenza 
«  e  biasmo  de'  tiranni,  et  in  fra  l'altre  quel  divino  sonetto  :  Or  tacete  ser  libri 
«  cicaloni.  » 

')  Doc.  XXXII.  —  Cfr.  tra  le  Leti.  scr.  alVA.,  I,  14,  una  del  Sanga  a  nome 
del  Papa  che  comincia  :  «  Ne  lo  intendere  Sua  Santità  qualmente  il  Serenissimo 
«  Gritti...  si  è  mosso  a  chiamarvi,  ecc.  »  Evidentemente  erronea  è  la  data  del  1528 
apposta  a  questa  lettera,  e  accettata  a  occhi  chiusi  dal  Mazzuchelli. 

')  Lett.  cit.  dal  Guerretto  che  scriveva  all'Aretino:  «  Donde  son  stato  di  con- 
«  tinuo  li  ho  dato  a  viso  di  me...  e  massime  da  la  corte  di  Pranza,  donde  ho  avuto 
«  occasione  molte  volte...  darle  notizia  di  quanto  huon  nome  quella  è  in  ditta 


-  36  — 

Taltro,  rinunziò  per  sempre  ad  ogni  idea  di  allontanarsi  da  Venezia^ 
pronunziando  VMc  manebimus  optime.  Se  anche  Clemente  VII,  ria- 
micatogli dal  Doge,  l'avesse  di  nuovo  voluto  a  Roma,  Pietro  avrebbe 
adesso  rifiutato.  «  Io  —  scriveva  al  Gritti  in  una  lettera  che  è  come 
la  professione  formale  e  solenne  del  suo  insediamento  definitivo  a 
Venezia  ^)  —  «  io  che  nella  libertà  di  cotanto  stato  ho  fornito  d'im- 
«  parare  a  esser  libero,  refuto  la  Corte  in  eterno  e  qui  faccio  per- 
«  petiM  tabernacolo  agli  anni^  che  m'avanzano^  perchè  qui  non  ha 
«  luogo  il  tradimento,  qui  il  favore  non  può  far  torto  al  diritto,  qui 
«  non  regna  la  crudeltà  delle  meretrici  (?  !),  qui  non  comanda  l'inso- 
«  leoza  dei  ganimedi,  qui,  non  si  ruba,  qui  non  si  sforza,  qui  non  si 
«  amazza.  Perciò  io  che  ho  spaventati  i  rei  et  assicurati  i  buoni  mi 
«  dono  a  voi,  padri  dei  vostri  popoli,  fratelli  dei  vostri  servi,  figliuoli 
«  della  verità,  amici  della  verta,  compagni  degli  strani,  sostegni  della 
«  religion,  osservatori  della  fede,  essecutori  della  giustizia...  Principe 
«  inclito,  raccogliete  l'affettione  mia  in  un  lembo  della  vostra  pietà, 
«  acciò  ch'io  possa  lodare  la  nutrice  de  l'altre  città  e  la  madre  eletta 
«  da  Dio  per  fare  più  famoso  il  mondo...  0  patria  universale,  o  li- 
«  berta  comune,  o  albergo  de  le  genti  disperse,  quanti  sarebbero, 

«  Italia,  i  tuoi  guai  maggiori  se  la  sua  bontà  fusse  minore Dio 

«  vole  che  Venezia  concorra  d'eternità  con  quel  mondo  che  si  stupisce 
«  come  la  natura  le  habbia  fatto  luogo  miracolosamente  in  un  sito 
«  impossibile,  e  come  il  cielo  le  sia  tanto  largo  de  le  sue  doti,  che 
«  ella  risplende  nelle  nobiltà,  nelle  magnificentie,  nel  dominio,  negli 
«  edificii,  nei  templi,  nelle  case  pie,  nei  consigli,  nella  benignità,  nei 

«  costumi,  nelle  vertù,  nelle  ricchezze » 

Ma  anche  più  notevoli  di  quest'inno  in  prosa  sono  alcune  stanze 
inedite  dell'Aretino  in  lode  di  Venezia,  che  dovettero  esser  composte 
nel  medesimo  tempo,  ed  esprimono  eguali  sentimenti,  solo  accentuando 
di  più  il  distacco  che  ormai  intendeva  di  prender  per  sempre  da  Roma. 
Ce  le  conserva  l'importantissimo  cod.  marciano  più  volte  citato  (CI.  XI 
it.,  n°  LXVI,  a  e.  433  e  sgg.),  e  malgrado  l'impudenza  dell'esordio 
è  certo  la  poesia  più  nobilmente  ispirata  che  rimanga  dell'Aretino. 


«  corte,  presso  la  Maestà  del  Re  e  dei  grandi:   et  in  vero  io  speravo  nanzi  me 
«  partissi  de  là  voi  arrivasti,  che  così  lì  si  parlava.  » 

*)  Lettere,  I,  2.  —  È  senza  data  e  il  Mazzuchelli,  e  dietro  lui  la  turba  pappa- 
gallesca, la  dà  come  del  1527.  Ma  è  chiaro  che  fu  scritta  del  1530,  dacché  TAre- 
tlno  ringrazia  il  Doge  d'averlo  difeso  *  riducendolo  in  gratia  di  Clemente.  » 


37  — 


P.  A.  in  laude  di  Venetia. 

Quel  ch'hebbe  in  ascendente  l'Evangelo 
Ch'è  chiamato  censor  del  vicio  borrendo, 
Quel  ch'hebbe  in  dote  alma  virtù  dal  cielo, 
Il  flagello  de'  Principi  tremendo  ^), 
Quel  ch'ama  i  buoni  cum  fervente  zelo 
Et  che  sempre  li  rei  vanno  fuggendo. 
Dell' Aretin  parl'io,  liber  sincero 
Ardito  et  sol  predicator  del  vero, 

Pietro  Aretino  acerrimo  molt'anni 
Visto  ha  di  Eoraa  i  templi  e  i  colisei, 
Gli  archi,  bei  premi  ia  i  marciali  affanni, 
E  de  la  terra  universa  i  trophei, 
Nell'opre  antiche  le  mine  e  i  danni, 
Le  statòe  sacre  e  i  degni  semidei, 
Et  spesso  ha  fatto  gli  occhi  e  rossi  e  molli 
Visti  ignudi  di  pompa  i  sette  colli. 

E  l'altere  memorie  contemplando 

Stupito  u'  parlan  le  pitture  e  i  marmi, 

Dicati  al  nome  de'  Cesari  quando 

Ogni  clima  espugnar  per  forza  d'armi, 

E  seco  e  col  pensier  commemorando 

Quel  che  vedeva  et  ciò  ch'ha  letto  in  carmi 

Gli  parca  così  guasta  e  cosi  doma 

Del  ciel  più  magna  et  più  stupenda  Roma. 

Et  se  '1  piacere  a  sé  '1  rl^bava  in  parte 
Che  Roma  spesso  vide  in  propria  idea, 
Et  hor  mirando  la  materia  hor  l'arte 
Converso  in  quella  età  lieto  godea, 
Poi  tornando  in  se  stesso  a  parte  a  parte 
Non  già  del  tempo  avaro  ei  si  dolca 
Ma  de  la  vile  et  hodierna  prole 
Et  dolente  dicea  queste  parole: 


i)  Il  Cod.  marciano  CI.  IX  it.  n"  CCXIII  ha  una  «  Vita  dello  infame  Aretino  > 
attribuita  al  Doni  nel  catalogo:  nella  quale  si  afferma  che  il  sopranome  di  <  Fla- 
gello dei  Principi  »  fu  dato  a  Pietro  da  Clemente  VII.  Ma  —  soggiunge  l'ano- 
nimo libello  —  l'Aretino  stesso  mostrò  in  un  sonetto  quanta  poca  fede  dovesse 
darsi  a  quel  Papa,  nel  cui  nome  diceva 

Mutate  lo  L  in  aspiratione 

Et  udirete  dir  Papa  che  mente. 


—  38  - 

Alte  ruine  et  mura  ancho  ammirande 

Ch'oggi  honorate  le  excellentie  antiche.... 

S'un  raggio  di  virtù  fusse  tra  noi 

Riche  e  superbe  hoggi  sareste  voi. 
L'ombre  ch'errato  havean  da  loco  in  loco 

Secoli  tanti  infra  tante  mine 

In  eco  trasformate  a  poco  a  poco 

Rispondevano  in  voci  alte  e  divine: 

La  non  più  nostra  et  bella  Roma  in  gioco 

Viverebb'anco  e  in  pompa  senza  fine 

Se  i  nostri  indegnamente  successori 

Amasser  più  la  fama  che  i  tesori. 
Come  '1  cor  aghiacciò  nei  cori  ardenti 

A  quei  che  per  virtù  guadagnar  l'ali, 

Come  successer  le  malvagie  genti 

A  le  genti  famose  et  immortali, 

Cadder  di  Roma  i  tetti  onnipotenti 

E  i  luoghi  divi  si  férno  mortali, 

Né  più  è  Campidoglio  il  Campidoglio 

Che  dòmo  vide  già  l'umano  orgoglio. 
Ma  se  la  stirpe  de'  moderni  tanto 

Non  offendea  Panticha  architettura, 

Roma  che  '1  mondo  si  fò  servo  intanto  ' 

Che  un  secol  vive  et  una  etate  dura 

Saria  con  sua  gran  macchina  in  quel  vanto  | 

Che  a  la  eternità  facea  paura  j 

Di  non  poter  seguirla  eternalmente  I 

Di  tempo  in  tempo  et  d'una  in  altra  gente.  ! 

Partissi  l'Aretin,  poi  ch'egli  vide  i 

L'empia  generation  de'  tempi  nostri  j 

Che  d'una  sì  gran  perdita  si  ride,  | 

Né  c'è  chi  a  dito  altro  che  '1  vi  ciò  mostri j 

E  quando  agli  occhi  suoi  Vinegia  aparse  [ 

Così  magno  spettacolo  e  sì  degno [ 

Lacrime  il  cor  fuor  da  le  luci  sparse 

Abassò  i  labri  et  inalciò  le  ciglia 

Per  la  meravigliosa  meraviglia. 


E  qui  segue  una  descrizione  enfaticamente  barocca  di  Venezia  :  i 
superbi  palazzi  in  cui  s'intrecciano  i  marmi,  i  mosaici,  e  gli  ori; 
l'arsenale  ove  si  costruiscono 


A  porre  il  freno  al  gran  furor  de'  venti 

I  legni  senza  numero  e  forbiti 

Per  Cristo  spesso  in  le  sals'onde  usciti. 


Ma  tutto  è  nulla  davanti  alla  bellezza  delle  sue  donne,  onde 

...  sotto  il  nero  trasparente  velo 

Veggonsi  in  carne  gli  angioli  del  cielo. 
*  Dipingi,  0  Tician,  spirto  perfetto, 

L'alte  immagini  lor,  fanne  altrui  parte, 

Gioveni  delicati  aprite  il  petto 

Sacrando  lor  di  voi  la  miglior  parte, 

Del  nome  lor  col  vostro  ingegnio  eletto 

Kisonar  fate  le  bramose  carte, 

Et  toccha  a  voi  che  ad  Apol  state  in  grembo 

Immortai  Navagèro  e  divin  Bembo. 
Padri  conscripti,  benché  tante  e  tali 

L'Aretin  meraviglie  ha  visto  e  vede, 

Sino  al  thesor  di  quel  che  batte  l'ali 

In  terra  e  in  mar,  pien  di  giusticia  e  fede, 

A  le  vostr'alme  maestà  immortali, 

Al  cui  valore  ogni  potentia  cede, 

Servo  si  fece  et  con  dritto  judicio 

Vi  voi  far  del  suo  ingegno  sacrificio. 
0  consuli,  0  tribuni,  o  senatori, 

0  giustissimi  padri,  o  padri  egregi, 

Voi  tutti  ne  sembrate  Imperatori 

Et  di  consigli  e  d'armi  havete  i  fregi, 

Voi  sete  quelli,  voi,  che  i  tolti  honori 

Benderete  a  l'Italia  e  i  summi  pregi 

Voi  meritate  raagior  laude  hormai 

Che  non  fé  chi  di  Koma  hebbe  il  governo, 

Perché  l'antico  honor  vince  d'assai 

Il  vostro  bel  reggimento  moderno. 

Mercè,  Venetia,  che  tai  figliuol  hai 

Che  l'esser  tuo  amplierà  in  eterno. 

Roma  è  già  nulla  et  era  onnipotente 

Et  tu  vivi  regina  ch'eri  niente. 

E  seguendo  di  questo  passo,  fra  l'altre,  con  la  pili  grottesca  adula- 
zione dice  del  Doge  : 

reggerla  il  tuo  Principe  Andrea  Gritti 

Due  Venetie,  tre  Eorae  e  quattro  Egitti!!... 

Ecco  la  chiusa: 

Diria  più  oltre  PAretin  ma  ingrato 
Sarebbe  al  cener  del  figliol  di  Marte 


—  40  — 

In  Mantova  in  sepolcro  vii  serrato 
Dove  Phidia  e  Prassitel  non  ha  parte, 
E  perchè  lui  Giovanni  è  intitolato 
Per  tutto  son  colossi  et  statoe  sparte, 
Né  fu  il  Mausoleo  sì  ornato  come 
L'urna  sua  fregia  il  suo  famoso  nome. 

Mancherebb'ancho  a  quella  gran  bontade 
Del  magnanimo  e  invitto  Federico, 
Il  qual  virtù  in  questa  ferrea  etade 
Solamente  ha  trovato  ottimo  amico^ 
Nacque  il  dì  che  nacqu'egli  la  pietade 
Et  sen  venne  con  lui  dal  tempo  anticho 
La  cortesia,  la  constantia  e  '1  valore. 
Aiutatel  voi  muse  a  fargli  honore. 

Perdonategli  o  Padri  venerandi 

Che  son  gl'idoli  suoi  questi  duo  numi, 
Un  vive  e  regna  e  de  inchiostri  notandi 
Brama  di  celebrarlo  in  più  volumi. 
L'altro  è  sotterra  e  vince  imprese  grandi 
Sol  col  gran  nome  et  passa  mari  e  fiumi 
E  a  l'altra  vita  stassi  lieto  e  bello 
Con  Alexandro,  Cesare  et  Marcello. 


VII. 


Alla  conciliazione  col  Papa  il  Doge  aveva  posto  all'Aretino  per  patto 
«  di  levar  dal  suo  libro  (della  Marfisa)  tutte  quelle  cose  in  le  quali 
«  dicea  male  di  Sua  Santità  et  in  loco  di  quelle  dir  bene  di  lei  »  e  del 
Datario,  e  oltreciò  che  da  buon  cristiano  dovesse  confessarsi  e  comu- 
nicarsi «  il  che  non  havea  fatto  già  qualche  anni  ».  L'Aretino  promise 
ed  osservò  fedelmente;  e  l'ambasciator  Malatesta  ce  lo  descrive  in 
una  bellissima  lettera  «  con  la  confession  in  mano  et  con  lagrime  alli 
«  occhi  »,  che  piangeva  i  suoi  peccati,  proponendosi  di  cambiar  vita 
interamente  ^). 


*)  Doc.  XXXI. 


—  41  — 

Il  Papa  gli  aveva  fatto  sperare  non  solo  il  privilegio  per  la  stampa 
del  poema,  ma  altresì  un  dono  di  somma  cospicua  ^).  L'Aretino  il 
20  aprile  ne  scriveva  trionfante  al  marchese  di  Mantova,  annun- 
ziando poi  d'aver  ricevuto  di  que'  giorni  dal  marchese  di  Monferrato 
principeschi  regali  per  più  centinaia  di  scudi.  Era  vero:  partito  da 
Bologna,  dov'era  stato  per  l'incoronazione  di  Carlo  V,  il  marchese  di 
Monferrato  s'era  recato  a  Venezia  (l'Aretino  pretendeva  apposta  per 
veder  lui)  e  aveva  voluto  che  Pietro  stesse  sempre  in  sua  compagnia, 
l'aveva  onorato  ed  accarezzato  infinitamente,  e  nel  lasciargli  infine 
splendidi  doni  l'aveva  con  insistenza  richiesto  a'  propri  servigi  ^).  Con 
la  sua  mirabile  scaltrezza  l'Aretino  magnificava  questi  favori  e  questi 
inviti  del  marchese  di  Monferrato  per  stuzzicare  l'amor  proprio  del 
Gonzaga,  ed  eccitarlo  una  buona  volta  ad  essergli  mecenate  più  li- 
berale. 

Quando  mai  —  ripeteva  —  avrebbe  avuto  qualche  cosa  di  più 
proficuo  che  non  i  soliti  regali  di  vestiario?  Non  avrebbe  lasciato 
il  marchese  di  Mantova  ne  per  Ke,  né  per  Papi,  ne  per  tutti  i 
Principi  del  mondo:  ma  bisognava  trattarlo  più  lautamente,  non 
tenerlo  quasi  affamato;  o  altrimenti  la  necessità  lo  avrebbe  spinto 
a  prender  partito  con  altro  padrone,  e  accettare  fors'anco  le  offerte 
del  marchese  di  Monferrato,  che  aveva  chi  sa  quali  riposti  disegni 
per  deviarlo  dalla  servitù  del  Gonzaga.  Ormai  non  aveva  che  l'im- 
barazzo della  scelta  tra'  protettori,  la  bottega  era  bene  avviata. 
Come  lui  v'erano  pochi  forestieri  onorevoli  a  Venezia,  aveva  casa  sul 
Canal  grande,  cinque  servitori  riccamente  vestiti,  tavola  sempre  im- 
bandita. Nessuno  poteva  vincerlo  di  cortesia:  se  il  marchese  di  Mon- 
ferrato gli  era  stato  generoso,  non  aveva  però  voluto  l'Aretino  scapitare 
al  confronto,  ed  oltre  ad  un'impresa  d'oro  e  un  bel  presente  di  profumi 
già  datigli,  stava  per  mandargli  un  superbo  specchio  con  medaglioni 
magnifici  di  mano  di  Valerio  vicentino.  Era  un  dono  da  principe,  che 
a  tutt'altri  sarebbe  costato  un  occhio  del  capo,  e  chi  sa  quanto  tempo 
perchè  fosse  finito  ;  e  lui  l'aveva  avuto  subito  e  per  poco,  tanto  era 
l'ascendente  che  esercitava  e  il  favore  che  otteneva  da  tutti,  dagli 
artisti  segnatamente.  —  Non  erano  fatue  vanterie  :  realmente  l' Aretino 
poteva  ora  inorgoglire  della  più  florida  agiatezza,  e  aveva  già  preso 


^)  Leti.  dlVA.,  I,  60.  Marco  di  Nicolò  scrive  da  Roma  5  maggio  1530  che 
il  Papa  gli  ha  mostrato  un  sacchetto  di  cinquecento  scudi,  chiedendo  se  debba 
0  no  mandarli  all'Aretino. 

')  Lettere,  I,  18;  e  Lett.  aWA.,  I,  57  e  68. 


-  42  — 

abitazione  sul  Canal  grande  in  quella  regia  casa  del  nobile  Domenico 
Bolani,  che  ci  ha  con  vivacità  pittoresca  descritto  in  una  sua  lettera 
al  padrone  stesso,  al  quale  forse  con  questa  reclame  pensava  di  pagare 
il  fitto  1). 

«  Egli,  onorando  gentiluomo,  mi  pare  peccare  nella  ingratitudine, 
«  se  io  non  pagassi  con  le  lodi  una  parte  di  quel  che  son  tenuto  a  la 
«  divinità  del  sito,  dove  è  fondata  la  vostra  casa,  la  quale  habito  con 
«  sommo  piacere  della  mia  vita,  per  ciò  che  ella  è  posta  in  luogo  che  ne  '1 
«  più  giuso  né  '1  più  suso,  ne  '1  più  qua  ne  '1  più  là  ci  trova  menda.  Onde 
«  temo  entrando  nei  suoi  meriti,  come  si  teme  a  entrare  in  quegli 
«  dello  Imperadore.  Certo,  chi  la  fabricò  le  diede  la  perminenza  del 
«  più  degno  lato  ch'habbia  il  Canal  grande.  E  per  esser  egli  il  Pa- 
«  triarca  d'ogni  altro  rio,  e  Venezia  la  papessa  d'ogni  altra  cittade, 
«  posso  dir  con  verità  ch'io  godo  della  più  bella  strada  e  della  più 
«  gioconda  veduta  del  mondo.  Io  non  mi  faccio  mai  a  le  finestre ,  ch'io 
«  non  vegga  mille  persone  et  altre  tante  gondole  su  l'hora  dei  mer- 
«  catanti.  Le  piazze  del  mio  occhio  diritto  sono  le  beccarie  e  la  pe- 
«  scaria,  et  il  Campo  del  Mancino,  il  ponte  et  il  fondaco  dei  Tedeschi: 
«  a  l'incontro  di  tutti  e  due  ho  il  Kialto  calcato  d'huomini  da  fac- 
«  cende.  Hocci  le  vigne  nei  burchi,  le  caccie  e  le  uccellagioni  nelle 
«  botteghe,  gli  horti  nello  spazzo  ;  né  mi  curo  di  veder  rivi  che  irri- 
«  ghino  prati,  quando  all'alba  miro  l'acqua  coperta  d'ogni  ragion  di 
«  cosa,  che  si  trova  nelle  sue  stagioni.  E  bel  trastullo  mentre  i  con- 
«  duttori  della  gran  copia  dei  frutti  e  de  l'herbe  le  dispensano  in 
«  quegli  che  le  portano  ai  luoghi  deputati.  Ma  tutto  é  burla  eccetto 
«  lo  spettacolo  de  le  venti  e  venticinque  barche  con  le  vele,  piene  di 
«  melloni,  le  quali  ristrette  insieme  si  fanno  quasi  isola  a  la  molti- 
«  tudine  corsa  a  calculare  e  col  fiutargli  e  col  pesargli  la  perfettione 
«  loro.  De  le  belle  spose  relucenti  di  seta,  d'oro  e  di  gioie  super- 
«  bamente  poste  nei  trasti,  per  non  iscemar  la  reputatone  di  cotanta 
«  pompa  non  parlo  ;  dirò  ben,  io  mi  smascello  de  le  risa,  mentre  i 
«  gridi,  i  fischi  e  lo  strepito  dei  barcaiuoli  fulmina  dietro  a  quelle 
«  che  si  fan  vogare  da  famigli  senza  le  calze  di  scarlatto.  E  chi  non 
<  s'haveria  pisciato  sotto  vedendo  nel  cuor  del  freddo  rovesciarsi  una 
«  barca  calcata  di  Thedeschi,  pur  allhora  scappati  de  la  taverna,  come 
«  vedemmo  il  famoso  Giulio  Camillo  et  io  ;  la  cui  piacevolezza  mi 


*)  Lettere,  I,  169.  —  Di  là  godeva  quello  stupendo  panorama  sull'ora  del  tra- 
monto, che  ha  descritto  nella  famosa  lettera  a  Tiziano  (III,  48). 


_  43  — 

«  suol  dire  che  l'entrata  per  terra  di  sì  fatta  habitatione  per  essere 
«  oscura,  mal  destra,  e  di  scala  bestiale  simiglia  a  la  terribilità  del 
«  nome  acquistatomi  ne  lo  sciorinar  del  vero,  e  poi  soggiugne  che 
«  chi  mi  pratica  punto  trova  ne  la  mia  pura ,  schietta  e  naturale 
«  amicitia  quella  tranquilla  contentezza  che  si  sente  nel  comparire 
«  nel  portico  e  ne  l'affacciarsi  ai  balconi  sopradetti.  Ma  perchè  niente 
«  manchi  a  le  delitie  visive,  ecco  ch'io  vagheggio  da  un  lato  gli 
«  aranci  che  indorano  i  piedi  al  palazzo  dei  Camerlinghi,  e  da  l'altro 
«  il  rio  et  il  ponte  di  San  Giovan  Grisostomo,  né  il  sol  del  verno  ar- 
«  disce  mai  di  levarsi  se  prima  non  dà  motto  al  mio  letto,  al  mio 
«  studio,  a  la  mia  cecina,  a  le  mie  camere  et  a  la  mia  sala.  E  quel 
«  che  più  stimo  è  la  nobiltà  dei  vicini.  Io  ho  al  dirimpetto  l'elo- 
«  quente  magnificenza  de  l'honorato  Maffio  Lioni,  le  cui  supreme 
«  vertù  hanno  instituito  la  dottrina,  la  scienza,  et  i  costumi  nel  su- 
«  blime  intelletto  di  Girolamo,  di  Piero  e  di  Luigi  suoi  mirabili 
«  figliuoli.  Hovvi  ancho  la  Sirena,  vita  et  anima  dei  miei  studi. 
«  Hovvi  il  magnifico  Francesco  Moccinico,  la  splendidezza  del  quale 
«  è  continua  mensa  dei  cavalieri  e  di  gentilh  uomini  ;  veggomi  acanto 
«  il  buon  M.  Giambattista  Spinelli,  nella  cui  paterna  casa  si  stanno 
«  i  miei  Cavorlini,  che  Iddio  perdoni  a  la  fortuna  il  torto  fattogli 
«  dalla  sorte.  Ne  mi  tengo  piccola  ventura  la  cara  e  costumata 
«  vicinanza  de  la  signora  Jacopa.  In  somma,  s'io  pascessi  così  il 
«  tatto  e  gli  altri  sensi,  come  pasco  il  viso,  la  stanza  che  io 
«  laudo  mi  saria  un  paradiso,  per  ciò  che  io  lo  contento  di  tutti 
«  gli  spassi  che  gli  ponno  dare  i  suoi  obietti.  Ne  mi  si  scordano  i 
«  gran  maestri  forestieri  e  della  terra,  che  frequentano  di  passarmi 
«  dintorno  a  l'uscio,  ne  l'alterezza  che  mi  solleva  al  cielo  nell'andar 
«  giù  e  su  del  Bucentoro,  ne  del  corso  de  le  barche,  ne  de  le  feste  per 
«  cui  di  continuo  trìompha  il  canale  signoreggiato  da  la  mia  vista. 
«  Ma  dove  si  rimangono  i  lumi  che  doppo  la  sera  paiono  stelle  sparse 
«  u'  si  vende  la  robba  necessaria  ai  nostri  desinari  et  a  le  nostre  cene  ? 
«  Dove  le  musiche  che  la  notte  poi  mi  grattano  l'orecchie  con  la  con- 
«  cordia  de  le  lor  consonanze?  Prima  si  esprimerebbe  il  giuditio  pro- 
«  fondo  che  voi  havete  nelle  lettere  e  nel  governo  publico,  ch'io  po- 
«  tessi  venire  al  fine  dei  diletti  ch'io  provo  nelle  commodità  del  vedere. 
«  Per  ciò  se  qualche  spirto  nelle  ciancio  da  me  scritte  respira  con 
«  fiato  d'ingegno,  vien  dal  favore  che  mi  fanno  non  l'aura,  non  l'ombre, 
«  non  le  viole  e  non  il  verde,  ma  le  gratie  ch'io  ricevo  da  la  felicità 
«  ariosa  di  questa  vostra  magione,  nella  qual  consenta  Iddio  ch'io 
«  annoveri  con  sanità  et  vigore  gli  anni  che  deverebbe  vivere  un 
«  huomo  da  bene.  » 


~  44  — 

In  questa  casa  l'Aretino  restò  per  oltre  vent'anni  i),  e  sin  da'  primi 
tempi  la  fece  convegno  a  liete  e  chiassose  brigate  d'artisti,  di  avven- 
turieri, di  cortigiane.  Nel  novembre  del  1529,  scrivendo  al  mantovano 
Girolomo  Agnello  che  gli  aveva  mandato  del  vino  squisito,  l'Aretino 
diceva  di  essersi  veduta  «  tanta  turba  all'uscio  »  che  pareva  o  ch'egli 
facesse  miracoli  o  là  ci  fosse  il  giubileo.  I  suoi  servitori  erano  tutti  in 
faccende  per  riempire  de' grandi  fiaschi  di  quel  vino  da  regalarne 
quanti  ambasciatori  erano  a  Venezia  —  cominciando  dal  francese  — 
e,  aggiungeva,  «  ciascun  buon  compagno  si  fa  venir  sete  a  posta  per 

«  venire  a  tracannarne  due  o  tre  bicchieri E  parmi  un  bel  che, 

«  sendo  in  bocca  fin  de  le  p e  de  le  taverne  per  amor  de  la  sua  dol- 

«  cezza  che  bascia  e  morde  :  e  la  lagrimetta  che  pone  in  su  gli 
«  occhi  di  chi  ne  bee,  mi  fa  lagrimare  mentre  ch'io  ne  ragiono  con 
«  la  penna.  Hor  pensate  ciò  che  mi  faria  vedendolo  saltare  nel  suo 
«  color  brillante  in  una  tazza  di  vetro  puro  ben  lavata  ».  Davvero, 
conchiudeva,  che  diventerò  divino^  se  potrò  spesso  farmi  onore  di  vino 
così  fatto  da  dispensare,  e  da  levarne  il  grido  per  tutta  Venezia  ^). 


*)  Nel  sesto  delle  Lettere,  p.  37,  abbiamo  il  curioso  congedo  dell' A.  al  suo  pa- 
drone di  casa,  che  viceversa  l'aveva  dato  prima  lui  all'inquilino  poco  esatto  ne'  paga- 
menti. La  lettera  è  intitolata  «  Allo  ecc.  »  ma  che  si  tratti  del  Bolani  si  comprende 
subito  dalle  prime  linee:  «  Signore  prestantissimo  et  honorando,  io  vi  restituisco 
«  le  chiavi  di  quella  casa  da  me  XXII  anni  habitata,  con  lo  istesso  riguardo  che 
«  havrei  usato  se  fusse  suta  la  mia;  né  mi  s'alleghi  ninna  ragione  con  tra  al  pio 
«  verci  per  tutto  et  l'esser  da  ciascuna  parte  in  rovina »  Ma  egli  l'amava  egual- 
mente, perchè  là  eran  nate  le  sue  figlie,  là  aveva  composto  i  suoi  migliori  lavori  ; 
ed  aveva  fatto  tutto  il  possibile  per  abbellirla.  «  Si  guardi  la  camera,  dove  mi 
«  pensavo  di  tuttavia  godermela,  et  vedrassi  nelle  figure  del  soffitto,  nella  poli- 
«  tezza  del  terrazzo  et  nelle  altre  cose  del  sopraletto  et  del  camino  che  anco  delle 
«  discort€sie  con  la  cortesia  mi  vendico,  »  Si  lagna  amaramente  di  tailta  villania 
del  padrone  che  mette  alla  porta  un  inquilino,  garantito  dall'Imperatore  in  per- 
sona; e  soggiunge  in  aria  di  trionfo:   «  intanto  me  ne  vado con  doppia  somma 

«  di  fitto  alla  stanza  signorilmente  commoda,  all'habitatione  che  ho  tolta  in  su  la 

«  riva  del  Carbone »  Era  la  casa  in  parrocchia  di  S.  Luca,  dove  morì  nel  1556 

(cfr.  Tassini,  Curiosità  veneziane,  Venezia  1882,  p.  131;  e  un  articolo  del  me- 
desimo, neU'^rc^.  veneto,  t.  XXXI,  fase.  61,  Delle  abitazioni  in  Venezia  di  P.  A.). 
Quella  lettera  al  Bolani  ha  la  data  del  gennaio  1551,  onde  è  chiaro  che  l'Aretino 
andò  ad  abitarne  la  casa  nel  1529. 

')  Lettere,  I,  17.  —  E  nel  dicembre  del  1530,  G.  Rovero  gli  faceva  avere  del 
vino  d'Asti  :  «  senza  alcun  suo  carigo  —  scriveva  —  glielo  lo  darò  condutto  in 
«  sua  casa,  per  non  farla  litigar  col  dazio,  crudele  troppo,  de  Venetia,  e  farò  ogni 
«  estremo  per  dar  buona  guardia  al  burchio,  acciò  che  li  traditori  barcaroli  non 
«  glie  lo  adaquino.  »  Lett  all' A.,  I,  59. 


—  45  — 

—  Che  importava  a  lui  se  in  un  brutto  momento  —  come  gli  av- 
venne nell'ottobre  1530  ^)  —  si  trovava  svaligiata  la  casa-  da  infedeli 
servitori  e  cinedi  che  lo  lasciavano  al  verde  ?  Egli  aveva  ormai  ben 
il  modo  di  rifornirla  ad  altrui  spese,  e  passata  la  spiacevole  avventura 
ritornava  come  prima  spensierato  e  gaudente  fra'  suoi  degni  compagni 
di  gozzoviglie  e  di  maldicenza. 

Uno  di  questi,  Lorenzo  Veniero,  appena  ventenne,  era  sopra  tutti 
carissimo  all'Aretino,  che  ne  aveva  fatto  il  suo  scudiero,  il  suo  al- 
lievo migliore  ^)  :  e  il  giovane  patrizio,  prostituendo  il  proprio  in- 
gegno, esordì,  appunto  nel  1530,  sotto  gli  auspici  dell'Aretino  con  la 
P.  Errante,  a  cui  l'anno  appresso  faceva  seguito  col  Trentuno  o  la 
Zaffetta.  La  data  del  primo  di  questi  oscenissimi  poemetti  —  su  cui 
i  bibliografi  danno  così  scarse  e  arruffate  notizie^)  —  si  può,  a  me 
pare,  stabilire  con  sicurezza  dal  capitolo  dell'Aretino  al  Duca  di  Man- 
tova, che  si  legge  nella  raccolta  delle  opere  burlesche  *).  —  Tutto 
occupato  nel  far  gli  onori  di  casa  all'Imperatore,  che  reduce  da  Bo- 
logna si  trattenne  in  Mantova  dal  25  marzo  al  20  aprile  ed  elevò 
allora  il  Marchese  a  Duca,  Federico  Gonzaga  in  risposta  alle  petu- 
lanti richieste  dell'Aretino  l'aveva  pregato  a  pazientare  sino  alla  par- 
tenza di  Carlo  V,  dopo  di  che  senza  fallo  avrebbe  ricevuto  un  grazioso 
presente.  Ma  il  principe  tardò  dell'altro  ancora  ;  ed  è  a  tale  occasione 


*)  Doc.  XLI. 

')  Da  una  lettera  dell'Aretino  (III,  333)  al  magnifico  M.  Francesco  Zeno  appare 
che  era  stato  questo  patrizio  «  a  commettere  il  Veniero  Lorenzo...  a  la  cura  »  di 
Pietro  ;  onde,  si  vantava,  «  è  riuscita  Sua  Magnifìcentia  de  la  stima  che  ognun 
vede  »! 

')  Cfr.  Mazzuchelli,  p.  208;  Zeno,  Lettere,  III,  399;  Virgili,  op.  cit,  p.  259.  — 

10  ho  potuto  procurarmi  la  riproduzione  fattane  dal  Liseux,  Parigi  1883.  È  quanto 
di  più  rivoltante  può  immaginarsi;  roba,  davvero,  contro  tutte  le  tentazioni  dei 
sensi.  Dal  contesto  d^oiVErrante  non  si  può  rilevare  quando  precisamente  fosse 
scritta.  Pure  alcuni  versi  della  dedica  all'Aretino  confermano,  parmi,  che  uscisse 
del  1530.  Il  Veniero  infatti  si  raccomanda  all'ispiratore  Aretino 

per  quel  terrore 

Che  ne'  vitij  de'  Prencipi  ognhor  metti 
Pel  Ee,  pel  Papa,  e  per  l'Imperatore 
Che  temon  l'ombra  de'  tuoi  gran  sonetti. 

11  poemetto  dev'essere  dunque  anteriore  alla  pace  solenne  fatta  col  Papa  in  quel- 
l'anno. 

*)  ed.  Usecht,  III,  38. 


—  46  — 

che  si  riferisce  certamente  lo  sguaiato  capitolo  dell'Aretino,  nel  quale 
appunto  si  accenna  come  a  cosa  recentissima  alla  promozione  ducale. 

Non  so  se  l'indugiar  tanto  al  venire 

Quella  faccenda  li  causasse  '1  nome 

Che  '1  Marchese  ebbe  in  Duca  a  convertire. 
Certo  il  mal  vien  di  qui:  e  se  io  come 

Supplicai  al  Duca,  chiamava  il  Marchese 

Venivano  le  grazie  a  carri  e  a  some. 
Quel  nome  Ferrarese  e  Milanese 

V'ara  per  rovinarmi  trasformato 

In  Alfonso  e  Francesco  buone  spese *) 

E  comincio  a  bravare:  il  buono  e  '1  bello 

Marchese  manderammi  presto  presto 

Una  valigia  inzeppata  d'orpello 

Ma  perchè  io  sento  il  presente  all'odore 

Un'operetta  in  quel  cambio  galante 

Vi  \nando  ora  in  stil  ladro  e  traditore 
Intitolata  La  Puttana  Errante 

Dal  Veniero  composta  mio  creato 

Che  m'è  in  dir  mal  quattro  giornate  inante 

Il  poemetto  ei*a  dedicato  all'Aretino  —  al  quale  nondimeno  si  attri- 
buiva una  diretta  partecipazione  nell'opera,  ond'ebbe  a  protestare 
energicamente  il  Veniero  nella  Zaffetta  ^)  —  e  Pietro  offriva  V Er- 
rante al  duca  di  Mantova  come  una  vera  e  appetitosa  primizia,  per 
sollecitare  l'atteso  regalo.  E  infatti  il  21  maggio  il  Gonzaga  inviava 
all'Aretino  «  alcune  cosette  »,  come  attestato  dell'obbligo  grande,  che 
gli  aveva  per  le  sue  «  divine  composizioni  »  in  onor  della  casa  ;  e  nel 
tempo  stesso  lo  rimproverava  perchè  «  essendo  passati  tanti  belli  sub- 
bietti  »  avesse  lasciato  «  amutire  messer  Pasquino  »  egli  che  sapeva 
«  così  bene  far  parlar  le  pietre  ^)  »  —  Collegando  dunque  il  capitolo 
al  duca  di  Mantova  co'  documenti  relativi  al  dono  che  l'Aretino  aspet- 
tava *),  se  ne  trae  per  certo  che  V Errante  dovè  esser  divulgata  nella 
primavera  del  1530.  Anche  dopo  la  partenza  dell'Imperatore  da  Man- 


*)  È  una  stoccata  satirica  a'  Duchi  di  Ferrara  e  Milano ,  della  cui  generosità 
l'Aretino  non  aveva  ancora  a  lodarsi. 

•)  Virgili,  p.  240.  —  La  ristampa  della  Zaffetta,  Parigi  1861,  ho  potuto  esa- 
minare per  cortesia  del  ricco  bibliofilo,  march.  Ippolito  Cavriani.  —  Su'  due  poe- 
metti osceni  del  Veniero  veggasi  V Appendice  III. 

»)  Lett.  aWA.,  I,  21. 

*)  Doc.  XXXI,  XXXII. 


—  47  — 

tova,  il  Gonzaga  lasciò  passare  un  mese  prima  di  attenere  la  sua  pro- 
messa: ed  è  quindi  dall'aprile  al  21  maggio  1530  che  fu  scritto  il  ca- 
pitolo, con  cui  s'accompagnava  l'Errante.  Nel  febbraio  1531  l'Aretino 
era  già  in  disgrazia  del  Duca.  Se  poi  quel  poemetto  fosse  inviato  in 
copia  manoscritta  od  a  stampa,  è  difficile  stabilire,  perocché  i  biblio- 
grafi non  hanno  altra  notizia  che  della  supposta  edizione  del  1531  in 
cui  V Errante  è  unita  alla  Zaffetta:  al  secondo  poemetto  scritto  dal 
Veniero,  con  non  meno  ributtante  sudiceria,  per  provare  che  il  primo 
era  proprio  tutta  farina  del  suo  sacco,  senza  che  vi  entrasse  la  mano  del 
diletto  maestro. 


Vili. 


Aspettando  anche  dal  Papa,  non  senza  malumore  pel  ritardo,  la 
somma  convenuta  a  suggello  della  pace  fatta,  l'Aretino  attese  a  com- 
piere la  Marfisa,  per  cui  aveva  già  assicurato  il  privilegio  richiesto. 
Federico  Gonzaga,  a  crescer  splendore  alla  nuova  dignità  ducale,  tor- 
nava ad  accalorarsi  di  veder  condotto  a  termine  il  poema,  e  ripren- 
deva le  sue  generose  abitudini  verso  l'Aretino  per  riaccenderne  l'estro. 
Il  caldo  in  quell'estate  era  più  che  mai  soffocante,  e  il  Duca  pregava 
con  insistenza  l'Aretino  che,  a  svago  delle  lunghe  ed  uggiose  giornate, 
gli  facesse  aver  spesso  sue  composizioni,  e  soprattutto  quant'altro 
veniva  scrivendo  della  Marfisa  i).  L'Aretino  infatti  gli  mandò  allora 
le  stanze  della  genealogia  de'  Gonzaga,  inserite  nel  poema,  oggi  per- 
dute e  probabilmente  distrutte  insieme  alle  parecchie  migliaia  di  stanze 
che  l'Aretino  disse  d'aver  bruciato  del  poema  2).  Ma  allora  essendo 
ne'  migliori  termini  col  Duca  di  Mantova  si  affrettava  a  finir  l'opera  ; 
ed  essendo  caduto  malato  nel  luglio,  l'Aretino,  nel  timore  di  avere  a 
soccombere,  insistè  vivamente  coli' ambasciatore  Agnello  —  che  da 
poco  aveva  sostituito  il  Malatesta  a  Venezia  —  perchè  gli  fosse  dato 
un  amanuense  da  cui  far  trascrivere  la  parte  compiuta.  Erano,  diceva, 
nientemeno  che  3500  stanze,  e  avendo  «  ogni  cosa  sottosopra  »  voleva 


0  Doc.  XXXIII. 
')  Lettere,  III,  288. 


—  48  — 

che  tante  fatiche  non  fossero  perdute  e  il  mondo  non  restasse  de- 
fraudato di  quel  po'  po'  di  roba  i).  In  pochi  giorni  però  si  riebbe  — 
per  i  bisogni  della  malattia  aveva  avuto  dal  Gonzaga  cinquanta  scudi  ; 
—  e  del  19  agosto  troviamo  una  lettera  al  Duca,  molto  importante, 
in  raccomandazione  di  Arezzo  sua  patria. 

Come  Clemente  VII  aveva  a  Barcellona  e  Bologna  pattuito  con  l'Im- 
peratore, la  rovina  della  libertà  di  Firenze  s'era  già  consumata:  ai 
3  di  agosto  era  morto  il  Ferruccio,  sconfitto  a  Gavinana  e  vilmente 
trucidato  dal  Maramaldo;  il  12  agosto  Firenze  «  martoriata  dalla 
«  peste  e  dalla  fame,  dilaniata  da'  partiti,  venduta  dal  Malatesta  ^)  » 
aveva  capitolato  con  Ferrante  Gonzaga,  succeduto  all'Orango.  Orbene 
in  tanto  disastro  che  piombava  non  solo  su  Firenze  ma  su  quasi 
tutta  la  Toscana,  battuta  dalle  feroci  e  ladronesche  truppe  cesaree, 
Arezzo  benché  imperiale  e  tornata  in  potestà  delle  proprie  fortezze 
non  era  punto  rassicurata  della  sua  sorte,  o  per  dir  meglio  ignorava 
in  che  mani  sarebbe  andata  a  cascare,  tormentata  dal  «  sospetto  di 
qualche  insidia  o  trappola  fiorentina  o  pretesca  3)  »  che  le  avrebbe 
tolto  r appena  ricuperata  libertà.  A  chi  rivolgersi  in  quell'incertezza  ? 
Gli  Aretini  pensarono  che  nessuno  poteva  giovarli  più  cordialmente 
e  con  più  efficacia  del  famoso  concittadino,  stabilito  a  Venezia,  che 
s'elevava  a  sempre  maggiore  fortuna  e  potenza,  e  che  sapevano  spe- 
cialmente favorito  dal  Duca  di  Mantova,  fratello  al  capo  dell'esercito 
imperiale.  Pare  anzi  che  già  un'altra  volta  gli  avessero  affidata 
una  missione  presso  il  Gonzaga  *)  :  e  tanto  più  ora  gli  Aretini  riten- 
nero che  Pietro  sarebbe  stato  un  abile  e  ascoltato  intercessore.  Ed 
egli  invero,  lieto  dell'occasione  offertagli  di  mostrare  in  patria  quanta 
fosse  la  sua  autorità  ed  influenza,  scrisse  subito  al  duca  Federico 
ne'  termini  più  calorosi  perchè  ottenesse  da  Ferrante  valida  prote- 
zione per  Arezzo:  nessun  premio  più  caro  avrebbe  potuto  ricevere 
da'  Gonzaga  pe'  suoi  servigi,  ne  essi  dargli  prova  più  splendida  della 
benevolenza  di  cui  l'onoravano.  Gliene  sarebbe  venuta  «  tanta  ripu- 
tazione in  la  patria  e  fuora  »  quanta  non  poteva  più  desiderare:  e  i 
suoi  conterranei  sentirebbero  di  dovere  a  lui  —  ignobile  figlio  di  cal- 
zolaio —  la  conservazione  della  libertà. 

Il  Duca  di  Mantova  non  pose  indugio  a  esaudire  le  preghiere  del- 


*)  Doc.  XXXIV. 

')  Gregorovios,  op.  cit,  vili,  792. 

»)  Leti.  8cr.  alVA.,  I,  55.  —  Lett.  de'  Priori  d'Arezzo,  6  sett.  1530. 

♦)  Doc.  XXXV. 


—  49  — 

l'Aretino,  e  dalla  lettera  mandata  a  Ferrante  ^)  parrebbe  quasi  che 
si  trattasse  della  patria  d'un  nuovo  Omero,  d'un  nuovo  Pindaro.  Il 
Duca  Federico  faceva  presente  al  fratello  che  tutti  i  Gonzaga  dove- 
vano professare  all'Aretino  la  più  grande  riconoscenza  «  per  li  degni 
«  preconij  per  lui  celebrati  della  casa...  et  ili"'  progenitori  »:  e  la 
patria  di  tant'uomo  doveva  perciò  esser  tenuta  nella  stessa  conside- 
razione d'una  città  del  loro  stato.  A  quel  modo  che  insigni  capitani 
dell'antichità  classica  avevano  risparmiato  delle  città  anche  nemiche 
per  rispetto  alla  tomba  o  alla  memoria  di  poeti  e  filosofi,  così  in  onore 
dell'Aretino  doveva  essere  rispettata  e  protetta  la  sua  patria,  tanto 
piti  essendosi  serbata  fedele  all'Imperatore.  Scongiurava  dunque  il 
fratello  ad  usare  ogni  riguardo  per  Arezzo,  acciò  l'animo  di  Pietro, 
ansioso  per  il  pericolo  della  città  natale,  potesse  ritornare  «  tranquillo 
«  et  imperturbato  per  vacar  meglio  alli  studi  et  compositioni  »  con 
cui  allietava  il  mondo  e  celebrava  casa  Gonzaga.  —  Così  vive  racco- 
mandazioni non  furono,  per  allora  almeno,  senza  effetto;  e  i  priori 
di  Arezzo,  scrivendone  a  Pietro,  lo  proclamavano  solennemente  «  ser- 
«  vator  della  patria  ^)  ». 

L'Aretino  poteva  davvero  gloriarsi  di  questo  grande  attestato  di 
benevolenza  ricevuto  dal  Duca  di  Mantova;  ma  impenitente  sempre 
nella  sua  petulante  insolenza  poco  stette  a  provocare  l'ira  e  le  facili 
minacce  del  suo  mecenate.  Per  essere  più  spedito  nell'approntare  la 
stampa  della  Marfisa  aveva  chiesto  al  Duca  che  gli  fornisse  un 
amanuense,  come  s'è  visto  ;  e  poiché  si  tardava  a  mandarglielo,  scappò 
a  dire,  presenti  l'ambasciatore  Agnello  e  Tiziano:  che  il  non  com- 
piacerlo era  una  delle  solite  taccagnerie,  per  la  miseria  di  due  o  tre 
scudi  —  che  per  sollevare  il  Duca  da  tanta  spesa  li  avrebbe  mandati 
del  suo  al  tesoriere  —  e  che,  se  lo  stuzzicavano,  ne  avrebbe  scritte  delle 
belle  sopra  una  corte  così  gretta.  Sebbene  con  queste  impertinenze 
l'Aretino  avesse  inteso  di  ferire,  più  che  il  Principe,  i  suoi  servitori, 
pure  quegli  ne  fu  sdegnatissimo:  e  commise  senz'altro  all'ambasciatore 
di  dire  da  sua  parte  all'Aretino  che  era  omai  stanco  di  lui,  e  non 
ne  avrebbe  più  tollerato  l'incorreggibile  maldicenza.  Si  guardasse 
bene  dal  toccare  anche  l'infimo  della  corte:  o  «  al  corpo  di  Jesù 
«  Cristo  li  farebbe  dare  dece  pugnalate  in  mezzo  Realto  ».  L'ama- 
nuense che  voleva  gli  si  sarebbe  dato,  ma  non  certo  per  timore  delle 
sue  bravate.   —  L'ambasciatore  si  affrettò  a  fare  la  commissione. 


1)  Doc.  XXXVI,  XXXVII. 

•)  Lett.  cit. 

Lrzio  —  Pietro  Aretino 


—  50  — 

dandole  anzi  un'aria  di  minaccia  più  oscuramente  sinistra  ;  e  Pietro 
ne  rimase  allibito  ed  attonito  ^).  Era  la  seconda  volta  che  dal  signore 
di  Mantova  riceveva  di  ambasciate  simili:  e  nulla  di  più  strano 
quanto  il  vedere  alternarsi  con  tanta  facilità  le  carezze  e  i  favori 
più  lusinghieri  con  le  minacce  di  pugnalate.  Le  quali  davvero  pro- 
ducevano nell'Aretino,  per  dirla  col  Berni,  lo  stesso  effetto  delle 
mazzate  a'  cani  <c  Scosse  che  l'hanno  son  più  bei  che  mai  »  ;  e  così 
egli  appena  una  settimana  dopo  quel  brusco  monito  avuto  dal  Duca 
tornava  a  sollecitarlo  come  nulla  fosse  ^).  Avendo  saputo  esser  va- 
cante in  Arezzo  un  grosso  beneficio  della  rendita  di  quattrocento  du- 
cati l'anno,  Pietro  volle  tentare  di  ottenerlo  dal  Papa  per  mezzo  del 
Gonzaga;  e  questi  lo  compiacque  prontamente,  scrivendo  al  suo  am- 
basciatore in  Koma,  perchè  conducesse  le  pratiche  in  modo  che  almeno 
l'Aretino  fosse  soddisfatto  nel  suo  amor  proprio^).  L'ambasciatore 
fece  la  domanda,  e  il  Papa  rispose  che,  per  togliersi  dattorno  il  gran 
numero  dei  postulanti,  aveva  già  conferito  quel  beneficio,  ma  che  al- 
trimenti sarebbe  stato  lietissimo  di  far  cosa  grata  al  Duca  e  all'Are- 
tino: e  Pietro  si  tenne  più  che  pago  della  cortese  risposta  comuni- 
catagli *). 

D'altronde  della  benevolenza  del  Papa  l'Aretino  aveva  avuto  di 
recente  le  migliori  prove  -,  verso  la  metà  di  settembre,  Mons.  di  Va- 
sone,  incaricato  da  Clemente  di  accompagnare  Alessandro  de'  Medici 
alla  Corte  Cesarea  —  dove  si  recava  per  definire  la  nuova  posizione 
creata  a  quel  bastardo  dalla  caduta  della  repubblica  fiorentina  — 
era  passato  a  Venezia  %  e  a  nome  del  Papa  «  in  casa  de  la  Keina 
di  Cipri,  sorella  di  Cornaro  »  aveva  consegnato  all'Aretino  il  famoso 
breve  per  idi  Mar  fisa  ^).  Il  Vasone  v'aggiunse  del  suo  il  dono  della 
«  più  vezzosa  e  più  vaga  collana  »,   e  pare  anche  si  proponesse  di 


I 


*)  Doc.  XXXVIIL 

*)  Del  settembre,  senza  indicazione  del  giorno,  è  una  sua  lettera  al  Duca,  in 
raccomandazione  d'un  uomo  d'armi,  per  cui  desiderava  «  un  luogo  de  lancia  spez- 
zata. >  Doc.  XXXIX. 

»)  Doc.  XL. 

*)  Doc.  XLII,  XLIII. 

')  Mons.  di  Vasone  scriveva  il  22  luglio  1530  al  Vergerlo;  e  Interim  mi  rac- 
€  comandi  al  signor  Pietro  Aretino,  dicendoli  che  attendi  pure  a  ultimar  l'opera, 
«  che  il  Breve  sarà  in  ordine  etiam  più  presto  del  bisogno...  »  (Cod.  marciano, 
ci.  V,  n"  LXIII  ;  cfr.  Morsolin  ,  (Girolamo  da  Schio,  Vescovo  e  diplomatico  del 
tee.  XVI,  Vicenza  1875,  p.  105). 

•)  Lettere,  I,  20.  —  A  Papa  Clemente,  20  sett.  1530. 


—  51  — 

procurargli  dairimperatore  un  cavalierato  ;  ma  l'Aretino  che  tirava  al 
solido  se  ne  schermì  ripetendo  ciò  che  aveva  detto  nel  Marescalco 
che  «  un  cavaliere  senza  entrata  è  un  muro  senza  croci,  scompi- 
sciato da  ogniuno  ^)  ».  Doni  da  parte  del  Papa  non  risulta  che  ne 
ricevesse  neppur  allora;  comunque  l'Aretino  accettò  lietamente  la 
dimostrazione  fattagli  da  monsignor  Vasone,  e  la  sua  lettera  del  20  set- 
tembre a  Clemente  suggella  la  riconciliazione  piena  e  cordiale.  Egli 
dichiara  di  provar  pentimento  e  rossore  d'aver  ingiuriato  il  Papa 
«  nello  ardore  de  gli  infortunij  suoi  »  :  promette  di  ritornare  quel 
buon  servo  che  gli  era  stato  prima  ;  di  modo  che  —  conclude  —  «  il 
«  serenissimo  Gritti,  la  cui  intera  modestia  si  è  interposta  fra  la  vostra 
«  pacienza  et  il  mio  furore  »  non  avrà  che  a  lodarsene.  A  monsignor 
Vasone  poi  l'Aretino  diede,  per  presentarli  al  Papa,  de'  vasi  di  vetro 
ammirevoli  per  «  la  foggia  de  l'antiquità  disegnata  da  Giovanni  da 
«  Udine  »  :  e  questa  novità  —  scrive  al  Duca  di  Mantova  -)  —  «  è  tanto 
«  piaciuta  ai  padroni  de  le  fornaci  da  la  Serena  che  chiamano  gli 
«  Aretini  le  diverse  sorti  di  cose  ch'io  feci  far  ivi  ».  Sua  Santità 
«  ne  ha  fatto  gran  festa,  et  io  me  ne  stupisco  perchè  mi  credeva 
«  che  in  corte  si  guardasse  oro  e  non  vetro  ». 


IX. 


Per  quale  ragione  l'Aretino  su'  primi  del  1531  cadde  all'improv- 
viso in  completa  disgrazia  del  Duca  di  Mantova,  che  rifiutò  assoluta- 
mente di  riconciliarsi,  malgrado  le  scuse  e  le  preghiere  di  Pietro? 
Da'  documenti  non  si  rileva  con  precisione  ;  certo  è  solo  che  l'Aretino 
si  doleva  amaramente  di  Tiziano  e  dell'ambasciatore  Agnello,  a'  quali 
attribuiva  de'  mali  offici  che  l'avevano  guastato  per  sempre  col  Gon- 
zaga 3).  Qualunque  però  fosse  il  motivo  occasionale,  dal  genere  delle 


1)  Lettere,  I,  19.  —  Al  Vescovo  di  Vasone,  17  sett.  1530. 

*)  Lettere,  I,  24.  —  Anche  questa  lettera  ha  la  data  del  1531,  ed  è  da  riporsi 
indubbiamente  all'anno  prima.  Al  Duca  di  Mantova  di  que'  vetri  ne  aveva  man- 
dato una  «  cassetta  piena.  > 

")  Poe.  XLIV. 


—  52  — 

relazioni  tra  il  Duca  e  l'Aretino,  che  abbiamo  esaminato  sin  qui,  è 
facile  comprendere  che  quel  qualunque  motivo  era  stato  l'ultima 
goccia  che  aveva  fatto  traboccare  il  vaso  già  colmo.  E  se  di  qualche 
cosa  v'è  a  meravigliare,  è  precisamente  che  il  Duca  di  Mantova 
avesse  pazientato  sì  a  lungo;  che  dinanzi  allo  sfacciato  avventuriero 
avesse  per  tanto  tempo  dimenticato  la  sua  dignità,  il  suo  decoro  di 
principe  ;  che  avesse  sul  serio  potuto  illudersi  d'avere  nell'Aretino  un 
poeta  illustre  della  sua  casa.  L'Aretino  sentì  la  grave  perdita  fatta, 
e  non  risparmiò  alcun  mezzo  per  riacquistare  la  grazia  del  Gonzaga; 
ma  questi  fu  irremovibile,  e  solo  molti  anni  dappoi  a  preghiera  del 
Giovio  e  del  Marchese  del  Vasto  consentiva  —  nel  1540,  poco  prima 
della  sua  morte  —  a  ridonare  l'antica  benevolenza  all'Aretino  ^). 

Ohe  farci?  Pietro  dovette  darsene  pace,  e  d'altronde  a  lui  era  ormai 
troppo  facile  il  procurarsi  de'  nuovi  padroni.  In  una  sua  lettera  del- 
l'ottobre 1530  2),  egli  annunziava  d'essere  stato  richiesto  a'  servigi 
di  Alessandro  de'  Medici ,  a  cui  aveva  risposto  che  prima  intendeva 
finire  la  Marfisa^  poi  andrebbe,  sempre  con  la  debita  licenza  del  suo 
mecenate.  Duca  di  Mantova  :  —  ed  ora  che  questi  lo  aveva  messo  in 
libertà,  è  naturale  che  l'Aretino  cercasse  anzi  tutto  di  attaccarsi  al 
bastardo  di  casa  Medici,  al  quale  possibilmente  rivendere  il  poema 
infelice  che  il  Gonzaga  gli  aveva  piantato  lì  in  asso.  Ciò  si  rileva 
da  una  sua  lettera  al  Duca  Alessandro,  del  16  aprile  1531,  in  cui 
scrive  modestamente:  «  Sì  come  Alexandro  non  volle  che  altro  che 
«e  Apelle  il  dipignessi,  Alexandro  non  voglia  che  altri  che  Pietro  i 

«  suoi  giesti  scriva Canto   la  genealogia   de  Medici  non  sanza 

«  sdegnio  de  Mantua,  onde  vengono  le  nove  fatiche  a  testimoniare  al 

«  mondo  la  servitù  mia  amorevole ne  prima  verrò  a  servirvi  da  presso 

«  che  l'opera  non  porti  in  stampa...  ^)  »  —  Ma  neanche  col  Duca 


*)  Leti.  alVA.,  II,  38  e  sgg.  Il  Giovio  annunzia  lieto  di  avere,  col  Marchese 
del  Vasto  e  Tiziano,  tolto  ogni  nebbia  dall'animo  del  Duca  Federico  contro  l'A. 

')  Doc.  XLIIl. 

•)  Arch.  di  Stato  di  Firenze,  Carte  Strozziane,  filza  138,  e.  40.  —  Per  mezzo 
di  Mons.  Vasone  il  Duca  Alessandro  aveva  richiesto  all' A.  nell'ottobre  del  1530 
qualche  saggio  della  Marfisa  {Leti.  aìVA.,  I,  63);  e  ricevutolo,  lo  stesso  Vasone 
scriveva  che  si  eran  divertiti  un  mondo  «  con  la  bravura  del  vostro  Rodomonte  e 
«  con  quella  errante  signora...  Li  cancelleri  e  copiisti  non  fanno  altro  che  copie, 
€  e  si  attende  il  resto  di  mano  in  mano.  »  Abbiamo  già  mostrato  che  uno  de'  primi 
episodi  del  poema  era  la  chiassosa  discesa  di  Rodomonte  all'Inferno:  quanto  al- 
Verrante  signora  deve  intendersi  l'eroina  Marfisa,  e  non  la  P.  Errante  come  pa- 
recchi hanno  equivocando  interpretato  (Virgili,  op.  cit,  p.  260). 


—  53  — 

Alessandro  l'Aretino  potè  intendersi;  e  la  Marfisa,  misero  aborto,  finì 
per  ricascare,  come  si  è  detto,  sul  vano  e  pomposo  Marchese  del  Vasto, 
che  per  tema  del  ridicolo  prese  un  posto  segnalato  nella  lunga  schiera 
de'  protettori  dell'Aretino  ^). 

La  costui  fortana,  dal  1530  in  poi,  andò  sempre  acquistando  mag- 
giore incremento;  e  gli  anni,  che  si  succedono,  aggiungono  nuovi 
fasti  alla  sua  infame  celebrità.  Nel  1531  si  mischia  alla  lotta  com- 
battuta pel  Bembo  contro  un  giovane  valoroso  e  infelice,  che  n'uscì 
dilaniato  ed  infranto  ^);  e  l'Aretino  potè  vantarsi,  mostrando  cosigli 
effetti  terribili  della  sua  penna,  d'aver  fatto  morire  di  crepacuore 
il  Broccardo,  e  di  essersi  ingraziato  il  supremo  dittatore  letterario 
del  tempo.  —  Nel  1532  vede  consacrato  il  suo  nome  di  «  divino  »,  di 
«  flagello  de'  principi  »  nel  poema  immortale  dell'Ariosto.  —  Nel 
1533  Francesco  I  gli  manda  quella  superba  collana  d'oro,  intessuta 
di  lingue,  con  una  scritta  che  era  un  omaggio  all'autor  àe'  gMùi^); 


^)  Si  vegga  nel  Trucchi  {Poesie,  III,  212)  un  sonetto  spiritosissimo  dell' A.  contro 
il  Davalos;  riprodotto  come  inedito,  e  adespoto,  hq'  Manoscritti  ìt.  della  Bihì. 
Nazionale  di  Firenze,  I,  255.  —  Fra' manoscritti  del  Mazzuchelli,  conservati 
alla  Vaticana,  nella  busta  concernente  la  Vita  delV Aretino  (cod.  9279,  busta  20'), 
trovo  mi  annotazione  del  Bracci,  non  so  donde  attinta,  e  dal  Mazzuchelli  non 
utilizzata  nel  suo  libro.  L'Aretino,  dopo  un  insuccesso  militare  del  Davalos,  gli 
avrebbe  mandato  questa  quartina  insolente: 

Il  Marchese  del  Vasto  da  Nembrotto 
Che  haveva  posto  monte  sopra  monte 
Nell'ultima  battaglia  di  Piemonte 
Con  riverenza  se  la  fece  sotto. 

Compiendo  un  vero  ricatto,  per  carpir  denari,  l'Aretino  avrebbe  aggiunto  a'  quattro 
versi  una  minacciosa  parentesi:  (per  dio  finisco  il  sonetto). 

')  Virgili,  op.  cit.,  p.  229  e  segg.  —  Cfr.  Cian,  Un  decennio  della  vita  di 
m.  P.  Bembo,  p.  179. 

')  Si  è  sempre  creduto  e  ripetuto  sulla  fede  dello  stesso  Aretino  (cfr.  Mazzu- 
chelli, p.  120,  e  Lettere,  I,  28)  che  questa  collana  era  fatta  «  in  forma  di  lingue 
«  smaltate  di  vermiglio,  col  detto:  Lingua  eius  loquetur  mendacitim.  *  Ora,  in 
una  lettera  inedita  delF Aretino  a  P.  P.  Vergerlo  trovo  un'altra  versione  che  mi 
sembra  ineccepibilmente  la  sola  vera  :  «  Per  questa  strada  della  liberalità  —  scrive 
«  Pietro  del  1533  —  con  immortali  passi  sale  oggi  al  cielo  il  Re  di  Francia,  del 
«  qual  la  cortesia  se  puoi  invidiare  et  non  imittare;  et  perchè  non  paia  ch'io  il 
€  dica  per  il  dono  di  una  ricchissima  collana  fatta  di  lingue  d'oro  con  un  breve 
«  che  dice  Lingua  eius  loquetur  judicium,  veggasi  il  bene  che  la  M."*  sua  bontà 
«  non  sforzatamente  ma  di  real  sua  natura  fa  al  divin  Luigi  Alamanni,  a  Julio 
€  Camillo,  ecc.,  ecc.  »  (Arch.  di  Stato  di  Firenze,  Carteggio  d'Urbino,  CI.  I,  Div.  F., 
filza  CII).  Ben  lungi  dunque  dall'essere  un  motto  ingiurioso  per  l'Aretino,  costi- 


—  54  — 

e  tre  anni  dopo  Carlo  V  per  togliere  l'Aretino  al  suo  rivale,  e  di- 
sarmarne la  temuta  maldicenza,  lo  lega  a  se  più  stabilmente  con 
un'annua  pensione  di  200  scudi  ^).  —  La  pubblicazione,  fatta  sulla 
fine  del  1537,  del  primo  libro  delle  Lettere^  la  prima  serie  cioè  più 
felice  e  più  originale  dei  suoi  articoli  di  giornalista,  raccolti  (come 
usano  molti  pur  oggi)  in  volume  2),  compie  l'edificio  della  sua  potenza^ 
dinanzi  alla  quale  si  curvano  anche  le  più  nobili  fronti. 


tuiva  invece  il  riconoscimento  officiale  del  giornalista  che  si  era  eretto  a  giudice 
di  tutto  e  di  tutti.  —  A  proposito  de'  giudizi,  si  vegga  nel  Doc.  XLIV  un  cenno 
di  quello  composto  dall'Aretino  pel  1533. 

*)  L'ambasciatore  Agnello  scriveva  al  Duca  di  Mantova  da  Venezia  14  ott.  1586: 
«  L'Imperator  ha  donato  a  l'Aretino  ducento  scuti  d'entrata  sul  Stato  di  Milano, 
«  cosa  che  dà  molto  da  dire,  parendo  che  Sua  M.*»  habbi  molto  mal  collocato 
€  questo  dono,  et  si  tiene  che  l'habbi  fatto  solo  per  tema  che  Sua  Maestà  ha 
«  ch'esso  Aretino  non  scriva  mal  di  lei,  maxime  de  la  cosa  de  la  cognata.  » 
(Queste  ultime  parole  sono  in  cifra,  con  la  spiegazione  sopra  della  cancelleria). 
A  tali  relazioni  incestuose  accenna  in  parecchi  sonetti  della  Priapea,  Ni«colò- 
Franco,  che  si  diede  il  compito  di  riparare  al  silenzio  dell'Aretino: 

Vuol  messer  Carlo  che  non  sia  peccato 

Il  e la  cognata  per  un  tratto 

E  ch'aggia  del  senese,  idest  del  matto 

Chi  può  dormirci  e  non  le  dorme  a  lato... 
Non  ti  piace  egli  haver  preso  diletto 

Con  la  cognata?  Hor  pur  se  t'è  piaciuto 

Spiaceti  forse  ch'io  te  l'abbia  detto? 

(Cod.  Casanatense,  X,  Vili,  42,  a  e.  55). 

')  Che  le  lettere  più  importanti  fossero  comparse  via  via  a  stampa  in  foglietto 
volante,  si  rileva  (oltre  ciò  che  fu  detto  a  pag.  7)  da  quanto  il  Giovio  scriveva 
all'Aretino,  precisamente  nell'agosto  del  1537  {Leti.  alVA.,  II,  37).  Ringrazian- 
dolo d'una  lettera  piena  d'elogi  per  le  sue  storie,  il  Giovio  dice  scherzosamente 
che  sarebbe  scoppiato  addirittura  della  contentezza  «  se  la  epistola  era  in  stampa, 
«  come  le  altre  delli  vostri  amici  grandi.  >  Anche  questa  lettera  al  Vescovo  di 
Nocera  fu  poi  inclusa  nel  primo  libro  a  p.  272.  —  Per  non  citare  parecchie  altre 
lettere  scritte  all'Aretino,  da  cui  pure  risulta  com'ei  stampasse  e  diffondesse  ra- 
pidamente i  suoi  giudizi  politici  0  articoli  d'occasione,  e  come  fossero  assai  letti 
e  cercati  (cfr.  Lett.  aWA.,  I,  287  e  335;  II,  93),  recheremo  soltanto  una  sua 
curiosissima  lettera  del  21  maggio  1537  al  Cardinale  Caracciolo  (I,  102),  dove 
si  vede  quanto  l'A.  teneva  alla  propria  qualità  di  giornalista  influente  sull'opi- 
nione pubblica.  €  Ne  l'udire  io  la  pazzia  di  quegli,  che  senza  ragione  e  senza 
*  proposito  parlano  di  Sua  Maestà,  le  ho  scritto  una  lettera,  de  la  qual  vi  mando 
«  la  copia,  acciò  che  vediate  quanto  importi  ai  Principi  d'esser  conosciuti  da  co- 
«  loro  che  gli  conoscono.  Stupenda  cosa  è  il  caso  de  l'Imperadoi  e,  chi  ben  lo  con- 


—  55  — 

Lontano  dalle  corti,  egli  trova  modo  di  dominarle  tutte;  di  usu- 
fruire i  profitti  senza  gli  uggiosi  doveri  e  le  avvilenti  servitù  di  quella 
vita  di  cortigiano,  che  ha  con  tanta  vivacità  descritto  nelle  commedie, 
ne'  dialoghi.  I  mezzi  a  cui  ricorre  sono  abbietti  :  adulazione  smaccata 
e  maldicenza,  accattonaggio  nauseabondo  e  ricatto;  ma  sarebbe  ingiusto 
disconoscere  che  erano  la  moneta  corrente  del  secolo,  e  che  almeno  in 
questo  avventuriero  v'era  un  sentimento  abbastanza  distinto  e  preciso 
di  ciò  che  avrebbe  dovuto  essere  l'emancipazione  e  la  dignità  delle 
lettere  ^).  Egli  si  professa  «  uomo  libero  per  la  grazia  di  Dio  »,  pro- 


€  sidera.  La  maggior  parte  de  la  gente  rinasce  ai  gridi  dei  Franciosi  e  dei  Turchi, 
«  i  quali  fanno  tumulto  in  mare  et  in  terra;  e  rinascendo  si  lascia  ficcar  nel 
«  capo  che  guai  ad  noi,  e  non  si  accorgono  che  il  testimonio  de  la  Cesarea  gran- 
«  dezza  è  lo  sforzo  che  se  le  fa  centra.  Ma  come  gonfiaria  la  ciancia  de  le  turbe 
«  adherenti  con  le  chiacchiare  a  Francia,  se  io  ci  mescolarsi  le  mie  parole? 
«  0  che  rumore  ne  farebbero.  »  Egli  però,  da  giornalista  tanto  autorevole  quanto 
disinteressato,  dichiara  di  seguir  fedelmente  a  parteggiare  per  Carlo  V,  in  cui  gli 
par  di  vedere  «  un  leone  circondato  dai  cani,  da  Tarme  e  dai  pastori,  che  per 
«  propria  generosità  di  natura  sprezza  gli  spiedi  et  i  dardi  che  se  gli  aventano, 
«  difendendosi  solamente  con  il  terror  degli  occhi  »  ;  —  e  hisogna  riconoscere  che 
l'Aretino  aveva  fiutato  bene,  con  l'appoggiarsi  al  magno  imperatore.  —  Sul  gran 
successo  che  ebbe  il  primo  libro  delle  lettere  dell'A.  si  vegga  quanto  gli  scriveva 
un  Bernardino  Teodolo  da  Forlì;  Leti.  alVA.,  I,  158.  La  lettera  del  Teodolo  ha 
per  errore  la  data  del  3  maggio  1533,  e  il  Mazzuchelli  fu  da  ciò  tratto  a  sup- 
porre un'altra  edizione  anteriore  di  quel  primo  libro;  ma  basta  osservare  che  il 
Teodolo  si  dichiara  ostilissimo  a  Paolo  UT,  per  comprendere  che  la  vera  data  della 
sua  lettera  è  il  1538. 

^)  A  tale  riguardo  è  notevolissima  una  lettera  dell'A.  a  Giannantonio  di  Fo- 
ligno (I,  84):  «  Ecco  —  egli  scrive  —  io  tocco  alcuno  dei  grandi:  e  toccandogli 
«  questo  e  quel  cortigianuzzo  soffia,  e  con  le  sue  colere  stentate  mi  battezza  a 
«  suo  modo,  credendosi  rubar  favori  :  alcun  altro  il  fa  per  parer  d'esserci  e  non 
«  perchè  in  lui  sia  né  giuditio,  né  bontà;  onde  gli  infiniti  seguaci  de  la  ignoranza 
<  calcano  sinistramente  gli  honori  altrui.  Io  ho  scritto  ciò  che  ho  scritto  per 
«  grado  de  la  vertù,  la  cui  gloria  era  occupata  da  le  tenebre  de  l'avaritia  dei 
«  signori:  et  innanzi  ch'io  cominciassi  a  lacerargli  il  nom£,  i  vertuosi  mendica- 
«  vano  Vhoneste  commodità  de  la  vita,  e  se  alcun  pur  si  riparava  da  le  molestie 
«  de  la  necessità  otteneva  ciò  come  buffone  e  non  come  persona  di  merito,  onde 
«  la  mia  penna  armata  dei  suoi  terrori  ha  fatto  sì  che  essi  riconoscendosi  hanno 

«  raccolti   i   belli   intelletti  con  isforzata  cortesia Adunque  i  buoni  debbono 

«  havermi  caro,  perchè  io  con  il  sangue  militai  sempre  per  la  vertù,  et  per  me 
«  solo  ai  nostri  tempi  veste  di  broccato,  bee  nelle  coppe  d'oro  ecc.  ecc.  È  empio 
«  chi  non  dice  ch'io  l'ho  riposta  nel  suo  antico  stato  :  et  essendo  il  redentor  di 
«  lei  che  ciancia  l'invidia  e  la  plebe?  Fratel  mio,  io  non  me  ne  vanto  per  superbia 
«  ma  per  rispondere  a  qualunche  afferma  i  miei  vangeli  per  mal  dire.  Caminino 


—  56  — 

clama  il  diritto  della  virtù,  dell'operosità  letteraria  ad  essere  degna- 
mente ricompensata;  e  poiché  l'uso  delle  corti  fa  della  ricompensa 
un'elemosina,  ebbene  quest'elemosina  e'  la  impone,  e  costringe  i  Prin- 
cipi a  lasciarsi  taglieggiare,  a  dichiararglisi  tributari.  Mentre  l'artista 
sereno,  che  crea  capolavori,  deve  acconciarsi  paziente  a'  superbi  fastidi, 
all'ingratitudine  de' potenti;  e  ne'  tinelli  s'accalca  e  s'accapiglia,  ròsa 
dalla  fame  e  dall'invidia,  una  turba  di  letterati  ;  l'Aretino  nella  vita 
lieta  e  chiassosa  di  Venezia  gode  i  grassi  tributi  che  sa  estorcere  ine- 
sauribilmente, forte  della  grand'arma  della  pubblicità  che  egli  tratta 
come  un  capitano  di  ventura,  pronto  a  servire  al  miglior  offerente: 
diventa  insomma  il  primo  giornalista  mantenuto,  senza  l'ipocrisia 
dei  fondi  segreti.  La  stampa  è  la  nuova  potenza  che  s'afferma,  con 
cui  bisogna  contare  ;  e  i  Principi  scendono  a  patti  con  l'Aretino  che 
la  rappresenta,  riconoscendo  —  come  scriveva  il  Marchese  di  Man- 
tova —  che,  <  sono  tempi  che  giova  più  la  lode  che  il  biasmo  », 
e  a  loro  conviene  avere  amico  chi  può  influire  sull'opinione  pubblica 
e  per  essa  sugli  avvenimenti  ^). 

Quando  nel  1547  egli  fu  fatto  bastonare  dall'ambasciatore  inglese  2), 
a  cui  aveva  apposto  di  essersi  trattenuti  certi  denari  che  Pietro  aspet- 
tava in  regalo,  ecco  ciò  che  il  segretario  Lottini,  anche  a  nome  del 
Duca  Cosimo,  scriveva  all'orator  Pandolfini  in  Venezia  : 

«  Il  caso  di  m.  Pietro  Aretino  così  come  è  stato  inopinato,  così  me 
«  in  particolare  ha  travagliato  assai  per  lo  amor  ch'io  li  porto,  et 
«  certamente  che  sua  Ex.  anchora  ne  ha  hauto  passione ,  perchè  gli 
«  pare  che  sia  stata  maculata  quella  libertà  che  gli  è  stata  data  da 
«  tutti  i  Principi  cristiani;  ne  poteva  cotesto  imbasciatore  dar  più 
«  grande  testimonio  a  quello  che  haveva  detto  M.  Piero  di  lui,  che 
«  di  usare  un  tratto  simile,  che  si  debbe  pensare  che  non  sarebbe 
«  venuto  in  collera,  si  non  gli  fusse  stato  detto  il  vero.  Se  V.  S.  0  va  0 


«  pure  i  dotti  per  le  strade  che  gli  han  fatte  le  mie  sicure  braccia,  se  voglion  farsi 
*  beflfe  de  gli  intrighi  e  de  l'insidie  signorili.  *  —  Cfr.  Graf,  Un  processo  a  P.  A. 
{Nuova  Antologìa,  1  giugno  1886,  p.  440  e  sgg.). 

*)  «  La  paura  ch'egli  aveva  suscitato  nell'animo  de'  Principi  fu  poscia  cagione 
«  non  ultima  degli  accordi  stipulati  fra  essi  di  non  tollerare  reciprocamente  che 
«  si  stampasse  ne'  loro  Stati  cosa  alcuna  che  loro  fosse  mal  gradita,  e  fa  principio 
«  di  quelle  limitazioni  alla  libertà  di  manifestare  le  idee  per  la  stampa,  le  quali 
€  più  o  meno  eccessive  si  mantennero  in  Italia  fino  ai  nostri  tempi.  »  Campori, 
P.  A.  e  il  Duca  di  Ferrara  in  Atti  e  Mem.  delle  BB.  Dep.  di  st.  p.  per  hprov. 
modenesi  e  parmensi,  voi.  V. 

*)  Mazzuchelli,  p.  70. 


—  57  — 

«  manda  a  veder  M.  Piero  gli  basci  di  gratia  le  mani  a  nome  mio... 
«  Di  Firenze  alli  8  di  ottobre  1547  i)  ». 

Forte  di  questa  libertà  accordatagli,  l'Aretino  per  tener  alto  il 
prezzo  della  sua  penna,  s'era  organizzato  la  più  abile  reclame^  sapeva 
far  bene  scampanare  —  com'egli  dice  — il  proprio  nome;  e  a  serbar 
sempre  desta  l'attenzione  del  pubblico,  da  vero  giornalista,  senza 
studi,  senza  preparazione,  con  un  ingegno  rozzo  ma  originalissimo, 
scriveva  di  tutto:  giudizi  politici  e  critica  artistica,  roba  pornografica 
e  vite  de'  santi...  secondo  il  gusto  dei  committenti  a  un  tanto  il 
braccio.  Al  pari  dei  giornalisti,  pubblicava  tutte  le  lettere  che  gli 
indirizzavano  cospicui  personaggi,  amici  ed  ammiratori  :  e  di  questi 
omaggi  della  viltà  contemporanea  formò  addirittura  due  grossi  volumi 
del  suo  editore  e  compare  Marcolini.  Che  potevano  fare  letterati  ed 
artisti  dinanzi  a  così  grande  e  strano  successo?  Essi  subiscono  l'ascen- 
dente dell'Aretino,  e  per  interesse  gli  fanno  la  corte,  ne  mendicano 
le  lodi  e  l'appoggio,  s'affollano  alla  sua  casa,  com'oggi  agli  uffici  d'un 
giornale  influente  e  diffuso. 

Questo  periodo  della  maggiore  fortuna  dell'Aretino,  per  cui  ho 
raccolto  copia  di  materiali  non  piccola,  confido  di  poter  quanto  prima 
tratteggiare  ampiamente;  ed  è  con  tale  speranza  che  chiudo  le  pre- 
senti ricerche  sulle  relazioni  fra  l'Aretino  e  Federico  Gonzaga  — 
il  primo  e  più  generoso  dei  Principi  tributari,  il  primo  sul  quale 
l'Aretino  sperimentò  largamente  quelle  arti  e  quelle  astuzie,  che  poscia 
doveva  estendere  su  più  vasta  scala  d'operazione. 


*)  Carte  strozziane,  filza  67  e.  10. 


DOCUMENTI 


I. 

Il  Marchese  di  Mantova  a  F.  Guicciardini, 

{Minute,  filza  1527) 

Al  Guizardino. 

S.'^'f  Locotenente  quanto  fratello  carissimo.  Io  seria  ingrato  verso  la  devotione 
che  mi  ha  sempre  havuto  ni.  Petro  Aretino,  et  farla  officio  d'homo  poco  amorevole 
de  la  virtù,  se  in  ogni  cosa  non  cercassi  giovare  a  lui  al  mondo  unico.  Et  ve- 
ramente gli  vedo  fare  miracoli,  et  in  un  mese  ha  composto  tante  cose,  et  versi 
et  prose,  che  in  X  anni  non  le  metteriano  insieme  tutti  li  ingegni  di  Italia. 
Et  per  questo  et  per  essere  lui  optima  persona  et  consumatasi  mezza  l'età  al 
servitio  di  doi  Papi  et  con  quella  aflfectione  et  fede  che  sa  ogniuno,  et  sempre 
havendo  più  cara  la  gloria  di  Sua  Santità  che  la  propria  vita,  son  sforzato  aiu- 
tarlo ;  et  se  in  questa  cosa  honesta  N.  S.  non  me  exaudisce  mi  tenero  certissimo 
esserli  poco  grato.  Et  se  m.  Petro  non  li  fusse  humil  servitore  non  che  io  lo 
aiutassi  lo  cacciarci  da  me  come  pessimo  homo.  Et  quel  ch'io  desidero  da  V.  S.  è 
che  ritorni  in  sua  buona  gratia,  cosi  del  Rev.  Mons.  Datario  :  et  ch'io  stimo 
tanto  questo,  quanto  il  grado  di  mio  fratello  *).  Né  se  cura  m.  Petro  tornarse 
in  Roma,  ma  qualche  demostratione  che  demostri  la  servitù  sua  non  esser  per- 
duta. Et  veramente  non  è  honore  ninno  a  N.  S.  né  al  S.  Datario  a  non  quietare 
costui,  perchè  sono  tempi  che  giova  più  la  lode  che  il  biasmo,  maxime  che  la 
cosa  è  brutta  et  nota  a  ciascuno.  Io  per  me  mancherei  prima  a  me  stesso,  che 
a  m.  Petro,  ma  quel  ch'io  faccio  il  fo  così  per  honore  di  N.  S.  come  per 
utile  suo.  Io  voglio  mandare  a  Roma  per  tale  interesse  et  a  N.  S.  et  al  S.  Da- 
tario scrivere  di  mia  mano,  et  pregove  scriviate  di  ciò  con  quel  modo  che 
pare  a  voi  che  seti  savissimo  ') ,   et  ho   caro  intendere   come  trovati  la  cosa 


1)  Ercole,  che  desiderava  veder  cardinale,  come  fa  infatti. 

»)  Il  Guicciardini  rispondeva  da  Parma  2  febbraio:  «  Per  obedire  a  V.  Ex.  sapendo  che  la  obedientia 
«  scusa  la  presumptione  farò  quello  offitio  ch'essa  mi  comanda  per  conto  di  m.  Pietro  Arrotino.  Et  ben 
«  ch'io  sappia  che  a  quella  sia  superfluo  l'usare  il  mezo  mio,  perchè  più  authorità  ha  l'ombra  sol» 
«  d'un  cenno  suo  che  tutte  le  fatiche  o  actioni  mie,  pure  desideroso  d'obedirla  non  ricerche  la  causa 
«  per  che  essa  me  lo  comanda,  ma  con  ogni  diligentia  et  studio  farò  l'offitio  da  essa  impostomi...  » 


—  62  — 

disposta,  et  secondo  che  io  per  vostri  avisi  saperò  così  provederò  con  essi, 
sì  che  per  amor  mio  et  la  grandissima  fede  che  in  voi  ha  m.  Petro  durati 
questa  fatica  et  subito  mandarò  a  Roma  come  fati  sapere  che  sia  tempo.  A  tutti 
li  commodi  et  piaceri  di  V.  S.  me  offro  dispositissimo,  ecc. 

Mant.  23  gennaio. 

El  March,  di  Mant. 


IL 

L'ambasciatore  F.  Gonzaga  al  Marchese. 

...  Heri  fu  a  ritrovarme  un  frate  di  S.  Francesco,  che  è  confessore  del  Papa, 
quale  me  disse  che  era  venuto  a  mo  per  advertirme  di  una  cosa  che  non  era 
di  poca  importantia  al  S.  mio  patrone;  questo  è  che  novamente  era  venuto  in 
luce  qui  in  Roma  un  libretto  di  Petro  Aretino,  quale  è  pieno  di  maledicentia, 
et  tocca  precipuamente  il  Papa  et  Cardinali  et  altri  prelati  di  questa  corte,  et 
è  intitulato  al  S.;  cosa  che  essendo  stata  vista  qui  ha  fatto  scandalizzare  molto 
le  brigate,  in  specie  quelli  a  chi  tocca,  parendo  strano  che,  essendo  Sua  Ex. 
quello  che  è  con  Sua  Santità  et  con  questi  Rev.mi,  l'habbia  comportato  che  in 
Mantua  sotto  l'ombra  sua  et  sotto  il  suo  nome  sia  venuta  fori  una  tale  opera 
maledica. 

Così  spirato  da  qualche  persona  che  ama  l'honore  del  S.  Ill.mo ,  et  che 
desidera  che  S.  Ex.  si  conservi  la  gratia  di  S.  S.*^  era  venuto  confidentemente 
a  me  ad  advertirme,  acciocché  ne  scrivessi  a  Sua  Ex.  et  la  pregassi  ad  esser 
contenta  de  levare  esso  Aretino  di  Mantua  et  privarlo  de  la  gratia  sua,  ac- 
ciocché S.  S.*»  et  questi  altri  S."  non  habbino  de  haver  causa  di  pensare  che 
la  sia  conscia  et  participe  di  simili  tristitie,  le  quali  si  po'  esser  certo  che  de- 
spiaceno  sopra  modo  et  premeno  quanto  si  conviene  a  chi  stima  Phonor  suo. 

Io  li  ho....  •). 

Roma  26  aprile  1527. 


Bisposta  della  Cancelleria  alVamh.  F.  Gonzaga. 

(Minute) 

....  Alla  parte  di  P.  Aretino,  la  quale  il  S.  ha  ben  considerata,  dico  de 
comissione  di  S.  Ex.  che  V.  S.  ha  resposto  bene  al  frate,  et  che  se  accade  più 
ad  essa  V.  S.  parlare  o  col  ditto  frate  o  con  altri  la  dica  che  ella,  quando 
venne  qui  il  S.  Joanne  de  Medici  et  che  morì,  fu  pregato  da  esso  Aretino 
ad  dargli  recapito  per  sei  o  otto  dì  :  il  che  non  li  seppe  negare ,  maxime 
non  credendo  se  non  che  lui  fosse  in  gratia  del  Papa  per  essere  stato  inter- 
tenuto  dal  S.  Jo.  L'è  vero  che  et  alhora  et  per  inanzi  haveva  cercato  acconciarsi 


•)  Muea  il  fefoito,  con  U  risposta  dell'ambasciatore  al  frate. 


—  es- 
ani servitij  de  S.  Ex.,  ma  ella  non  lo  volse  mai,  non  li  piacendo  simile  bestia. 
L'è  vero  che  qualche  volta  S.  Ex.  se  pigliava  piacere  de  sue  compositioni,  ma 
non  che  li  sia  mai  piaciuto  che  scrivesse  et  dicesse  male  del  Papa,  né  de  Car- 
dinali et  prelati;  anzi  poi  che  ha  conosciuto  la  sua  maledica  natura  l'ha  tanto 
abhorrito  che  non  lo  poteva  patire,  et  già  molti  dì  non  li  ha  fatto  bona  ciera, 
et  non  lo  voleva  vedere,  et  finalmente  li  fece  dire  che  l'andasse  con  Dio,  che  lo 
haveva  fatto  ricercare  di  stare  qui  sei  o  otto  di,  et  horraai  erano  cinque  mesi 
et  più.  Lui  cominciò  a  bravare  et  minacciare  de  scriver  tanto  male  de  S.  Ex. 
quanto  facesse  mai  de  homo,  dicendo  che  non  li  manchariano  subietti  volendo 
metterli  filo;  ma  ella  li  fece  fare  ambassata  de  sorta  che  subito  se  humiliò  come 
una  pecora  et  se  ne  andò  col  malanno.  Vero  è  che  il  S.  non  volse  restare  di 
usare  della  sua  solita  benigna  et  liberal  natura  donandogli  cento  scudi  et  cer- 
t'altre  cose. 

Che  Phabbia  inscritto  *)  libro  de  maledictione  al  S.,  S.  Ex.  non  ne  sa  niente, 
se  ben  può  essere  che  lui  l'habbi  fatto;  V.  S.  veda  rao'  et  facci  intendere  lì  se 
S.  Ex.  ha  consentito  alle  ditte  maleditioni  o  no.  Anzi  ella  dice  che  se  a  N.  S. 
non  basta  che  S.  Ex.  lo  habbia  licentiato  accenni  pur  se  li  piace  altro,  che  facci 
pur  secretamente  un  motto  del  volere  suo  o  altro  che  S.  Beatitudine  li  accenni  che 
piacesse  a  quella,  che  lo  farà  portare  in  un  bolettino,  et  se  l'ha  scapato  le  mani 
de  altri  non  scaparà  forsi  le  sue  et  faria  ben  di  modo  che  non  se  saperla  ad 
instantia  de  chi  fosse  stato  fatto.  Questo  è  quanto  all'Aretino 

Mant.  4  maggio  1527. 


IIL 

Il  Marchese  di  Mantova  alV Aretino. 

{Reg.  Liti.  Re$erv.,  Lib.  38) 

M.  Petro  mio.  Dapoi  che  seti  a  Venetia  ho  recevuto  IIII  vostre  lettere  '), 
et  con  una  di  esse  li  sonetti  che  mi  haveti  mandati.  Tutte  mi  sono  state  gratiss. 
et  iocondiss.»  per  essere  cose  dotte  et  piacevole,  et  ne  ho  preso  gran  spasso  et 
piacere,  come  faccio  de  tutte  le  vostre  belle  compositioni  le  quali  mi  deiettano 
tanto  quanto  credo  che  voi  sapiati.  Però  ve  ne  rendo  infinite  gratie  et  ve  ne 
resto  con  obligo  non  mediocre.  Per  altre  mie  lettere  ho  risposto  alle  due  prime 
vostre;  queste  scranno  per  risposta  de  le  altre  due,  acciocché  sappiati  che  sono 
capitate  bene  et  sono  sta'  lette  con  piacere  da  me,  et  acciocché  sapiate  che  vo- 


1)  dedicato. 

2)  Tutte  purtroppo  smarrite,  Insieme  ad  altre  a  cui  più  appresso  si  veggono  le  risposte  del  Marchese. 
—  Francesco  Coccio,  in  una  lettera  a  Leonardo  Parpaglioni,  che  si  legge  n^' Ragionamenti  dell'Aretino 
(ed.  di  Cosmopoli,  p.  417)  dopo  grandi  elogi  a  Pietro  che  componeva  con  una  rapidità  meravigUosa,  affa- 
ticando gli  stampatori  —  come  un  giornalista  —,  deplora  che  siano  disperse  mille  cose  originalissime, 
specialmente  satiriche,  da  lui  improvvisate.  Ben  è  vero  -  soggiunge  —  che  «  U  Duca  di  Mantova  né 
ha  gran  copia.  » 


—  64  — 

lontieri  vi  ho  fatto  la  gratia  di  rivedere  il  vostro  iuditio,  benché  anche  prima 
lo  havessi  revisto,  et  trovo  che  l'è  il  più  veridico  iudicio  che  sii  sta'  fatto  già 
molti  anni,  et  che  sete  il  miglior  astrologo  che  sia,  et  che  potete  essere  diman- 
dato propheta  divino.  Aspetarò  mo'  in  recognitione  di  queste  gratie  voi  mi  at- 
tendiati  la  promessa  fattami  di  mandarmi  quello  che  uscirà  da  l'optimo  vostro 
ingegno,  come  vi  prego  che  facciati  perchè  non  mi  potria  essere  fatto  il  maggior 
piacere  et  non  trovo  in  cosa  alcuna  maggior  iocondità  di  quello  che  faccio  in 
vostri  scritti Mantova  28  maggio  1527. 


IV. 

(Codice  marciano,  CI.  XI  it..  no  LXVI,  a  carte  282  /•  e  segg.) 

Al  Magnanimo  Principe  Federico  Gonzaga  Marchese  de  Mantova. 

Optimo  Signore,  Io  ho  intitolato  a  V.  Ex.  questa  Canzone  i),  la  quale  ho  fatta 
perchè  l'Arciv.  Cornare  che  me  n'ha  pregato  è  degno  d'essere  obedito,  et  se  ci 
è  qualche  vocabolo  che  non  sia  petrarchevole  non  è  perch'io  non  conosca  messer 
Sovente  et  Ser  Unquanco  et  Don  Quinci  et  maestro  Quindi^  forse  quanto  gli 
altri  poeti  quae  pars  est.  Ma  la  passione  che  diede  quella  bona  robba  di  Monna 
Laura  a  Ser  Petrarcha  fu  più  dolce  che  questa  che  ci  dà  Roma  coda  mundi  per 
gratia  de  li  Spagnoli  et  dei  Tedeschi,  che  per  dio  bisogneria  che  per  isfogarsi 
le  parole  fessene  spiedi  et  archibusi. 

Hora  degnatevi  legerla,  che  secundo  che  dicono  l'infinite  et  nobilissime  persone 
che  in  così  fatto  caso  hanno  mendicata  la  vita,  la  ruina  di  Cartagine  et  di  Je- 
rusalem  et  quella  di  Troia  dovette  essere  minore,  perchè  ci  sono  stati  offesi 
più  Dei  che  huomeni,  et  non  bisogna  ch'io  vi  rammenti  il  pianto  mentre  che  leg- 
gerete l'excidio  de  la  commune  patria,  perchè  io  so  quanto  vi  dole  il  publico 
danno,  per  esser  voi  solo  amico  de  la  Italia  et  mal  concia  Chiesa. 

Et  a  V.  Ex.  racomando  la  servitù  mia  ecc. 

A  VII  de  luglio  1527. 

Di  V.  Bx.°ia  S. 

Perpetuo  Ser.« 
P.  A. 


Deh  havess'io  quella  terribil  tromba 
Ch'altamente  cantò  di  Troia  il  pianto, 
0  equali  al  suggetto  almen  gli  accenti. 
Foss'io  Vergilio  te,  te  foss'io  tanto 


•)  Nel  cod.  nuurc.  si  hanno  quasi  due  lezioni  sovrapposte  di  questa  canzone  :  generalmente  migliore 
è  la  aee<Hida,  che  perdo  pia  spesso  ho  seguito  ;  alle  volte  per  altro  è  difficile  raccapezzarsi  fra  tante 
▼aiiaBti  e  correxioni  che  l'A.  introdusse  nella  prima  redazione,  e  che  lo  scrittore  del  codice  ebbe  cura 
di  MeogUere. 


—  es- 
che dir  potessi  il  duol  che  in  ciel  rimbomba 
De  l'alma  et  diva  madre  de  le  genti. 
Ma  se  dove  tu  sei  l'angoscie  senti 
De  la  già  nostra  et  tua  patria  che  era 
Eegina  invitta  et  bora  è  serva  e  doma, 
Vieni  et  deplora,  come  Troia,  Roma, 
Roma  compagna  a  Cartagine  vera. 
Che  roina  sì  fiera 

Jerusalem  non  vidde  andando  al  fondo. 
Macchia  eterna  sul  volto  al  cielo  e  al  mondo. 

Il  dì  sexto  di  Maggio,  ohimè  l'orrendo 
Giorno  infelice,  paventoso  et  crudo 
Che  fa  scrivendo  sbigotir  gl'inchiostri. 
In  mezzo  al  fuoco  et  drente  al  ferro  nudo, 
In  preda  al  temerario  ardir  tremendo 
D'Alemagna  et  di  Spagna,  a  gli  occhi  nostri 
In  man  di  cani  et  de  spietati  mostri 
De  l'universo  la  diletta  donna 
Trovossi  inerme  di  consigli  et  d'armi 
(Aiutatimi  a  dirlo  ingrati  carmi). 
Di  magio  il  sexto  l'unica  madonna 
Del  gran  mondo  colonna 
Violata,  mendica  et  genuflessa, 
Lorda  di  sangue,  altrui  pianse  et  se  stessa. 

Piangeva  più  de'  suoi  bei  tetti  altieri. 
Che  la  fiamma  mandavano  a  le  stelle, 
Che  de  le  pia^  sue  per  tutto  sparte, 
Et  mentre  le  bellissime  donzelle 
Sforzavano  gli  iniqui  desideri, 
Languir  facea  le  pietre  in  ogni  parte. 
Vide  pili  volte  il  furibondo  marte 
Che  figlio  unico  uccise  inanci  al  padre 
Et  sol  turbarsi  et  per  dolor  fuggire. 
Passione  aggiugnea  al  gran  martire 
Quando  la  vecchia  et  terrefatta  madre 
Rabiosa  infra  le  squadre 
El  figlio  giovinetto  havea  ricolto 
Et  ne  le  braccia  sue  stanche  sepolto. 

Vide  la  donna  fida  e  '1  sposo  acceso 

(Pur  dianzi  al  casto  letto  agiunti  insieme) 
Satiar  del  giovin  sangue  il  coltel  empio. 
Vide  il  pio  genitor  che  a  l'hore  extreme 
Pose  la  figlia  aciò  restasse  illeso 

Il  caro  fior  di  pudicicia  exempio 

...  Quei  che  pur  hieri  giunsero  a  la  cuna 
Purno  ucisi  vilmente  entro  le  fasce 
Et  inanzi  a  la  colpa  hebber  la  pena, 


Luzio  —  Pietro  Arftino 


—  66  - 

Et  quei  che  al  materno  alvo  haveano  a  pena 

Le  membra  humane  naturali  fatte 

Prima  morir  che  nascesser  nel  ventre. 

Chi  da  finestra  fu  a  ventato  mentre 

Dolce  suggeva  da  le  mamme  intatte 

Vie  più  sangue  che  latte. 

Ma  può  dir  chi  non  vide  i  casi  rei: 

Troppo  sono  obligato  a  gli  occhi  miei. 

Sul  ponte  ove  Adriano  ha  la  gran  mole 
Una  romana  infuriata  corse 
Che  '1  corpo  havea  corrotto  e  casto  il  core, 
Et  poi  che  '1  caso  a' circustanti  porse 
Disse  al  Tever  con  lachrime  et  parole: 
Levami  il  fango  del  perduto  honore, 
Tu  sarai  del  mio  danno  rederaptore, 
Tu  il  mio  sepolcro.  E  nel  sanguigno  fiume 
Voluntaria  gettò  le  offese  membra ^) 

Sangue  è  corso  il  bel  Tebro,  è  corso  sangue 
Il  Re  de  i  fiumi  u'  passar  d'ogni  clima 
Dbmiti  regi  et  più  triomphi  et  palme, 
Tal  che  T  Tirreno  mar  che  ridea  prima 
De  sì  crudel  tributo  ammira  et  langue. 
Via  Sacra  e  Lata  u'  tante  degne  salme 
Ricche  passar,  di  corpi  miserandi 
Coperta  stassi,  né  è  chi  gli  ricopra, 
Piange  il  caso  quel  ciel  che  gli  sta  sopra, 
Ne  sospiran  gli  influssi  lor  nefandi, 
Et  così  gli  honorandi 
Huomeni  stansi  senza  sepoltura, 
Spetacol  che  a  la  morte  fa  paura. 

Quando  l'imperator  dei  Turchi  Rhodi 
Servo  si  fece  et  di  Jesù  il  fratello 
Dell'antica  sbandì  saneta  magione, 
Libero  questo  se  n'andava  et  quello 
(Famose  al  vincitor  perpetue  lodi). 
Et  reverì  l'altrui  religione. 
Et  tante  de  le  sue  morir  persone 
Che  per  la  sanguinosa  aspra  vittoria 
Li  era  lecito  usar  gran  crudeltade. 
Et  queste  turbe  prive  di  pìetade, 
Del  ciel  nimiche,  di  fede  et  di  gloria, 
Per  lassar  ria  memoria, 
("ielo  e  terra  hanno  offeso  in  vii  dispetto 
De  Christo  ne  l'altissimo  conspetto 


>)  Su  questi  tr»gid  incidenti  del  sacco  di  Roma,  cfr.  Gbegokovius,  op.  cit.,  Vili,  p.  687;  o  la  let- 
tera da  me  pnbblicat*  di  Francesco  Gonzaga  (F.  Maramaldo;  Ancona,  188:?,  p.  81). 


—  67  — 

0  eterno  Signor,  Sancto  de  Sancti, 

Benché  de  assai  habbin  passato  il  segno 
D'ogni  remission  nostri  peccati, 
Il  giustissimo  tuo  severo  sdegno 
Tempera  hormai,  et  i  gran  vicij  e  tanti 
Sien  da  la  tua  pietade  superati. 
Et  se  t'agrada  pur  che  sien  purgati 

I  mali  atroci  ove  s'è  visso  e  vive, 
Non  lasciare  schernire  i  templi  toi, 
Che  in  vero  è  cosa  inhumana  fra  noi 
Che  un  vii  cavallo  all'are  sancte  arriva, 
U'  cerimonie  dive 

S'usavan  celebrar,  per  cui  mostrarne 

Ti  degnavi  il  tuo  sangue  e  la  tua  carne. 

L'hostia  sacra  dich'io,  Christo  verace, 
Che  i  fier  nemici  de  la  nostra  fede 
Hanno  oltraggiata  in  acqua  indegna,  in  foco; 
Et  le  reliquie  di  quei,  che  mercede 
Teco  impetrar,  con  impeto  rapace 
Senz'honor  vanno  in  ogni  brutto  loco. 
Remira,  o  re  de  Idei,  contempla  un  poco 
Le  donne  sacre  a  te,  per  cui  non  s'erra. 
Come  il  vergineo  fior  gli  è  tolto  a  forza... 
Né  consentir  che  chi  t'asembra  in  terra 
Servo  rimanga  e  in  dubio  de  la  vita, 
Che  a  Pier  non  a  Clemente  porgi  aita. 

Et  tu  Carlo  immortai  che  '1  cognome  hai 
Di  Cesar,  di  Catholico,  e  d'invicto, 
Doni  da  tua  magnanima  potenza; 
Se  pon  ment«  di  Roma  al  gran  conflicto. 
Tu  stesso  alla  vittoria  scemerai 
Et  le  lodi  et  l'honore  et  l'eccelenza, 
Perchè  manchato  se'  de  la  clemenza 
A  Dio  e  a  noi,  onde  vien  che  s'offenda 

II  titol  ch'hanno  i  Cesari  per  sorte. 

Et  poi  Roma  non  merta  e  stracio  e  morte 
Da  Cesar,  anci  corona  che  splenda 
Per  l'universo  e  ascenda 
A  quel  grado  che  già  da  Cesar  hebbe, 
Et  s'hor  Cesare  il  fa,  fa  ciò  ch'ei  debbe. 
Movati  anchor  che  se'  Re  de  Romani, 
Et  qual  Neron  non  voler  Roma  estinta, 
Roma  d'imperatori  antico  seggio. 
Volgi  homai  le  tue  insegne  e  le  tue  mani 
Nell'oriente  u'  dominar  ti  veggio, 
E  fia  per  te  l'infedel  setta  vinta. 
Che  t'ha  fatto  l'Italia  afflitta  e  cìnta 


—  68  — 

De  le  malvagie  tue  barbare  schiere? 
Richiama  altrove  le  tue  genti  altiere, 
Poi  ch'a  l'estremo  è  l'alma  Roma  bella 
Di  Milano  sorella, 

Milan  secondo  et  Roma  primo  danno, 
Terrore  a'  vivi  e  a  quei  che  nasceranno. 
Et  benché  gran  mercè  del  tuo  pianeta 
Triomphi  et  hor  superbo  al  carro  meni 
Un  Papa  e  un  Re,  trophei  di  vostra  altezza, 
E  per  pompa  magior  di  Christo  tieni 

I  cardinal  prigioni,  et  già  la  meta 
D'Hercole  passi  e  afreni  ogni  alterezza, 
Tal  che  fortuna  a  dare  et  torre  avezza 
Cagion  che  vinci  per  miracol  piglia 

II  glorioso  tuo  volar  tant'alto. 

Non  far  a'  preghi  giusti  il  cor  di  smalto, 
Ch'omai  slam  tutti  de  la  tua  famiglia 
Et  ne  aiuta  e  consiglia, 
Rendi  a  Cesare  il  suo  del  magno  aquisto 
Et  Cesar  dia  quel  ch'è  di  Christo  a  Christo. 

Che  se  fai  questo,  non  fia  tanto  eterno 
Il  mondo  quanto  il  tuo  gran  nome  chiaro, 
Nò  mai  gli  porran  gli  anni  al  volto  il  velo, 
Et  l'innocente  sparso  sangue  caro 
Et  ogni  disperata  alma  a  l'inferno 
Non  chiamerà  vendetta  ivi  né  in  cielo. 
Se  noi  fai,  anche  Italia  in  mano  ha  '1  telo, 
Venetia  è  inexpugnabile  et  anchora 
Inghilterra  et  Fiorenza  ha  oro  et  senno. 
Francia  che  solea  vincer  già  col  cenno 
In  util  suo  comincia  a  venir  bora. 
Chiunque  Christo  adora 
Havrai  se  vuoi;  se  non,  con  forti  tempre 
Pugneran  teco  per  non  pugnar  sempre. 

Vanne  a  Mantova,  figlia  mesta  e  humile, 
Et  presentati  al  magno  Federico 
Ch'à  di  quel  che  tu  conti  immensa  doglia. 
Et  dì:  mio  padre  di  piacere  ha  voglia 
Al  Rangon  Guido  e  a  voi  d'Italia  amico  ^). 
E  ascolta  ciò  ch'io  dico. 
Del  gran  Giovanni  a  l'urna  anchor  ti  prostra 
Che  Roma  estinto  lui  non  fu  più  nostra. 


1)  Coiì  U  lezione  soTnpposta.  La  prima  era  invece  : 


Di  piacervi  ha  voglia 
Perchè  vero  de  Italia  fete  amico. 


69 


{ibid.,  a  e.  284  v.) 


Mastro  Pasquino. 


Pax  vobis  brigata 

E  Dio  ve  dia  in  le  mani 
A  giudei  et  marrani 
Et  a  tedeschi, 
Che  a  Roma  a  quei  vin  freschi 
Si  stanno  bora  a  sguazare 
Attendendo  a  eh.. ..re 

Huomini  et  donne. 
E  gli  orsi  e  le  colonne 
Populusque  romano 
Di  caso  tanto  strano 
Han  patientia. 
Hora  senza  licentia 

Dirò,  ben  ch'io  sia  fiacho,- 
Chi  mandò  Roma  a  sacho 
E  quando  e  chome. 
Dicovi  ancho  el  mio  nome 
Perchè  voi  noi  sapete, 
Non  son  né  mai  fui  prete 
0  loro  amico. 
Notate  ciò  ch'io  dico, 
Io  non  son  Gian  Mattheo 
Archimulo  e  plebeo 

') 

Né *)  quel  tristo, 

Né  '1  compagno  Salviati, 
Né  degli  sciagurati 

Il  Caffo  Alberto, 
Vo'  dir  di  quel  diserto 
Di  Carpi  già  signore, 
Ribaldo  traditore 

Hoggi  in  castello. 
Non  io,  che  non  son  quello, 
Io  sono  il  poverino 
Vostro  mastro  Pasquino 
Ignudo  e  schalzo. 


E  di  trotto  e  di  balzo 
Son  da  le  man  campato 
De  nemici  e  son  stato 
Loro  prigione. 
E  perchè  le  persone 
Non  mi  conoscon  tutte 
Havuto  ho  de  le  frutte 
De  li  ribaldi. 
In  el  cui  ferri  caldi, 
Tutti  i  coglion  pelati 
Credendo  che  ducati 

In  chioccha  havessi. 
E  volean  ch'io  dicessi 
Si  ero  Phelippo  Stroci 
E  coi  denti  m'han  moci 
Ambi  gli  orecchij, 
E  ancho  hebbi  parechi 
Crudi  di  corda  tratti, 
Alfin  dui  forcier  tratti 
Hebbi  d'un  loco 
Ch'io  nascosi  per  gioco 
Apresso  a  un  tre  anni, 
Et  creser  fusser  panni 
E  drappi  eletti. 
Cognosciuti  i  sonetti 
Del  profeta  Aretino 
Tutti  a  mastro  Pasquino 
Fecero  festa. 
Né  me  fidai  di  questa 
Lor  thodesca  amicicia 
E  fugii  con  malicia 

Un  giorno  ignudo. 
E  tremo  a  ghiado  et  sudo 
Quando  io  penso  che  Roma 
Visto  ho  in  un  sacco  doma 
E  minata. 


')  Abraso. 


—  70  — 


La  lega  slegacciata 
È  già  passato  l'anno 
Che  a  sua  vergogna  e  danno 
Scempiamente 
Andò  con  molta  gente 
E  più  d'un  capitano 
Per  aquistar  Milano 
E  die  l'assalto, 
Poi  la  notte  fece  alto 
Cioè  fuggissi  via 
Con  gran  vigliaccheria 
A  Marignano. 
L'exercito  marrano 
Che  stava  sul  partire 
Vedendo  altrui  fuggire 
Si  stette  forte, 
Né  ci  à  colpa  la  sorte 

Né  Urbino  1)  in  tai  marroni, 
Ma  con  supportationi 
Armorum  nostri 


Da  le  zappe  e  da  rostri 
Levati  alhora  alhora 
Che  l'anima  me  achora 

Quando  io  lo  penso. 

Che  vituperio  immenso 
A  dir  che  de  furfanti 
Quarantamilìa  fanti 
Anumerati 

E  tutti  strapagati 
Da  Francia  e  da  la  Chiesa. 

Questi  militi  instrutti 
In  debellar  galline, 
De  villani  ruine 

E  de  paesi ') 

(manca  il  seguito) 


')  n  Duca  d'Urbino,  capitano  della  Lega. 

')  Che  la  frottola  seguitasse  narrando  burlescamente  il  sacco  di  Roma  si  può  arguire  dalla  P.  Errante 
del  Veniero ,  il  quale  nel  canto  quarto  (st.  20—22)  sullo  stesso  soggetto  cita  Pasquino  ed  usa  frasi 
sgaaiate  aretinesche: 


Mentre  l'illustre  et  unica  poltrona 
Col  e...  alti  miracoli  facea, 
Ecco  la  Spagna  et  Lamagna  in  persona 
Ch'adosso  a  Koma  in  collera  correa. 
\  l'armi  ogni  campana  in  furia  sona, 
Ogn'huom  misericordia  al  ciel  chiedea, 
Chi  fugge,  chi  s'asconde  e  chi  tremando 
Dicea  sancta  sanctorum  mi  racomando. 

Intanto  ser  Don  Diego  e  Don  Odrico, 
Don  Sancio  di  Laynes  a  far  guerra  usi 
Senza  conoscer  amico  o  nemico, 
Al  suon  de' musichevoli  archibusi 
Entrare  in  Roma  —  io  tremo  mentre  '1  dico 
Sbucar  facendo  i  Monsignor  rinchiusi, 
Populusque  romanus  e  ogni  gente. 
Come  conta  Pasqiiin  ch'aera  presente. 

Piangea  ciascun,  ciascun  chiedeva  aita 

-Sol  l'Errante  non  era  sbigottita 
A  la  ruina  et  a  la  destruttione 
Di  Itotna  muda  mundi  e  de' suoi  Preti 


71 


V. 

Il  Marchese  di  Mantova  a  P.  Aretino. 

(Reg.  Liit.  Reserv.,  Lil).  38) 

Magnifice  ecc.  In  questi  dì  hebbi  le  lettere  vostre  insieme  con  la  piacevolissima 
frottola  et  la  dottissima  canzone,  composta  per  voi  nella  mina  de  Roma,  le  quali 
mi  sono  state  gratissime,  si  come  sogliono  sempre  essere  tutte  le  cose  vostre, 
tanto  argute  et  ingeniose  quanto  sono,  et  sì  come  mi  hanno  fatto  gran.^^''  piacere 
cosi  sumamente  ve  ne  ringratiamo,  tanto  più  vedendo  che  non  omettete  occa- 
sione alcuna  dove  vi  accadi  parlare  et  scrivere  honorevolmente  di  me,  il  che  io 
estimo  assai,  et  sentomine  molto  obligato. 

Ho  doppoi  avuto  li  due  belissimi  quadri  del  Tuciano,  che  mi  havete  mandati 
per  il  servitor  vostro,  li  quali  mi  sono  sta'  molto  cari,  sì  per  il  desiderio  ch'io 
havevo  di  havere  un'opera  fatta  da  così  dotte  mani,  come  sono  quelle  de  lo  ex- 
celiente  p'°  Tuciano,  come  ancho  per  rapresentarmisi  in  uno  di  essi  quadri  la 
effigie  di  così  dotto  huomo  come  seti  voi,  et  nello  altro  potendo  io  contemplare 
la  imagine  d'una  persona  tanto  amata  da  me  quanto  era  il  S.^  Hier."  Adorno. 
Sareti  adunque  contento  di  ringratiar  summamente  in  nome  mio  esso  Tuciano, 
facendo  intendere  che  in  breve  li  farò  bene  un  presente  tale  che  '1  potrà  cogno- 
scere  quanto  mi  sia  stata  grata  una  tanta  dimostratione,  quanta  ha  usato  verso 
di  me  al  presente,  la  qual  non  voglio  per  modo  alcuno  passi  senza  che  da  me 
sia  remunerata  come  si  conviene  ^). 

Mando  al  presente  a  voi  una  veste,  quale  sareti  contento  godere  per  amor  mio 
tal  qual  è  con  quel  bon  core  che  io  ve  la  dono,  pregando  ogni  volta  ve  ac- 
caderà  comporre  qualche  bella  cosa  che  non  vi  sia  grave  farmene  participe,  che 
di  questo  non  mi  ne  potreste  fare  maggior  piacere,  ecc.  ecc. 

Da  Mantova  alli  VITI  di  Julio  1527. 


VI. 

Dei  medesimo, 
{ibid.) 


Mag.«^°  et  dotiss."  m.  Pietro.  Hebbi  questi  dì  passati  una  littera  vostra  insieme 
con  alcuni  vetri  che  mi  mandasti  a  dono;  la  quale  mi  fu  gratiss.  altretanto  di 
quello  che  mi  forno  li  vetri  che  somamente  mi  piaquero,  per  essere  in  vero 
belliss.  et  ben  fatti  et  di  foggia  molto  nova.  Et  come  che  simili  novità  sogliono 
piacere  sempre  ad  ogniuno,  nondimeno  dilectano  me  sommamente.  Per  il  che  vi 
ne  ringratio  infinitamente  et  non  sarei  già  stato  tanto  ad  fare  questo  officio  et 
a  respondervi,    se   non  fosse   stato   ch'io   aspettavo  il  messo  vostro  che  venesse 


')  Il  paragrafo  di  questa  lettera,  relativo  a'  due  quadri  del  Tiziano,  fa  pubblicato  dal  Braghirolli,  l.  e; 
(cfr.  Cavalcaselle  e  Crowe,  op.  cit.,  I,  285). 


—  72  — 

per  la  risposta,  quale  poi  che  mi  hebbe  presentato  li  detti  vetri  non  è  mai  com- 
parso. Et  perchè  per  essa  mi  scrivevati  che  quel  altro  vostro  servo  che  mi  portò 
li  rettratti  non  era  ancor  gionto  a  voi,  io  mi  ne  maravigliai  molto  per  esser 
stato  expedito  di  qua  già  molti  dì.  Nondimeno  perchè  per  un'altra  che  mi  haveti 
dopoi  scritto  non  mi  haveti  fatto  mentione  altrimenti  di  costui,  mi  penso  che 
a  quest'hora  debba  esser  venuto,  perchè  non  sera  necessario  che  mandiati  altri- 
menti in  qua  la  colomba,  qual  vi  doveti  pur  tenir  cara  (?). 

Con  l'altra  detta  lettera  vostra  io  ho  avuto  il  belliss."  capitolo  che  in  nome 
d'Italia  haveti  indriciato  al  Christianissimo.  Il  quale  veramente  mi  è  piaciuto  et 
hollo  letto  e  riletto  più  volte  con  mia  gran.™"  satisfatione  per  essere  una  belliss.» 
inventione  ben  detta,  ingeniosa,  dotiss.»  et  argutiss.*  come  sogliono  sempre  essere 
tutte  le  cose  vostre 

Et  circa  l'andata  vostra  in  Franza  a  me  non  accade  altro,  se  non  che  vediate 
se  in  questa  vostra  partita  vi  posso  far  piacere  alcuno,  et  ricercandomi  non 
mancare  di  far  tutto  quello  che  sapere  Qsservi  di  satisfatione.  Io  non  vi  dico 
altrimenti  dell'officio  che  haveti  ad  fare  per  me  in  Franza,  perochè  mi  rendo 
certiss.*"  che  non  potresti  mancare  della  usanza  et  amorevolezza  vostra  verso  me. 
Mantova  4  agosto  1527. 


vn. 

Del  medesimo. 

(Reg.  Liti.  Reserv.,  Lib.  39) 

M.<^  ecc.  In  questi  dì  passati  hebbi  una  lettera  vostra  per  la  quale  mi  ricer- 
cavati  di  25  scudi  per  vostro  bisogno,  li  quali  vi  haveria  mandati  fin  allhora, 
come  quello  che  non  desidera  se  non  di  farvi  piacere;  ma  la  sorte  mia  volse 
che  in  quelli  mederai  dì  mi  infirmai  d'una  febre  tanto  vehemente  che  né  io 
né  li  medici  credevano  che  ne  dovessi  sanare  così  presto  come  ho  fatto  per 
gratia  di  Dio.  Et  tanto  che  sono  stato  amalato  li  servitori  che  mi  hanno 
havuto  rispetto  non  mi  hanno  raccordato  né  del  servo  vostro  che  era  qui,  né 
d'alcuna  altra  cosa.  Del  che,  quanto  sia  per  la  cosa  vostra  raccordatami  per 
l'altra  vostra  del  8  del  presente,  ho  havuto  dispiacere,  perchè  pur  che  mi  ne 
fossi  sta'  fatto  un  cenno  haverei  fatto  expedire  il  vostro  messo  subito  et  sa- 
tisfatto il  desiderio  et  bisogno  vostro.  Mi  spiace  bene  che  siate  venuto  così 
facilmente  in  diffidentia  di  me  et  che  crediate  che  io  stimi  tanto  poco  voi  e 
le  virtù  vostre  ;  ma  patientia,  non  starò  per  questa  vostra  diffidentia  de  amarvi 
et  istimarvi  secondo  che  son   solito   de  fare. 

Ho  letto  le  stantie  che  mi  haveti  mandate,  principio  della  vostra  Marphisa 
disperata,  la  quale  so  che  sarà  più  presto  finita  che  d'altri  non  scrìa  princi- 
piata, et  non  sera  manco  bella  né  manco  dotta  che  si  la  fosse  fatta  in  25  anni. 
Le  dotte  stantie  mi  sono  molto  piaciute  et  con  questo  poco  gusto  che  mi  ne 
havete  dato  mi  havete  messo  nel  maggior  desiderio  del  mondo  di  vederla  finita  : 
il  quale  desiderio  non  so  se  potrà  esser  prevenuto  dalla  velocità  del  vostro  in- 
gegno. Vi  ringratio  ben  infinitamente  de  l'honore  che  mi  fate  in  componermi 
questa  opra  et  in  farniegli  tanto  honore  dentro  quanto  mi  fate. 


-    73  — 

Alla  parte  che  diceti  voi  sapper  chiaro  de  non  esser  stato  accettato  da  me 
per  causa  de  non  dispiacere  ad  altri  %  voi  seti  in  grand'errore  et  non  dovresti 
reputarmi  d'animo  tale;  et   circa  ciò  non  accade  dire   altro. 

Il  vostro  servo  è  stato  qua  continuamente  per  quanto  ho  inteso,  il  quale 
faccio  spazare  con  questa,  et  per  esso  vi  mando  50  scudi  d'oro  '}  quali  vi  piacerà 
godere  per  amor  mio. 

Del  Ticiano  non  mi  sono  scordato,  né  le  virtù  sue  meritano  essere  scordate 
da  me,  et  gli  farò  conoscere  la  memoria  tengo  de  lui  et  l'animo  che  ho  de  fargli 
piacere.  AUi  commodi  vostri  ecc. 

Da  Marmirolo  alli  15  de  sett.  1527. 


Vili. 
Del  medesimo. 

{Reg.  Liti.  Reserv.,  Lib.  40) 

D^**  Petro  Aretino.  Questi  dì  passati  io  hehbi  una  lettera  vostra  et  questa 
matina  ne  ho  havuto  un'altra  :  con  la  prima  erano  le  belliss.»  stanze  et  molto 
eleganti  deirecc."^"  principio  della  vostra  desperata  Marphisa,  le  quali  veramente 
mi  sono  state  oltra  modo  grate,  nò  dirvi  potrei  con  quanto  piacere  et  satisfattione 
d'animo  le  habbi  letto,  parendomi  pure  che  non  meno  ingegnosamente  et  dot- 
tamente voi  habbiate  descritte  quelle  due  tempeste,  di  mar  l'una,  l'altra  di 
terra.  Nelle  quali  essendomi  io  molto  dilettato  vi  prego  grandemente  che  ogni 
volta  che  vi  accaderà  haver  fatto  in  questa  vostra  bellissima  opera  qualche 
bel  tratto,  sì  come  al  vostro  fertile  et  dotto  ingegno,  non  ponno  mancar  varii 
dilettevoli  et  rari  soggietti,  non  vi  sia  grave  continuare  in  farmene  partecipe, 
mandandomi  qualche  cosa  sì  come  andreti  dietro  componendo.  Et  si  non  ha- 
vereti  lì  chi  transcriva  non  restate  però  di  mandarmene,  et  io  ben  le  farò 
copiare  qua  a  quel  servitore  di  m.  Agnello  quale  so  che  scrive  bene.  Et  dell'ho- 
nore  che  nella  detta  opera  vostra  et  in  ogni  altra  occasione  mi  fate  vi  ringratio 
somamente,  facendo  anche  il  medemo  delle  dette  stanze  che  m'haveti  mandato. 

Et  circa  il  Tucciano  io  non  mancarò  di  fargli  in  brievi  qualche  dimostra- 
tione,  di  sorta  che  potrà  cognoscere  in  quanto  bon  conto  io  lo  tengo  et  quanto 
mi  è  grato.  Se  mi  mandareti  quella  statua  che  mi  haveti  scritto  che  mi  lavora 
di  bronzo  quel  M.*""  che  mi  fece  il  Laocoonte')  io  l'haverò  molto  cara,  perchè 


^)  Cioè  al  Papa  e  al  Datario,  com'era  di  fatto. 

')  «  Mazzone  mio  servidore  mi  ha  dati  i  cinquanta  scudi  e  il  giubbon  d'oro  che  mi  mandate.  Dirò 
«  ancho  che  toniate  a  mente  la  promessa  fatta  a  Titiano  mercè  del  mio  ritratto.  »  Così  rispondeva 
l'Aretino  {Lettere,  I,  13)  con  una  lettera  che  ha  nella  stampa  la  data  del  6  agosto  1527,  evidentfimente 
errata,  poiché  è  la  precisa  risposta  a  questa  del  Marchese  (cfr.  anche  il  doc.  Vili). 

^)  Era  il  Sansovino.  Cfr.  Baschet,  Doc.  cit.,  XXIV.  «  Io  ho  fatto  ritrarre,  scriveva  del  1525  l'Are- 
«  tino  al  Marchese,  ho  fatto  ritrarre  di  stucco  Laocoonte  antico  de  Belvedere,  d'altezza  forse  d'un 
«  braccio  ;  e  a  giuditio  del  Papa  e  di  tutti  gli  scultori  de  Roma  non  fu  mai  la  meglio  cosa  ritratta  : 
«  et  l'autore  è  un  Jacopo  Sansavino,  che  m.  Julio  vostro  dipintore  {G.  Romano)  vi  può  dir  chi  egli  è. 
«  E  ci  è  stato  tutto  verno  a  ritrarlo;  e  N.  S.  spesso  a  Belveder  è  ito  a  vederlo  lavorare.  Et  in  somma 


—  74  — 

laudandomela  voi  come  fate  che  seti  persona  di  grand.™"  ingegno  et  iuditio,  son 
certissimo  che  la  non  mi  potrà  se  non  somamente  piacere;  et  tanto  più  Tha- 
verò  cara  quanto  ch'è  cosa   lavorata  a  nome  mio  sì   come  mi  scriveti. 

Questa  mattina  è  stato  qua  a  visitarmi  il  S/  Alexandro  CoIona  quale  io 
ho  veduto  volentieri,  et  non  ho  mancato  di  fargli  quella  amorevole  ciera  et 
grata  accoglienza  che  mi  sono  parse  convenirsi  al  gran  conto  ch'esso  mostra 
tener  di  me  et  sicondo  il  raccordo  che  voi  anche  mi  haveti  fatto.  Né  altro 
occorrendomi  per  hora  che  scrivervi,   alli  commodi  et  piaceri  vostri  ecc. 

Da  Mantova  alli  XI  de  ott.  1527. 

Tutto  vostro 
Il  Marchese  di  M. 


IX. 

Bel  medesimo. 

(Copiahtt.  ordin.,  Lib.  291) 

M^»  ecc.  Con  mio  grand.™°  piacere  ho  letto  li  dui  bellissimi  cantari  che  con 
una  vostra  de  23  del  passato  me  haveti  mandati,  li  quali  in  vero  me  hanno 
deiettato  grandemente  et  me  pareno  degni  di  somma  commendatione,  di  sorte 
che  per  questi  et  per  li  altri  che  ho  veduti  et  per  conoscere  io  il  prontissimo 
non  meno  che  dottissimo  ingegno  vostro,  il  quale  hormai  è  a  tutti  noto  uni- 
versalmente, io  mi  tengo  certissimo  che  siate  per  riuscire  con  grand.™"  honore 
dell'opra  incominciata  et  reportarne  somma  laude  appresso  ogniuno,  guada- 
gnandovi col  mezzo  d'essa  la  immortalità  et  la  benevolenza  di  tutti  li  huo- 
mini  che  stimano  et  prezzano  le  virtù;  che  de  li  altri  né  voi  né  qualun- 
ch'altro  dotato  del  grave  stile,  dolce,  vago,  limato  et  puro  che  haveti  voi, 
nienti  o  poco  si  debbe  curare. 

Circa  Thaddeo  vostro  io  bavero  piacere  intendere  si  la  lettera  che  vi  ho  scritto 
vi  sera  satisfatta,  et  molto  più  caro  mi  sera  sapere  che  per  mezzo  di  quella  vi 
sia  riuscito  il  dissegno  vostro. 

Del  lotto  che  mi  haveti  recercato  ad  voler  essere  contento  lasciar  fare  in 
questa  terra  son  stato  molto  contento  per  amor  vostro  ch'el  se  facci  per  quella 
quantità  che  voi  me  haveti  scritto  et  anche  per  più  si  a  voi  piacerà.  Il  quale 
potrete  mo'  avisare  in  che  modo  voleti  ch'el  si  facci  che  io  non  mancare  di  ordinare 
che  si  eiiquisca  sì  come  che  sera  vostra  intentione.  Et  alli  commodi  vostri  ecc. 

Da  Mantova  alli  4  de  novemb.  1527. 

El  tutto  tutto  vostro 
Il  Marchese  di  M. 


«  fra  X  giorni  ve  lo  mando...  »  —  La  nuova  statua  promessa  era  appunto  la  Venere  di  cui  parla  l'A. 
nella  gua  lettera,  che  ba  per  errore  la  data  del  6  agosto  1527,  mentre  fu  certo  spedita  fra  gli  ultimi 
di  settembre  e  i  primi  d'ottobre. 


—  75  — 

X. 

Del  medesimo. 

(Reg.  Liti.  Reserv.,  Lib.  40) 

M.  Pietro  mio  dilettiss".  Sì  come  voluntieri  ve  scrissi  quella  lettera  li  dì 
passati  per  aiutar  et  favorire  li  desideri  vostri  circa  il  caso  di  Thadco,  così 
anche  bora  voluntieri  scrivo  al  S^  Costantino  in  favore  del  ditto  Thadeo,  desi- 
deroso di  compiacervi,  così  in  questa  come  in  ogni  altra  cosa,  ma  tanto  più  in 
questa  quanto  non  me  par  de  vedere  cosa  alcuna  esservi  più  a  core  di  questa. 
Vi  servireti  adunque  de  la  lettera  mia  *)  in  aiutar  el  vostro  Thadeo  a  uscir 
de  prigione  anzi  a  liberar  voi  stesso,  perchè  stando  lui  in  cattività  so  che  seti 
più  prigione  di  lui.  Se  altra  cosa  posso  circa  questo  o  circa  altra  cosa  che 
vi  piaccia,  ricercateme  con  la  solita  confidentia,  ecc. 

Mantova  X  9bris  1527. 

El  tutto  tutto  vostro 
El  Marchese  di  M. 


XI. 

Del  medesimo. 

(tbid.) 


Mag'^"  ecc.  La  lettera  vostra  copiosa  de  termini  molto  gientili  et  amorevoli 
verso  me  mi  è  stata  sopremamente  grata,  et  assai  vi  ringratio  de  tanto  bon 
animo  quanto  mostrate  tener  centra  de  me,  in  volermi  dar  nome  et  fama  non 
solamente  in  li  secoli  presenti  ma  appresso  la  posterità  anchora,  col  mezzo  de 
la  belliss»  et  ingeniosiss»  incominciata  opera  vostra.  Il  che  anchor  che  non  mi 
fusai  cosa  nova,  mi  è  però  stato  di  singular  piacere  che  tanto  ardentemente 
continuate  in  quel  primo  dissegno,  per  il  che  vi  ne  rimango  molto  obligato, 
godendomi  oltra  modo  se  vi  ho  fatto  beneficio  alcuno  d'haverlo  colocato  presso 
persona  tanto  grata  et  conoscente  quanto  voi  mi  ve  demostrate  essere,  benché 
alli  gran  meriti  de  le  molte  virtù  vostre  a  me  para  non  haver  fatto  cosa 
alcuna  o  poco,  et  non  sono  mai  per  mancarvi  d'ogni  aiuto  et  favore,  come 
ho  fatto  finora,  in  tutto  quello  ch'io  potrò,  secondo  che  mi  ricercareti  et  per 
voi  et  per  li  amici   vostri. 

Et  circa  quel  lotto  serò  molto  contento  che  si  facci  la  patente  come  mi 
haveti  scritto,  ma  nauti  ch'habbi  datto  altra  commissione  mi  è  parso  avisarvi 
prima  che  a  me  pare  impossibile  cosa  che  in  questa  terra  si  possi  trovare 
cusì  gran  summa  de  dinari,   però  che  si  è  visto  per  experientia   molte  altre 


1)  Segue  nel  registro  la  copia  d'una  lettera  «  al  Sr  Costantino  Concinato  Duca  di  Macedonia  et  di- 
spoto de  la  Morea  »  in  favore  di  Taddeo  Bocacci  da  Fano  «  allevo  già  del  S.r  Giov.  de  Medici  »; 
del  quale,  imprig\pnato  per  aver  ucciso  un  suo  compagno  involontariamente,  scherzando  con  un  archi- 
bugio che  credeva  scarico,  il  Marchese  intercede  la  grazia ,  aggiungendo  di  volerlo  prendere  a'  suoi 
servigi.  —  E  infatti  in  data  24  novembre  s'incontra  un'altra  lettera  diretta  al  Bocacci,  con  l'invito 
di  recarsi  a  Mantova. 


—  76  — 

volte  che  si  ha  fatto  prova  de  poner  qua-  simili  lotti  che  non  si  ha  pur  a 
pena  potuti  arrivar  a  seicento  o  settecento  ducati,  non  che  mi  speri  che  si 
possi  cavar  quattro  mila  ducati.  Nondimeno  pensategli  ben  sopra  voi,  che  di 
quello  che  vi  ho  promesso  non  serò  mai  per  venirvi  meno.  Et  si  poi  che  gli 
havereti  considerato  mi  darreti  aviso  et  vi  parerà  che  la  ditta  patente  si  habbi 
ad  fare,  io  la  farò  far  molto  voluntieri  de  bon  core,  sì  come  quello  che  de- 
sidera farvi  ogni  piacere.  Et  alli  commodi  vostri  mi  ofifero  ecc. 
Di  Mantova  XX  novembr.  1527. 


XII. 

Del  medesimo. 

{ibid.,  Lib.  40) 


M<^o  ecc.  Io  ho  ricevute  due  lettere  vostre  quali  mi  sono  state  al  solito  gra- 
tissime,  et  in  risposta  dicovi  che  tale  ò  l'amor  ch'io  vi  porto  et  cussi  grande 
che  non  mi  potrei  mai  vedere  satio  de  farvi  piacere  et  cosa  grata,  ricercando 
cussi  il  grand."^"  preggio  delle  molte  virtù  vostre,  per  le  quali  a  me  voi  non 
potreste  giammai  né  importuno  né  fastidioso  parere  per  cosa  alcuna  che  col 
mezzo  mio  desiderate  ottenere;  anzi  son  sempre  et  serò  per  aiutarvi  in  ogni 
conto,  et  maxime  ne  le  cose  che  so  esservi  a  core,  sì  come  ho  conosciuto  essere 
quella  delVamor  vostro^  per  rimedio  del  quale  son  sta'  contento  fare  scrivere 
quella  lettera  che  mi  haveti  ricercata.  Et  se  in  altro  circa  ciò  vi  posso  giovare, 
facendomelo  intendere  sarò  sempre  per  compiacervi  et  per  satisfare  ad  ogni 
vostro  dissegno,  acciò  che  tanto  più  facilmente  Marphisa  disperata  possi  per- 
venire al  laudato  fine  eh'  io  aspetto  et  desidero  grandemente ,  sì  come  mi 
confido  che  farà,*  conoscendo  io  la  pronteza  et  fertilità  del  rariss"  et  gen- 
tiliss."  ingegno   vostro. 

Io  vi  mando  qui  aligata  la  patente  del  lotto  ^)  sì  come  mi  havete  ricercato 
et  io  vi  ho  promesso;   et  ad  ogni  commodo  et  piacere  vostro  ecc. 

Da  Mantova  alli  11  di  xbre  1527. 

Tutto  vostro 
Il  Marchese  di  M. 


^)  Segue  nel  registro  uno  spazio  in  bianco  ;  né  la  patente  si  rinviene  neppure  nel  libro  delle  gride 
e  decreti,  dove  s'incontrano  fra  le  varie  concessioni  di  privilegi  anche  quelle  riguardanti  consimili  lotterie. 
Per  esempio,  del  29  die.  1532,  troviamo  la  grida  che  segue:  «  Havendo  lo  111""°  et  Ex"'"  S.  nostro  ecc. 
«  concesso  questi  giorni  p.  ad  un  mercatante  ferrarese  che  '1  metta  alla  ventura  in  questa  città  alcune 
«  robbe  alla  vagliuta  di  mille  scuti,  secondo  la  stima  fatta  da  liuomini  periti,  tenendo  fuori  esse  robbe 
«  alla  Torre  alla  bottega  della  verità,  et  havendogli  posto  alcune  voci  sua  Ex.  et  la  IH™'*  M"'^  sua 
«  matre,  la  III'"*  S^'^  Duchessa  sua  consorte  et  molti  gentilhuomini  delle  loro  corti  per  essere  le  ditto 
«  robbe  cose  degne,  desidera  Sua  pia  Ex.  per  questo  et  anche  perchè  il  mercatante  possia  ritornare  a 
«  casa  alle  sue  faccende  eh'  ella  si  cacci  più  tosto  che  sia  possibile  e  però  per  la  presente  grida  fa 
«  ezbortare  ogniuno  a  volerli  mettere...  E  quando  in  questo  tempo  {per  tutto  il  mese  di  gennaro  p.) 
«  non  fossero  scossi  tutti  li  denari  de  tutta  la  stima  delle  robbe,  vele  che  si  levi  la  ventura  per  tanta 
«  parte  quanta  capiranno  li  denari  scossi;  però  chi  voi  mettergli  gli  metta  tosto  dui  marcelli  por  voce, 
«  che  cosi  se  gli  mette,  et  quando  si  cavino  tutte  le  robbe  gli  saranno  da  cinquanta  beneficiati.  »  — 
A  togliere  ogni  sospetto  di  frode,  di  solito  la  ventura  era  estratla  all'ufficio  delle  «  bulette  per  mezo 
«  de  dui  electi  per  haomini  da  bene  idonei  ad  questa  impresa.  »  —  Sulla  passione  del  popolino  per  il 
lotto  anche  allora  si  vegga  una  brillantissima  lettera  dell 'A.  a  m.  Giovan  Manenti,  I,  213. 


77  — 


XIII. 


Del  medesimo, 
(ibid.) 

W^  et  dottìss."  ni.  Pietro  amico  car.""" 

Assai  me  rincresce  delle  pene,  tormenti  et  afflittione  vostre;  et  come  che 
per  restare  io  privo  del  gran  piacere  che  le  virtù  vostre  mi  solcano  apportare 
io  me  ne  doglio  grandemente,  nondimeno  il  non  volgare  amore  che  io  ve  porto 
me  induce  et  astringe  ad  havervi  non  piccola  compassione.  Così  non  posso 
fare  che  volentieri  non  consenti  ad  quanto  io  posso  fare  per  remedio  delle 
grand.""^  passioni  vostre,  desiderando  molto  essere  atto  ad  potervele  del  tutto 
levare  et  consolarvi,  secondo  che  è  Tintention  vostra.  Et  de  che  aviene  che  sono 
sta'  molto  contento  di  comettere  che  si  facci;  et  ho  ordinato  che  si  exequisca 
quanto  mi  haveti  scritto,  et  si  altro  io  posso  fare  ad  piacere  et  satisfatione 
vostra  et  circa  questi  vostri  travagli  et  circa  altre  cose  che  vi  siano  a  core 
mi  off  ero  ecc. 

Di  Mantova  alli  3  de  genn.  1528. 


XIV. 
Del  medesimo. 

{Reg.  Liti.  Reserv.,  Lib.  41) 

Mag.^°  ecc.  Hebbi  questi  dì  la  lettera  vostra  col  dotto  et  bel  giuditio  di 
questo  anno  che  vi  piacque  mandarmi,  qual  mi  è  stato  di  tanto  spasso  et 
piacere  quanto  vi  puoteti  imaginare ,  et  tanto  più  che  legendolo  et  racor- 
dandomi  si  verificò  quel  de  l'anno  passato,  del  qual  penso  non  sarà  raen  vero 
questo,  mi  parea  di  leggere  proprio  una  prophecia  dilettevole.  Et  per  essa 
lettera  vidi  quanto  me  ricerca  vati  volessi  scrivere  per  la  cosa  vostra  a  Mons.'* 
jjmo  (ji  Monte,  facendone  anche  parlar  per  mio  ambassatore  alla  S.**  di  N.  S.,  del 
che  non  serei  mancato  di  compiacervi  come  desidero  fare  in  tutte  le  cose  vostre, 
se  v'ha  vessi  havuto  mio  ambassatore,  qual  già  molti  dì  havemo  deliberato 
mandarvi,  et  era  il  mag.'^o  m.  Francesco  Gonzaga  che  vi  era  anche  prima,  et 
solo  stava  aspettando  che  sua  Santità  fosse  firmata  in  qualche  luoco  per  saper 
dove  mandarlo.  Ma  essendo  parso  novamente  al  R^"  et  l\V^°  Mons.  Cardinale 
mio  fratello  d'andarvi  mi  è  parso  far  soprasedere  l'arabassatore  finché  babbi  le 
prime  lettere  da  sua  S."',  quali  recevute  lo  inviarò  et  gli  darò  molto  calda 
commissione  di  parlare  con  ogni  efficacia  de  la  cosa  vostra,  come  bavere! 
anche  fatto  prima  se  l'havessi  mandato.  A  Monte  ho  fatto  scrivere  una  buona 
lettera,  et  per  il  primo  spazzo  che  senza  dubbio  non  può  essere  se  non  presto 
la  mandarò,  et  molto  mi  sarà  caro  se  la  farà  bon  frutto. 


—  78  — 

Circa  la  cosa  vostra  con  Thadeo  feci  scrivere  al  padre  di  Carlo  da  Fano 
in  quel  modo  proprio  che  rìcercavati,  et  vi  volevo  spazzare  un  mio  cavallaro 
a  posta,  se  non  fosse  stato  che  in  quel  tempo  vi  accadete  ad  un  mio  gen- 
tilhomo  andarvi,  et  a  lui  diedi  la  lettera,  né  per  anchor  ne  ho  avuto  ri- 
sposta, del  che  mi  maraviglio,  ma  forsi  che  la  non  tardarà  molto. 

Io  vóluntieri  vi  compiacerla  di  quella  persona  mantuana  che  scriveti  poteria  re- 
mediare al  vostro  male,  se  sapessi  chi  si  fosse,  che  non  conosco  questo  figliolo  del 
Bianchirlo. 

Ho  dappoi  avuto  la  lettera  vostra,  con  le  stanze  me  haveti  mandato,  per  la  qual 
par  vi  lamentate  non  sia  stato  risposto  alle  lettere  vostre.  Il  che,  m.  Pietro,  haveti 
ad  essere  certo  non  è  stato  per  altro,  se  non  perchè  come  vi  ho  detto  ero  per  mandar 
in  breve  m.  Francesco  a  N.  S.  con  comissione  che  parlasse  molto  caldamente 
della  cosa  vostra,  della  quale  aspettando  intendere  quanto  l'havessi  fatto  mi  re- 
servava ad  scrivervi  poi  a  ].ieno  il  tutto;  sì  che  non  doveti  pensar  per  questo 
ch'io  sii  turbato  né  che  mi  siati  venuto  a  noia,  che  né  voi  né  le  cose  vostre  mai 
mi  possono  satiare,  né  per  questo  restati  in  modo  alcuno  di  usar  meco  la  solita 
confidentia,  che  sempre  desidero  farvi  ogni  piacere.  Et  medemamente  questa  è 
la  causa  perché  più  presto  non  ho  scritto  a  Monte,  che  aspettavo  che  l'ambasciatore 
facesse  il  tutto;  ma  temendo  che  la  tardità  alle  volte  non  vi  nocesse  ho  fatto 
scrivere  nel  modo  che  vi  ho  detto. 

Con  grand. °^*  delettatione  lego  le  stanze  vostre,  quale  vedarò  di  far  copiare  a 
quel  servitore  di  m.  Angustino  Gonzaga,  et  credo  quando  non  sii  molto  occupato 
ai  servigij  di  suo  patrone  lo  farà  molto  vóluntieri,  et  copiate  che  le  babbi  ve  re- 
mandarò  li  originali  secondo  mi  scriveti. 

Altro  non  accade  al  presente  se  non  ringratiarvi  molto  dei  tanti  piaceri  che 
ogni  dì  mi  date  con  le  vostre  dottiss.^  et  dilettevoli  compositioni  nuove,  il  che 
non  vi  poterei  dire  quanto  mi  sia  caro,  ecc. 

Da  Mantova  alli  V  de  febr.  1528. 


XV. 

Bel  medesimo. 

(Reg.  Liti.  Reserv.,  Lib.  41) 

M<=o  m.  Pietro  mio 

Non  è  cosa  che  mi  sia  più  grata  et  di  maggior  piacere  et  contento  che  il 
sapere  di  esser  in  bona  oppimene  delle  persone  virtuose  et  dotte  ;  però  mi  é  stato 
gratissimo  haver  inteso,  per  vostre  lettere  che  ho  ultimamente  ricevuto,  la  memoria 
che  tenete  et  la  stima  che  fate  di  me,  cosa  però  che  fate  di  un  vostro  bono  amico. 
Et  veramente  ve  amo  tanto  quanto  facia  chi  ve  ama  più  de  li  altri,  et  li  frutti 
de  l'ottimo  ingegno  vostro  mi  ve  hanno  impresso  talmente  in  la  memoria  che 
non  è  cosa  bastante  a  farvene  uscire  mai  in  tempo  alcuno.  Né  mi  son  scordato 
di  far  scrivere  per  voi  al  R"*  Mons.  mio  fratello,  che  ho  dato  commissione  gli 
sia  scritto  in  bona  forma.  Se  così  havesse  possuto  satisfarve  nel  desiderio  vostro 
dei  Bianchino  lo  Jiaverei  fatto  medesimamente  vóluntieri.    Ma  havendo  inteso 


—  79  — 

ìa  renitentia  che  fece  quando  Roberto  gli  ne  parlò  da  parte  vostra  et  ^  par etidomi 
non  poter  havere  honore  de  opera  che  ne  havessi  voluto  fare  non  mi  è  parso  pre- 
garlo né  exortorlo  altramente,  né  farlo  exortare  in  nome  mio,  et  manco  mi  è 
parso  commandargli,  non  essendo  giusto  né  honesto  il  comandargli  in  questo 
CASO.  Però  habbiatime  per  iscusato  se  in  questo  caso  non  vi  satisfacio  ;  se  in  altro 
posso  farvi  piacere,  come  sapeti  molto  bene  son  dispositissirao  per  farlo  et  me 
trovareti  sempre  di  questo  animo. 

Se  mi  havesti  mandato  quelle  stanze  che  scriveti  non  haverrai  voluto  mandare 
per  non  mi  dare  noia  con  tante  cose  a  un  tratto,  non  mi  seriano  state  di  noia,  ma 
di  piacere  grande  perchè  mi  deiettano  tanto  queste  vostre  compositioni  quanto 
cosa  si  sia;  et  quelle  che  mi  mandasti  questi  dì  che  ho  lette  una  volta  mi  piac- 
quero tanto  che  voglio  relegerle  di  novo,  et  se  mi  mandareti  quelle  altre  mi  se- 
ranno  grate,  et  ho  ordinato  siino  fatte  vedere  al  mio  castellano,  acciò  che  possa 
dire  il  parer  suo  come  ricercate. 

Aspettava  con  devotione  la  Venere,  bora  che  intendo  che  l'è  tanto  laudata  lì 
quanto  voi  scriveti  l'aspetto  con  maggior  desiderio,  sperando  di  havere  una  cosa 
eccellente  et  che  meritamente  mi  habbia  ad  esser  grata  e  cara. 

Ho  fatto  raccordare  a  quello  che  fu  mio  precettore  *)  il  summario  della  ge- 
nologia  mia,  il  quale  ha  detto  di  darlo  finito  tra  quattro  o  sei  dì,  et  havutolo  vi 
lo  mandare.  Et  alli  piaceri  vostri  ecc. 

Da  Mantova  XXVI  di  febr.  1528. 

El  tutto  vostro 
Il  Marchese  di  M. 


XVI. 
P.  Aretino  aìVamb.  Malatesta  *). 

Signore  inbasciatore, 

V.  S.  faccia  copiare  il  giuditio  et  lo  mandi  dove  gli  pare,  ch'io  per  me  m'excludo 
fuora  d'ogni  gratia  et  servitù  ch'havessi  col  Marchese,  et  per  fede  di  ciò  remandovi 
la  genalogia  de  Sua  Ex.,  che  m.  Gian.  Jac.°  ')  m'inderizzò,  la  quale  vi  prego 
che  remandiati  al  detto  Castellano,  et  ditegli  ch'io  sono  mutato  di  proposito,  né 
voglio  più  finir  l'opra  in  honore  di  chi  mi  lasciarà  morir  di  fame,  et  non  mancha- 
ranno  patroni  a  Pietro  Aretino.  Et  a  V.  S.  bascio  le  mani. 
Di  V.  S. 

P.  Aretino. 


1)  Francesco  Vigilio,  morto  ottuagenario  nel  1534,  autore  di  una  storia  di  Mantova  in  prosecuzione 
di  quella  del  Platina  (cfr.  i  doc.  da  me  prodotti  nélVArch.  rotnano  di  st.p.,  voi.  IX,  in  appendice  a 
F.  Gonzaga  ostaggio  alla  corte  di  Giulio  11). 

2)  Biglietto  accluso  in  una  lett.  del  Malatesta  a  G.  Jac.  Calandra  (27  genn.  1529):  «  Il  Judicio  de 
«  l'Aretino  non  è  anclior  finito  di  trascrivere.  Elio  mi  ha  mandato  lo  alligato  fasso  de  scritture  da 
«  remettere  a  V.  S.  et  questo  policetto,  il  quale  quella  farà  vedere  allo  lUmo.  Son  certo  che  elio  ha 
«  scritto  et  bene  per  il  S.re,  et  anche  ho  fatto  opera  che  V.  S.  honorevolmente  nel  suo  libro  è  notata.  » 

')  Calandra. 


XVII. 

Dispacci  delVamb.  Maìatesta. 

Venezia  1529. 


26  gennaio  {Ai  Calandra).  «  L'Aretino  mi  ha  promisso  uno  iuditìo  da  mandare 
da  parte  mia  al  S.''^,  chò  da  la  sua  non  ne  voi  far  niente,  perchè  dice  che  sua  Ex. 
non  cura  la  sua  servitù,  et  mi  comette  che  lo  mandi  come  sta;  in  questo  vi  è 
nominato  il  patre  {Fra  Benedetto)  et  m.  Carlo  {Bologna),  ma  questa  parte  non 
mandare  già  io,  ma  separata  in  uno  policetto.  » 

29  genn.  {Al  med.).  «  Acciò  V.  S.  meglio  intenda  il  judicio  de  l'Aretino,  la 
saperà  che  '1  Conte  Guido  et  l'amhass.  francese  sono  amicissimi  et  continua- 
mente stanno  in  quelli  exercitii,  et  dove  dice  amico  di  quello  amico  è  perchè  l'am- 
bassator  favoreggia  l'Aretino  et  esso  è  amico  del  Eangone.  Laudo  che  il  SJ^  gli 
scriva  quella  lettera,  altrimenti  {sic)  comprendo  che  l'ha  animo  di  cantare  di  V.  S. 
in  suo  molto  honore  et  però  la  deve  procurare  questa  contentezza  ad  evitanda 
scandala,  et  scrivendoli  V.  S.  dica  che  il  policetto  io  l'ho  mandato  al  S.^®.  » 

29  genn.  {Al  Marchese).  «  Mando  a  V.  Ex.  il  judicio  de  l'Aretino,  il  quale 
voi  essere  suo  servitore  anchor  ch'ella  non  voglia  et  si  dole  di  lei  che  non  lo  voglia 
cognoscere  per  servitore.  Io  ho  fatto  la  iscusa  seco  s'el  non  ha  da  lei  de  le  cose  che  '1 
solea  havere,  perchè  già  sono  8  mesi  che  del  stato  non  ne  ha  entrata.  Dice  che 
l'ha  per  iscusata,  ma  che  gli  pare  comprendere  che  la  sii  corozata  seco,  essendo 
tanto  tempo  scorso  che  non  ha  sue  lettere,  ch'ella  solea  pregarlo  che  gli  scrivesse, 
ma  che  hora  si  ha  scordato  rispondere  alle  sue  lettere.  Et  che  la  Ex.  V.  non  creda 
già  quello  che  per  uno  policetto  suo  l'altro  giorno  a  me  scrisse,  quale  mandai  a 
m.  Zo.  Jac.**  acciò  gli  lo  facesse  vedere,  che  l'ha  scritto  di  V.  Ex.  et  di  tutta  sua 
casa  tanto  difusamente  et  honorevolmente  quanto  la  merita  et  è  obligato.  Ma 
che  la  passione  che  l'ha  che  V.  S.  non  lo  voglia  conoscere  lo  fa  straparlare,  et  mi 
ha  comisso  che  tutto  questo  li  scriva  et  lo  raccomandi  a  lei,  la  quale  prega  ad 
farlo  vivere  contento  et  in  sua  bona  gratia.  Dappoi  in  certo  ragionamento  disse 
allo  ambass.  di  Franza  che  come  l'era  dal  Re  et  havea  voltato  le  spalle  alla 
Italia,  havea  deliberato  vindicarsi  de  S.^ì  che  non  haveano  voluto  conoscerlo  et 
aiutarlo,  et  che  quando  saria  là  non  curarla  alcuno  et  senza  rispetto  dirla  quello  li 
paresse  et  non  dirla  se  non  la  verità;  ma  che  alla  persona  del  S.^  Marchese  di 
Mantova  haveria  ogni  rispetto,  perchè  lo  ha  conosciuto  sempre  virtuoso  et  pieno  di 
bontà  et  gentilezza  ». 


—  81   - 

XVIII. 
L'ami).  Malatesta  al  Calandra. 

M^o  mio  obser"".  Essendomi  stato  referto  da  più  luoghi  il  cicalare  et  braveg- 
giare che  facea  Petro  Aretino,  che  come  era  in  Franza  volea  dire  de  tutti  gli 
Principi  de  Italia,  et  che  poi  che  lo  111"»*»  nostro  non  lo  volea  conoscere  per  ser- 
vitore se  vendicaria  con  l'arme  sue  solite  contra  sua  Ex.  de  la  quale  havea  pure 
belli  sugetti,  et  che  già  havea  principiato  alli  servitori  suoi  et  detto  del  Bologna, 
del  Musone  et  di  Frate  B.*''  ^)  molto  manco  di  quello  merita veno;  retrovando  il 
detto  Petro  in  casa  de  lo  ambass.  di  Franza,  dove  era  il  Conte  Guido  et  l'arabass. 
di  Fiorenza,  quali  me  cominciorno  a  motteggiare  et  riderse  di  quanto  esso  Petro 
nanti  il  mio  giongere  havea  ciarlato,  che  tutto  era  stato  sopra  Mantua,  et  fui  da 
Fiorenza  advertito  che  questo  scelerato  si  havea  jactato  essere  stato  causa  lui  di 
la  diferentia  è  tra  Mantua  et  Urbino  di  questa  precedentia  '),  volendo  dire  che 
già  dimostrava  di  haver  modo  di  ofiFenderni,  et  io  sapendo  che  se  ne  menteva,  perchè 
era  privo  di  la  gratia  del  S.  Duca,  quale  gli  havea  minacciato  quando  fece  quello 
sonetto  nel  quale  dicea 

El  Duca  voi  per  corsaletto  un  muro,  ecc.  ') 

io  chiamai  ditto  Petro  alla  presentia  de  p.*^  Conte  Guido  et  Fiorenza,  et  gli  dissi 
che  gli  volea  in  testimonio  de  quanto  era  per  dirli.  Et  disseli  che  mentre  havea 
parlato  honorevolmente  de  lo  ni™^  mio  patrone  io  l'havea  honorato  esso  et  volutoli 
bene;  che  mo'  che  intendea  haver  mutato  stile  era  per  non  haver  sua  amicitia,  et 
secundo  havevo  sempre  fatto  boni  officii  per  lui  col  p.*°  111.™°  nostro  era  per  far  il 
contrario,  di  modo  che  se  penteria  di  ofiendere  uno  Marchese  di  Mantua.  Et  che  fin 
qui  mi  era  persuaso  che  quello  havea  .detto  di  Sua  Ex.  l'havea  fatto  per  mar- 
tello et  troppo  amarlo  ;  che  mo'  vedendolo  perseverare  in  queste  bravarle  et  haver 
dato  principio  in  vituperare  gli  suoi  cari  servitori,  pensava  havesse  anche  l'animo  sì 
come  ne  dicea  le  parole.  Al  che  rispose  che  havea  detto  la  verità  di  detti  servitori, 
et  era  per  dire  del  Marchese  quello  li  parca,  perchè  non  havea  ad  far  seco,  et 
Sua  Ex.  non  lo  volea  conoscer  per  servitore;  et  non  temea  che  per  far  l'officio 
suo  alcuno  fussi  per  farli  dispiacere,  né  havea  paura  del  S.'^®  et  che  non  restarla 
per  Christo  di  dire  ciò  che  li  piacesse.  Allora  gli  dissi  che  il  S.^  mio  era  per 
offendere  lui  et  qualunche  altro  havesse  ardire  offendere  l'honor  suo,  et  non  gli 
havesse  quello  rispetto  che  se  gli  convenia,  et  che  se  lui  facea  quello  che  dicea 
saria  trattato  forsi  peggio  che  non  si  pensava,  et  non  saria  securo  in  Paradiso, 


1)  Deve  esser  quel  Fra  Benedetto,  di  cui  l'Aretino  dice  nel  Marescalco  (Atto  quarto ,  se.  Hi)  che 
assassinava  la  bontà  del  Marchese  di  Mantova. 

')  Si  trattava  di  una  quistione  insorta  fra  gli  ambasciatori  di  Mantova  e  Urbino  per  la  precedenza 
nelle  udienze  e  nelle  cerimonie  officiali. 

')  Questo  capoverso  è  citato  anche  nella  Vita  dell'Aretino,  falsamente  attribuita  al  Bemi  (Opere, 
ed.  Daelli,  II,  167)  :  e  doveva  essere  un  sonetto,  con  cui  l'Aretino  irrideva  alla  soverchia  prudenza 
militare  del  Duca  di  Urbino,  che  più  tardi  celebrò  e  magnificò  come  suo  protettore ,  intitolandogli  il 
primo  libro  delle  Lettere. 

Ltjzio  —  Pietro  Aretino  6 


—  82  — 
né  si  dovea  pensare  che  Sua  Ex.  non  fusse  per  resentirse  con  lui  et  contra  maior 
di  lui  che  cercasse  injuriarla,  né  gli  haveria  forsi  quelli  respetti  che  altri  in 
simile  caso  gli  ha  havuto.  Et  me  levai  dil  loco  dov'ero  in  molta  collera,  perchè 
gridassimo  gran  pezzo.  Et  io  me  posi  a  ragionare  con  Tambass.  di  Franza  de 
altr  ^  cose,  ma  detto  Petro  restò  molto  sbigotito  et  impaurito  de  le  parole  crudeli 
ch'io  li  dissi. 

Et  volendomi  partire  et  uscito  di  la  camera  del  detto  ambass.  di  Franza,  detto 
Aretino  mi  venne  drieto,  et  con  parole  molto  sumisse  et  humane  me  pregò  che 
non  volessi  scrivere  cosa  alcuna  allo  Ill™<>  S.,  che  quello  havea  detto  di  Sua  Ex. 
procedea  da  gelosia  et  amore  che  gli  porta,  et  che  di  la  persona  sua  non  in- 
tendea  mai  che  in  scritto  né  altrimenti  parli  se  non  honoratamente,  come  Prin- 
cipe che  lo  merita  et  dal  quale  ha  recevuto  molti  benefitii,  non  già  equali  alli 
meriti  suoi  perché  ha  meritato  troppo  ne  l'opera  che  l'ha  fatto  in  laude  sua  et 
de  suoi  antecessori,  et  che  quando  la  vederà  cognoscerà  che  gli  é  servitore,  et 
che  l'è  per  andare  in  Franza  in  breve  et  di  là  potrà  intendere  li  boni  officii  et 
honorevoli  laudi  che  atribuirà  al  p.*"  111.™°,  come  suo  bon  servitore  che  gli  vole 
esser  in  ogni  loco  dove  el  si  ritrovarà.  Io  lo  ringratiai  del  bono  animo  che  l'havea 
di  fare  tanti  boni  effetti  et  lo  exortai  ad  farlo  et  che  se  ne  ritrovarla  ogni  giorno 
pili  contento.  Elio  mi  soggionse  che  da  qui  inanti  non  haveria  causa  di  dolersi 
di  lui  perchè  più  non  parlarla  del  S.'^  se  non  come  era  tenuto.  Et  mi  pregò 
assai  che  non  volessi  scriver  questo  abatimento  che  era  stato  tra  noi.  A.  V.  S.  ecc. 

Da  Venetia  14  febr.  1529. 

Jac.  Malatesta. 


XIX. 
P.  Aretino  ai  Marchese  di  Mantova. 

Optimo  Principe, 

Io  X  anni  con  gran  fervor  d'anima  ho  predicato,  exaitato  et  celebrato  il  pre- 
dicato, exaitato  et  celebrato  nome  di  V.  Ex.,  et  per  impeto  amoroso  un'hora 
offeso  le  cose  che  vi  sono  a  core.  Ma  se  io  non  sono  stato  premiato  del  bene  se- 
condo il  real  costume  della  grandezza  dell'animo  vostro,  non  merito  esser  punito 
del  male  con  macchia  della  degnità  di  voi  in  così  humile  suggetto. 

Io  son  P.  Ar."o  servo  vostro  per  natura  et  non  per  arte,  et  intimo  per  ardente 
affettione  et  non  fredda  servitù;  et  vi  ricordo  che  se  le  lingue  si  potessero  lo- 
gorare, che  hoggimai  la  mia  sarebbe  consumata  in  sempre  laudarvi,  et  se  l'an- 
gelica vostra  bontà  m'odia  et  oltraggia  odia  et  oltraggia  la  gloria  di  se  stesso. 
Che  non  Re,  Imperatore,  né  Papa  ma  il  Marchese  di  Mantova  incarnato  nel- 
l'anima mia  mi  humilia;  rum  per  timor  de  vita,  per  l'amor  ch'io  porto  a  tanti 
suoi  meriti.  Et  baciovi  la  mano  se  degno  ne  sono. 

Di  Vinetia  XII  d'aprile  MDXXVIIII. 

Oblig."*'  divotiss."  servo 
Pietro  Aretino. 


XX. 

Il  Marchese  di  Mantova  a  P.  Aretino. 

(Copialett.  orditi.,  Lib.  297) 

M.  Petro  mio  char.™°.  Le  stancie  che  me  haveti  mandato  per  le  quali  in  la 
vostra  Marphisa  lodate  la  casa  mia  et  la  lettera  vostra  mi  sono  state  gratissime, 
et  bolle  lette  con  gran.™^  piacere,  perchè  non  posso  dissimulare  che  mi  piaccia 
essere  lodato  io  et  li  mei  da  li  ingegni  eletti  et  colti  come  è  il  vostro,  et  tanto 
più  da  voi  quanto  so  che  havete  pochi  pari  et  ninno  superiore  in  scrìvere.  Io 
vi  ringratio.  del  bon  animo  che  mostrate  cl'haver  verso  me,  in  el  quale  se  per- 
severareti  et  se  vi  diportareti  come  solevati  fare  meco  et  mi  havereti  in  quel 
respetto  che  deveti  bavere  ^),  io  sarò  per  tenire  bon  conto  di  voi  come  ho  fatto 
sempre,  et  non  ve  pentireti  mai  di  bavere  perseverato  in  costante  benivolentia 
verso  me  ;  et  perchè  penso  che  habbiate  ad  esser  tale  quale  promettete  mi  offero 
sempre  ecc. 

Da  Mantova  24  aprile  1529. 


XXI. 

L'Aretino  al  Marchese  di  Mantova. 

Magnanimo  et  optimo  Principe, 

Le  virtìi  uniche  de  m.  Valerio  vicentino  note  hoggimai  a  tutto  il  mondo  sono 
state  sei  mesi  intorno  al  pugnale  de  V.  Ex.  il  quale  ve  si  raandarà  la  settimana 
che  viene,  et  forse  fra  le  cose  vostre  più  care  quello  terrete  carissimo,  s'io  non 
sono  in  tutto  privo  di  giuditio. 

Hora  egli  accade  che  un  suo  genero  viene  da  Brescia  con  ducente  cinquanta 
scudi  riscossi  di  certe  sue  lane,  et  il  vostro  non  so  se  bargello  o  altro  havendone 
notitia  l'ha  con  molte  carezze  preso  et  menatolo  a  Mantova  prigione  con  taglia 
di  doi  cento  scudi.  Son  certissimo  che  V.  Ex.  sa  di  questo  niente,  et  però  la  supplico 
per  la  fedel  servitù  mia  et  per  la  giustitia  et  per  amor  delle  virtù  de  m.  Valerio 
che  vi  adora  di  voler  fare  liberare  il  sopra  detto  giovane,  che  per  dio   inocente 


^)  L'amb.  Malatesta  scriveva  al  Marchese  il  1  maggio:  «  Hoggi  ho  trovato  m.  Petro  Aretino  et  anchor 
«  che  mi  habhi  detto  essersi  reconciliato  con  V.  Ex.  non  sono  però  restato  de  fargli  Tambassiata  che 
«  la  me  commisse  essendo  io  questi  giorni  in  Mantova.  Elio  mi  ha  risposto  che  l'è  servitore  di  V.  Ex. 
«  et  che  in  advenire  non  bavera  causa  di  farli  dispiacere  et  che  non  dubitò  mai  che  Y.  3.  gli  facesse 
«  male.  »  Cioè  che  gli  facesse  togliere  la  vita,  come  l'aveva  minacciato  rambasciatore  ;  a  che  allude 
l'A.  stesso  nei  docc.  XIX  e  XXV. 


—  84  — 

è  offeso,  che  s'egli  havessi  errato  né  m.  Valerio  né  io  ardiremmo  parlarne  *). 
Io  mando  una  staffetta  aposta  et  spetto  ottener  la  gratia  come  sempre  soglio 
da  V.  Ex.  a  la  quale  humìlmente  me  raccomando. 

De  Vinetia  a  X  de  sett.  1529. 

01)lig.™o  servitore 
P.  Aretino. 


XXII. 

Al  medesimo. 


gjino  Principe, 

Io  mando  a  V.  Ex.  un  pugnale,  et  benché  ognuno  sia  stupito  della  sua  ric- 
chezza et  del  mirabile  artificio  de  m.  Valerio  non  è  dono  qual  conviensi  alla 
vostra  altezza,  ma  come  s'apartene  alla  basezza  mia  ");  et  se  in  esso  havessi 
potuto  fare  intagliare  l'anima  e  '1  cor  mio  per  ornamento  del  sopra  detto  pu- 
gnale l'harei  fatto,  acciò  che  V.  Ex.  fosse  chiara  della  fedele  affettione  ch'io  le 
porto,  anchor  ch'io  sia  chiaro  che  quella  mi  vegli  poco  bene.  Hor  parliamo 
d'Orlando. 

Suplico  la  gentilezza  vostra  che  degnandosi  d'accettare  il  piccolo  dono  si  degni 
anchora  s'avien  ch'ella  mi  scriva  di  commendare  m.  Valerio  secondo  il  merito, 
et  per  sua  virtù  et  mio  amore  offerirgli  la  gratia  vostra,  che  per  dio  egli  ch'é 
venerando  homo  vi  adora. 

Apresso  aciò  ch'io  non  sopporti  tutte  le  necessitati  intollerabili  vi  prego,  si 
haveti  una  veste  fodrata  di  pelli  et  un  saio  che  più  non  adoperate,  che  me  le 
donate,  che  sono  anco  amalato  et  di  mala  conditione.  Non  altro,  spero  a  Natale 
esser  al  fine  del  libro,  et  se  '1  mio  mal  traditore  non  fosse  stato  a  quest'hora 
era  in  mano  de  V.  Ex.  alla  quale  bascio  le  mani. 

De  Vinetia  2  d'ottobre  1529. 

Di  V.  Ex. 

oblig.  et  divotiss.  servo 
P.  Aretino. 


1)  Si  deve  riferire  a  quest'incidente  una  lettera  di  Carlo  Bologna  all'Aretino,  in  data  18  sett.  1529 
{op.  et**.,  I,  88)  dove  lo  assicura  d'essersi  energicamente  adoperato  perchè  «  uno  assassinamento  di 
«  questa  sorte  non  avesse  loco...  di  maniera  che  è  stato  relassato  »  il  detenuto,  e  i  delinquenti  puniti 
«  secondo  il  termine  de  la  iustitia.  »  Così  a  qualcosa  di  buono  valeva  pure  l'intromissione  dell'A. 

-)  L'amb.  Malatesta  (lett.  19  sett.)  lo  dice  «  cosa  rarissima...  singulare...  et  degna  d'ogni  gran  Re.  » 
—  L'Aretino  aveva  mandato  un  servitore  apposta  a  Mantova,  e  il  Malatesta  scriveva  in  proposito  il 
27  ottobre:  «  L'Aretino  desidera  sapere  se  il  pugnale  è  stato  presentato  allo  Illmo  nostro  et  se  il  suo 
«  servitore  è  li,  che  dappoi  ch'è  partito  non  n'ha  mai  havuto  nova.  » 


—  85  — 

XXIII. 
Al  medesimo. 

Signor  Ex-^o, 

Poi  che  con  tanto  fervor  d'animo  mi  affatico  in  fare  libro  che  di  voi  et  de 
vostri  presenti  et  passati  lasci  memoria,  V.  Ex.  debbe  anchora  pigliar  tanto  fa- 
stidio d'impetrargli  et  dal  Papa  un  breve,  et  dallo  Imperatore  un  privilegio  che 
])er  X  anni  proibiscano  in  la  giuriditione  loro  lo  stampare  il  prefato  libro.  Queste 
gratie,  Signore,  si  fanno  a  chi  le  vole,  et  però  a  me  non  è  lecito  di  negarle, 
maxime  che  di  Sua  Beatitudine  e  di  Sua  Maestà  parla  gloriosamente,  et  cosi 
Dio  m'havessi  concesso  gratia  che  non  m'havesse  strascinato  giustamente  a  do- 
lermi come  faccio,  che  il  mondo  forse  haveria  veduto  quanta  divotione  haveva 
il  core  mio  e  l'animo  mio  con  Sua  Santità;  et  si  ben  nelle  ciancie  ho  morso  il 
nome  suo,  nelle  cose  ch'hanno  a  restar  vive  ferventemente  l'exalto.  Et  perchè 
io  ho  speranza  che  la  stampa  mi  premierà,  et  non  i  principi,  vi  suplico  che  non 
mi  vogliate  torre  tanto  bene,  che  poca  gratia  et  molto  a  me  importante  di- 
mando. Che  se  io  sono  da  loro  aborrito  tanto  più  dovrieno  vietare  che  le  cose 
mie  nelle  terre  d'essi  non  si  stampassino;  et  se  V.  Ex.  non  mi  concede  bene- 
fitio  di  parole  mala  è  la  mia  speranza,  sperando  d'havere  da  quella  utili  effetti. 
Ma  si  aviene  o  che  voi  non  vi  degnate  farmi  il  chiesto  favore,  o  che  Cesare  et 
Pietro  non  mei  voglino  concedere,  io  farò  XX  stanze  che  di  loro  parleranno  pa- 
squillamente  et  de  sorte  male  che  senza  brevi  o  privilegi  sarà  scomunicato  et  sco- 
glionato chi  le  stampa;  sì  che  V.  Ex.  po'  evitar  tanto  scandolo,  che  sarà  più  opera 
pia  che  a  torre  il  mangiar  de  i  castrati  al  Duca  de  Jililano,  de  i  quali  incarestia 
i  petronii  ecc.  (?). 

A  V.  Ex.  bascio  le  mani  et  s'io  non  ottengo  il  voto  mio  dirò  che  il  pugnale 
per  esser  arma  donata  causa  malivolentia. 

De  Venetia  III  de  decembre  1529. 

De  V.  Ex.  servo 
oblig.^o  P.  Aretino. 


XXIV. 
Il  Marchese  di  Mantova  a  G.  B.  Malatesta. 

(Copialett.  ordin.,  Lib.  299) 

Mag.«  Volendo  m.  Pietro  Aretino  dar  fuori  el  libro  suo  de  battaglie  che  no- 
vamente  egli  ha  composto,  el  desydereria  bavere  un  breve  da  N.  S.  et  un  pre- 
vilegio  dalla  M.**  Ces.*  per  quali  si  prohibesse  che  per  diece  anni  prossimi  a 
venir  non  si  possi  stampar  nelle  terre  sottoposte  a  loro  el  detto  libro  senza  li- 


—  86  - 

centia  d'esso  m.  Pietro.  El  qual  ne  ha  pregato  che  vogliamo  operarne  per  lui 
in  questo,  il  che  parendone  honesto  non  ne  par  di  negarli  l'opera  nostra.  Però 
vi  coramettemo  che  pigliata  l'occasione,  veddiate  con  buon  modo  d'ottenere  el 
tutto  et  da  N.  S.  et  da  S.  M.  Et  quando  per  lo  scriver  licentioso  di  in.  Pietro 
vedeste  in  qualch'uno  amaritudine  centra  de  lui  potrete  dire  a  chi  ve  ne  motigiasse 
che  se  ben  in  qualche  cianze  m.  Pietro  ha  detto  male,  in  quest'opera  qual  ha  da 
durar  et  esser  perpetua  l'amenda  il  tutto,  laudando  et  extollendo  et  sua  S.**  et 
la  casa  sua,  et  similmente  la  M.**  Ces.*;  et  vederete  di  far  expedir  il  tutto  in 
opportuna  forma  i). 

Mantova  VITI  xbris  1529.  ' 


XXV. 

P.  Aretino  al  Marchese  di  Mantova. 

Io  non  feci  mai  cosa  che  più  mi  pentissi  che  di  quella  ch'io  v'ho  ricercata. 
Et  lo  irabasciatore  di  V.  Ex.  n'è  ben  testimonio  che  haveva  mandata  la  lettera 
quando  per  essa  rimandai.  Io  non  nego  d'havere  scritto  con  poca  affettione  de, 
N.  S.,  ma  henne  io  causa  o  no?  A  me  po'  torre  l'utile  di  qualche  scudo  il  non 
poter  ottenere  il  breve,  ma  la  gloria  mia  non  è  in  potestà  de  tal  breve,  et  senza 
si  po'  fare  benissimo.  È  ben  vero  che  non  si  trovare  mai  che  io  habbia  fatto  il 
Testamento  che  V.  Ex.  dice,  né  manco  l'ho  visto,  né  homo  de  qui,  perché  si  sa- 
perebbe;  et  quando  Sua  S.**  si  degnerà  di  vedere  o  far  vedere  tutte  le  cose 
fattegli  in  disprezzo,  quella  conoscerà  che  le  mie  differenti  da  tutte  l'altre  sono 
la  minor  parte.  Et  V.  Ex,  mi  faccia  tanta  gratia  che  per  il  suo  nuntio  prometta 
a  Sua  S.t*  che  detto  Testamento  non  è  mio,  et  gli  fa  chi  mangia  il  pan  suo,  et 
io  ho  crocefisso  Ghristo.  Vili  sonetti  ho  fatti  dalla  venuta  di  Cesare  in  Italia 
sin  qui,  et  sei  et  il  giuditio  di  questo  anno  in  suo  favore  et  de  l'imperatore,  i 
quali  vi  mando  ^),  et  il  mio  prosuposito  (sic)  é  sin  che  vivo  non  mai  più  offen- 


')  Il  Malatesta  —  fratello  dell'amb.  a  Venezia  —  rispondeva  da  Bologna  14  dicembre  :  «  Non  ho  avuta 
«  comodltii  di  parlare  dello  Aretino,  et  scio  che  dal  canto  del  Papa  bisogna  procederò  con  maggior  ri- 
«  spetto  che  da  Cesare,  ma  tentarò  l'uno  et  l'altro  meglio  che  saprò.  »  —  E  il  21  die:  «  Non  vi  è 
«  ordine  ottener  cosa  alcuna  per  l'Aretino  nò  dal  Papa  nò  dallo  Imperatore,  perchè  oltre  le  cose  pas- 
«  sate  dicono  che  novamente  l'ha  Mto  uno  Testamento  molto  obrobrioso  ad  essi.  » 

')  Il  Marchese  li  trasmise  subito  al  Malatesta,  che  rispondeva  il  1  gennaio  1530  :  «  Usarò  li  sonetti 
«  dello  Aretino  a  suo  beneficio,  et  in  vero  Vasone  gli  è  molto  affettionato  et  h«gi  mi  ha  detto  che  già 
«  dui  giorni  parlò  col  Papa  di  lui  a  lungo  et  ritrovò  Sua  S.ia  molto  rimessa  contro  esso  Aretino:  bora 
•  che  l'haverà  gli  sonetti  ritornare  a  parlarglino.  »  Da  ciò  si  determina  che  questa  lettera  dell'Aretino 
Henz»  data  fu  Bcrìtta  nell'ultima  settimana  del  1529. 


—  87  — 

derlo,  anzi  exaltarlo;  né  voglio  brevi  o  lunghi  o  previlegi  di  ninno:  tosto  si 
vedrà  chi  è  l'Aretino.  L'opre  dello  ingegno  non  sono  sottoposte  alle  disgratie 
de  i  principi.  Al  Papa  non  pare  ch'io  meriti  gratie  et  al  mondo  sì.  Sa  ben  lui 
che  quando  stavo  seco  gli  piacevo,  ch'io  sono  homo  raro  et  schietto  et  un  dì 
spero  ch'aprirà  gli  occhi  nella  gloria  mia,  et  come  si  sia  son  suo  servitore. 

V.  Ex.  usi  sempre  quei  modi  che  gli  paiono  atti  a  defendere  la  innocentia  de 
un  suo  servitore,  cora'io  vi  sono,  et  se  trovate  ch'io  abbia  composto  tal  cosa 
fatemi  tagliare  in  mille  pezzi,  et  per  me  lo  prometta  V.  S.  IH™*  a  Sua  S**.  Io 
so  chi  è  che  fa  tal  novella,  ma  a  me  saria  imputato  odio,  però  lo  taccio. 

Signor  mio,  è  possibile  che  voi  che  sete  prodigo,  non  che  cortese,  a  tatti  gli 
huomini,  a  me  che  vi  adoro  siate  così  avaro:  quando  ho  io  bavere  un  pane  da 
voi  ?  quando  sarò  morto  ah  !  o  non  vi  dole  egli  che  una  opra  fatta  a  honore  di 
tutti  quelli  che  sono  stati  et  che  sono  et  che  saranno  di  casa  vostra  et  di  voi 
medesimo  habbia  a  stare  impegno  per  CC  scudi,  come  sta  per  il  pane  ch'ho 
mangiato  io  mentre  per  voi  l'ho  fatto?  questo  ch'io  vi  dico  sa  tutta  Vinetia,  et 
mi  pensavo  pure  che  quando  vi  mandai  il  pugnale  mi  donassi  tanto  ch'io  la  ca- 
vassi d'obrobrio,  ma  la  mia  sorte  è  pessima  più  con  voi  che  col  Papa.  Et  che 
sia  il  vero,  perchè  io  dissi  anno  doi  parole  per  martello,  V.  Ex.  mi  mandò  a 
minacciare  di  farmi  torre  la  vita.  Si  per  doi  parole  cosi  aspramente  mi  volevate 
punire,  perchè  non  mi  remunerate  d'un  libro  pieno  di  cose  che  solo  voi  lodano, 
et  pochi  dì  sono  c'ho  fatte  stanze  in  gloria  de  i  meriti  vostri  che  non  le  paga- 
rebbono  gli  Stati. 

Io  vi  suplico  per  extrema  necessità  mia  che  vogliate  mandarmi  cinquanta  scudi, 
che  per  Dio  mi  date  la  vita,  et  adesso  conoscerò  chi  io  adoro,  et  quel  che  dic'esser 
sia  presto.  Che  risoluto  ch'io  son  di  non  gli  bavere  vo'  perdere  la  vita  insieme 
con  la  speranza  et  con  la  servitù  mia  sì  perfetta  inverso  di  voi.  Al  corpo  di 
San  Francesco  che  s'io  havessi  il  libro  in  mano  come  non  l'ho,  et  V.  Ex.  non  mi 
mandassi  tali  danari,  lo  brusciarei.  Io  so  che  gli  barò,  et  gli  aspetto  per  pagarne 
un  debito  d'una  parte  del  pugnale,  che  per  Dio  vale  più  che  non  s'è  pensato  da 
voi,  et  forse  non  haresti  patito  ch'io  patissi. 

Fra  un  mese  vi  manderò  una  sella,  la  più  stupenda  che  vedesse  mai  Re  né 
Imperatore,  et  nel  grado  suo  di  più  lode  et  prezzo  del  pugnale.  Neanche  per  questo 
spero  mai  haver  da  voi  se  non  un  saio,  et  poss'io  mentire  per  la  gola. 

Di  Vinetia  (s.  a.) 

Di  V.  S.  Ill"^" 

Divotìss.°  et  disperato 
Pietro  Aretino. 
Al  mag.^o  C.o  Cesareo 
il  S.'  Marchese  di 

Mantova. 


—  88  — 

XXVI 
P.  Aretino  àlVamh.  Malatesta  *). 

Signor  Imbasciator 

V.  S.  con  la  solita  diligentia  et  gentilezza  sua  voglia  per  amor  mio  scrivere 
al  S."  che  mi  doni  cinquanta  scudi,  che  per  Dio  n'harò  obligo  sempre  ;  et  ditegli 
che  sua  Ex.  ha  non  poco  dato  amiratione  alle  genti  ch'hanno  visto  il  pugnale 
et  li  presenti  di  lui,  et  direte  il  vero  che  n'ha  gran  biasimo  hauto  et  non  è  burla. 

V.  S.  scriva  a  m.  Hippolito  Kalandra  che  vi  mandi  la  comedia  del  Marescalco  ') 
senza  fallo  con  dire  che  ne  sete  stato  richiesto  da  assai  gentilhomini,  et  io  son 

Di  V.  S. 

Ser.e 

{Senza  firma). 


1)  Biglietto  accluso  ad  una  lettera  dell'amb.  a  G.  J.  Calandra,  7  genn.  1530:  «  L'Aretino  mi  mandò  per 
«  il  caso  suo  questo  memoriale,  et  io  ho  scritto  come  la  vederà  :  certamente  che  il  pugnale  è  bello  e  di 
«  bon  valore.  Prego  anche  a  dire  a  m.  Hippolito  quanto  esso  ricerca  per  la  detta  police  et  pregarlo  ad 
«  farmi  bavere  quella  commedia.  »  —  E  il  Malatesta  scriveva  lo  stesso  giorno  al  Marchese  :  «  M.  Pietro 
«  Aretino  mi  ha  pregato  che  voglia  supplicare  a  V.  Ex.  che  per  ritrovarsi  a  molto  bisogno  la  voglia 
«  esser  contenta  donarli  cinquanta  scudi,  et  mi  ha  dato  questo  plico  alligato  da  mandarli.  »  —  Il  Mar- 
chese faceva  rispondere  all'amb.  (12  genn.  —  CopialetL,  299):  «  Haverete  da  questo  cavallaro  50  ducati 
«  d'oro  che  vi  mandamo  da  dare  a  m.  Petro  Aretino,  quali  gli  dareti,  et  gli  direti  in  nome  nostro  che 
«  l'amamo  singularmente,  et  che  semo  per  fargli  molto  magior  piacere,  rengratiandolo  appresso  delle 
«  compositwni  che  ce  ha  mandato.  Mandamogli  appresso  la  comedia  che  ce  ricercha.  Gli  direte  anche 
«  che  per  un'altra  non  rispondemo  alla  lettera  sua,  che  per  andar  in  campagna  come  facemo  non  havemo 
«  potuto  commetter  la  detta  risposta.  »  Quali  fossero  le  composizioni,  di  cui  l'Aretino  mandava  addi- 
rittura un  plico,  non  sappiamo  precisare. 

*)  Da  questa  lettera  si  rileva  con  sicurezza  che  anche  il  Marescalco,  come  la  Cortigiana,  fu  composto 
parecchio  tempo  prima  dell'anno  in  cui  venne  pubblicito  (1533).  Si  può  ragionevolmente  presumere  che 
questa  commedia,  di  argomento  mantovano,  e  con  allusioni  frequenti  a  persone  mantovane,  fosse  ispi- 
rata all'Aretino  da  un  fatto  realmente  accaduto  nel  suo  soggiorno  alla  corte  de'  Gonzaga  —  dagli  ultimi 
del  1526  alla  primavera  del  1527  —  e  forse  scritta  per  commissione  del  Marchese,  che  amava  divertirsi 
col  veder  riprodotta  sulle  scene  una  burla  già  da  lui  stesso  ordinata.  Che  il  Marescalco  fosse  anche 
rappresentato  non  risulta:  ed  è  difficile  il  crederlo,  vedendo,  in  que' tempi  procellosi,  interrotti  gli 
spettacoli  teatrali,  di  cui  prima  s'allietava  la  corte  di  Mantova  (cfr.  D'Ancona,  Il  Teatro  mani,  nel 
sec.  XVI,  in  Giornale  st.  della  lett.  it.,  V,  p.  73).  Certo,  questa  commedia  dell'Aretino  vi  sarebbe  stata 
in  caso  applauditissima,  perchè  anch'oggi  non  la  si  legge  senza  piacere  :  e  vi  è  ritratto  con  molta  vi- 
vacità comica  quel  tipo  del  Pedante,  da  cui  sembra  Giordano  Bruno  derivasse  il  Manfurio  del  suo 
Candelaio  (cfr.  Gbap,  Studii  drammatici;  Torino  1878,  p.  189);  poi  trasportato  tal  quale  nella  commedia 
dell'udinese  Vincenzo  Giusti,  il  Fortunio,  malamente  attribuita  all'Aretino  (cfr.  quanto  ne  scrissi  nella 
Domenica  Letteraria,  Anno  II,  num.  15).  —  È  il  Pedante,  che  nell'atto  V,  se.  Ili  del  Marescalco  fa- 
cendo un  discorso  d'occasione  per  le  simulate  nozze  del  protagonista,  rammenta  a  titolo  d'onore  parecchi 
letterati  e  gentiluomini  fiorenti  in  corte  :  il  Calandra  castellano,  il  cavalier  Vincenzo  Guerrieri  da  Fermo, 
U  Ceresara,  il  capitano  Luzasco,  il  musicista  Alberto.  E  altrove  è  nominato  il  cantore  Marchetto  Cara 
(atto  V,  BC.  II)  e  più  d'una  volta  Giulio  Romano.  Tra  l'altre,  m.  Jacopo  (atto  IV,  se.  V)  dice:  «  Andiamo... 
«  in  sino  a  San  Bastiano,  volli  dire  al  T,  che  forse  Julio  Romano  averà  scoperto  qualche  istoria  di- 
«  vina.  »  E  il  Pedante  facendo  eco  :  «  Eamus  :  o  che  bella  macchina  è  il  palazzo  che  da  la  architet- 
«  tura  del  suo  modelliculo  è  uscito:  Vitruvio  prospettivo  prisco  ha  imitato.  » 


I 


—  89  — 

xxvn. 

P.  Aretino  al  Marchese  di  Mantova. 


Ottimo  Principe 

Sì  come  si  perde  l'animo  quando  la  virtù  s'abandona,  così  quello  cresce  quando 
la  virtù  s'aiuta.  Rendo  a  V.  S.  Ex.""»  quelle  gratie  dei  danari  ricevuti  dalla  gen- 
tilezza vostra  che  si  rendono  a  Dio  degli  ottenuti  voti.  Et  perchè  senza  voi  son 
nulla  et  senza  voi  nulla  vorrei  essere,  gli  do  aviso  come  per  ispiratione  divina 
ho  fatto  pace  col  santiss."  et  R™°  Datario.  E  per  Dio  con  buona  mente  et  cor- 
diale aflfettione  m'ha  ricolto,  se  il  core  si  po'  conoscere  nella  lieta  fronte  ;  et  sonne 
tanto  contento  quanto  sia  possibile,  et  spero  che  la  sua  bontà  mi  renderà  quello 
ch'ella  m'ha  tolto. 

Et  perchè  V.  Ex.  è  il  mio  Dio,  vi  suplico  a  scrivergli  una  lettera,  et  dimo- 
strargli con  quel  favore  che  solete  farmi  quanto  piacere  voi  havete  havuto  nel 
intendere  ch'io  gli  sia  ritornato  servitore,  et  quanto  piacere  harete  quando  sua  S.'"" 
mi  aiuterà  ancora  per  quella  fedel  servitù  ch'io  me  gli  son  dato.  V.  Ex.  è  savia 
et  intende  lo  animo  mio,  et  son  certo  che  mi  sarà  di  grande  utile  cotal  lettera, 
maxime  scritta  da  favorevole  inchiostro. 

V.  Ex.  mi  mandi  una  sella,  cioè  il  casso  d'una  sella  a  vostro  modo,  sul  quale 
vi  mandare  tal  lavoro  che  stupireti  come  del  pugnale;  benché  già  è  fornita  quella 
che  per  voi  è  cominciata  pure  volemo  vedere  la  foggia. 

Un'altra  gratia  voglio  et  poi  sin  che  il  libro  non  vi  perviene  in  mano  non  vi 
darò  impaccio  niuno  nò  di  niente.  Io  sono  su  le  feste  et  gli  amori  incazziti,  et 
ho  bisogno  di  4  braccia  di  tabi  d'oro  texuto  se  ce  n'è  nel  rosso,  o  tela  o  brocato 
come  si  trova;  et  ve  ne  sarò  obligato  per  infinita  secula  amen. 
De  V.  Ex.  S."  1) 

Postscritta.  Per  essere  il  Datario  ito  a  Verona  V.  Ex.  si  degni  a  posta  man- 
darci un  suo  et  scrivergli  ciò  ch'ò  detto  di  sopra,  che  per  Dio  ne  risulterà  un 
gran  bene  per  un  vostro  servo  in  eterno. 


(S.  d.  n.  1.) 


oblig"^  schìaviss."  et  serviss.^ 
P.  Aretino. 


^)  «  Vi  rengratio  anco  di  quanto  mi  scrivete  circa  la  sella,  e  ve  manderò  il  fusto  secondo  ricercate. 
«  Ho  fatto  cercare  del  brocato  o  tela  d'oro  de  la  sorte  che  adimandate,  ecc.  »  Così  il  Marchese  nella 
sua  risposta  del  13  febr.  1530  {Lett.  alVA.,  I,  11). 


9Ó 


XXVIII. 
Il  Marchese  di  Mantova  al  Giberti. 

{Copialett.,  Lib.  301) 

D°°  Episcopo  Veronensi.  —  Io  non  posso  fare  che  non  ami  m.  Petro  Aretino 
per  le  virtù  sue  et  per  esserrai  stato  sempre  amorevoliss.**  et  perchè  con  l'opre  sue 
mi  ha  fatto  molto  honore;  et  essendo  tra  V.  S.  et  me  quel  amor  mutuo  che  vi  è, 
vorei  che  tutti  quelli  a  quali  porto  amore  ha  vesserò  anche  la  benevolentia  et 
amor  di  quella,  sì  come  io  voglio  amar  quelli  che  sono  amati  da  lei.  Per  questo 
havendo  inteso  dal  p.*"  m.  Petro  proprio  per  le  sue  lettere  che  l'è  sta  restituito 
in  la  gratia  et  benevolentia  della  p.*'  S.  V.,  la  qual  elli  ha  desiderato  sumamente, 
sperando  anche  per  opera  di  quella  doversi  reconsiliare  con  altri,  ne  ho  havuto 
piacer  gran.™".  Et  con  questa  mia  mandata  per  cavallaro  a  posta  ho  vogliuto 
significarglilo  ;  et  benché  pensassi  ch'ella  non  havesse  fatto  senza  causa  quello 
ch'haveva  fatto  contra  lui,  nondimeno  sempre  ho  sperato  che  per  humanità  et 
benignità  sua  ella  fusse  per  far  quello  ch'hora  l'ha  fatto,  et  così  spero  ch'ella  sia 
per  gratificarlo  per  l'ad venir  dove  la  potrà,  nondimeno  la  prego  anche  io  che  per 
amor  mio  voglia  h averlo  raccomandato  et  fargli  piacere  et  aiutarlo  dove  la  puotrà. 
Che  tutto  quello  bene  che  farà  a  ditto  m.  Petro  lo  farà  a  persona  ch'amo  sum- 
maraente  ecc. 

Mantova  8  febbr.  1530. 


XXIX. 

II  Giberti  al  Marchese  di  Mantova, 


IH'"'»  et  Exnio  S"  mio 

Ho  preso  grand™"  piacer  di  quel  che  V.  Ex.  mi  significa  haver  preso  della 
reconciliation  con  m,  Pietro  et  che  la  si  degni  stimarlo  tanto  che  babbi  voluto 
mandar  homo  a  posta  per  questo,  perchè  sendo  io  servitore  suo  della  sorte  che 
sono  mi  deve  esser  caro  ogni  poco  servitio  che  me  li  vien  fatto,  tanto  più  uno 
che  sia  tenuto  da  lei  così  grande  come  io  anchora  voglio  tenerlo  per  me.  Et  cum 
tutto  che  nel  cor  mio  non  havessi  odio  alcuno  con  esso  m.  Pietro,  et  mi  dispia- 
cesse che  lui  ingannandosi  di  me  credesse  ch'io  fussi  verso  di  lui  quello  che  non 
sono  verso  alcuno,  pur  mi  piace  soraamente  che  sia  tolto  via  quel  che  poteva  dar  da 
dire  alla  gente  et  quel  che  si  deve  servare  tra  cristiano  et  cristiano  et  io  farne 
(sic)  più  conto  per  bavere  un  poco  più  conoscimento  forse  che  non  ho  havuto  fin 


—  91  — 

qui.  Sì  che  me  ne  allegro  et  ringratio  V.  Ex.  del  contento  che  ne  piglia  per 
amor  mio.  Et  perchè  nella  lettera  sua  è  una  parola  ch'io  non  vorrei  che  nella 
mente  sua  fusse  tale  per  quanto  ho  cara  la  gratia  non  solo  sua  ma  della  S.*'' 
di  N.  S.  mio  patrone  et  di  tutto  il  mondo  insieme,  non  posso  lassarla  passai* 
senza  pregarla  ad  esser  certa,  se  è  certa  ch'io  sia  servitor  suo,  che  se  è  stato 
mai  fatto  cosa  alcuna  centra  m.  Pietro  è  stata  senza  ordine,  senza  consenso  *; 
senza  saputa  mia,  anzi  di  quel  che  fu  fatto  presi  io  tanto  dispiacer  che  se  non 
fussi  stato  sforzato  dalli  infiniti  preghi  ne  facevo  molto  maggior  dimostratione  di 
quel  che  feci. 
E  a  V.  Ex.  baso  le  mani  humilmente.  Da  Verona  alli  viiu  de  febraro  MD^XX 

Di  V.  Ex. 

Devotissimo  Servitor 
El  Vescovo  di  Verona. 


XXX. 

Il  Segretario  del  March,  di  Mantova  al  Giherti. 

(Minute,  1530) 

R™o  Mons. 

Il  S""  mio  III"""*  aspettava  una  lettera  da  V.  S.  in  resposta  della  sua,  tale  che 
la  potesse  mandare  a  m.  Pietro  Aretino,  havendo  lui  pregato  Sua  Ex.  a  volére 
scrivere  ad  essa  V.  S.  et  mandare  uno  a  posta,  mostrando  bavere  havuto  piacere  che 
V.  S.  li  babbi  restituito  la  sua  gratia,  et  pregandola  che  la  voglia  esser  mezzo 
con  N.  S.  che  lo  habbia  per  servitore.  Ma  havendo  veduto  Sua  Ex.  che  la  littera 
non  seria  da  mandare,  et  più  che  in  quella  V.  S.  mostra  haver  dubitato  per 
quelle  parole  che  non  si  habbia  havuto  qualche  sinistra  opinione  di  lei,  ella  me 
ha  commisso  che  scriva  questa  mia,  et  che  sopra  la  fede  sua  et  di  leale  principe 
assecuri  essa  V.  S.  che  ella  non  ha  fatto  scrivere  cosa  alcuna  con  tale  pensamento, 
ne  mai  pensò  che  V.  S.  havesse  fatto  fare  nò  pensato  di  fare  cosa  alcuna  in  la 
persona  di  m.  Pietro,  et  di  questo  V.  S.  ne  stii  con  animo  sicuro  et  sincero. 
Nò  Sua  Ex.  commise  expresnamente  più  quelle  parole  che  altre,  che  la  sa  ben 
che  non  se  possono  sempre  dittare  le  littere  a  parola  per  parola;  ma  V.  S.  le 
pigli  in  questo  senso,  che  con  tale  intentione  è  stato  scritto,  che  quello  che  ella 
ha  fatto  centra  m.  Pietro,  cioè  in  odiarlo  et  abominarlo,  l'habbia  fatto  con  ra- 
gione. Che  Sua  Ex.  è  anch'ella  stata  molte  volte  constretta  a  non  volerli  troppo 
bene,  havendo  egli  scritto  cose  centra  suoi  servitori.  Nò  V.  S.  creda  che  queste 
parole  siano  state  scritte  con  malicia  dal  cancellerò  che  scrisse  la  lettera,  quale 
sa  tanto  che  cosa  fosse  mai  fatto  in  la  persona  de  m.  Pietro  quanto  sa  uno 
puttino  nasciuto  pur  beri.  Il  S''  mio  tene  V.  S.  per  uno  S.  da  bene,  et  sa  che 
la  non  pensarla  a  vendetta  alcuna  di  tale  nò  d'altra  sorte.  Sua  Ex.  bavera  piacere 
che  V.  S.  faccia  scrivere  un'altra  lettera  sotto  la  data  della  prima  et  che  non  pari 
replicata  ma  scritta  per  resposta  della  sua:  et  sia  tale  che  la  possi  mandare  a 


—  92  — 

mostrar  per  il  suo  ambassatore  a  m.  Pietro,  et  parli  pur  in  essa  di  sé  stessa 
come  li  pare,  purché  lui  veda  che  Sua  Ex.  habbia  scritto  et  mandato  a  posta, 
et  Sua  Ex.  voria  poter  parere  bavere  scritto  da  sé  et  non  ad  instantia  d'  esso 
m.  Pietro. 

V.  S.  sa  mo'  la  intentione  del  S"^  mio,  et  se  degnarà  di  compiacere  Sua  Ex. 
comò  la  recerca;  et  io  la  suplico  che  la  se  degni  haverme  per  servitore  corno  li 
sono  et  commendo. 


Di  Mantova  10  febbr.  1530. 


(Il  Calandra). 


XXXI. 

L'amò.  Maìatesta  al  Marchese  di  Manioca. 

Vidi  beri  m.  Petro  Aretino  il  quale  trovai  con  la  confession  in  mano  et 

con  lacrime  airocchi,  che  piangieva  sì  come  elio  dice  gli  suoi  pecati,  et  dissemi 
che  conoscea  che  Dio  non  lo  volea  abandonar  et  farli  piìi  bene  che  non  meritava, 
per  esser  stato  fin  al  presente  gran  pecatore,  et  ch'havea  terminato  far  altra  vita 
che  non  havea  fatto  fino  adesso,  essendosi  al  tutto  deliberato  rimettere  gli  ran- 
cori gli  odij  et  il  resto  di  la  mala  vita  di  la  quale  è  stato  judicato,  et  che  si 
trovava  in  tutto  contrito,  et  si  volea  confessar  et  comunicar  con  tutta  la  sua 
famiglia,  il  che  non  havea  fatto  già  qualche  anni.  Et  che  si  trovava  ben  disposto  et 
consolato  per  opera  del  Ser.""»  quale  si  era  interposto  per  meggio  del  E.*"°  Legato  ^}, 
che  N.  S.  gli  havea  perdonato  et  fatto  pace  seco,  et  etiandio  il  Rev.  Ep."  di 
Verona.  Et  havea  promisso  al  p.^  Ser.™»  di  levar  dal  suo  libro  tutte  quelle  cose 
in  le  quali  dicea  male  di  Sua  S.^*  et  in  loco  di  quelle  dire  bene  di  lei  et  così 
del  detto  Ep.o.  Et  che  in  segno  che  l'habbi  consequito  pace  con  tutti  quelli  che 
l'odiaveno,  Sua  Sub.^*  gli  ha  commandato  che  se  confessi  et  comunichi,  et  cosi 
gli  ha  promisso  et  observara,  né  gli  mancarà  mai  per  l'humano  atto  che  gli  ha 
usato.  Et  appresso  che  N.  S.  gli  ha  promisso  di  farli  la  bolla  che  ninno  se  non 
ad  sua  instantia  possi  stampare  le  opere  sue  et  Tha  recercato  alli  suoi  servitii. 
Io  gli  ho  detto  sopra  questo  ragionamento  quello  m'è  parso:  et  detoli  quanto 
V.  S.  me  coHimisse  nel  partir  mio  di  volerli  far  uno  presente,  partito  che  sia 
Cesare  di  Mantoa;  di  che  ne  ringratia  quella   anchor  che  non  l'habbi  recevuto. 

Elio  poi  me  ha  detto,  et  così  dal  conte  Guido  *)  et  da  altri  son  certificato,  come 
il  Marchese  di  Monferrato,  essendo  stato  qui,  continuamente  l' ha  voluto  in  sua 
compagnia,  l'ha  onorato  et  accarezzato  infinitamente,  gli  ha  donato  una  collana 
di  valore  di  100  ducati,  cento  ducati  in  contanti,  et  per  150  ducati  vestimenti 
con  recami  et  ori  dentro.  Doppoi  l'ha  recercato   alli  suoi  servitii   et   promissoli 


*)  Il  Vergerio. 
>)  Bangoni. 


—  98  — 

molte  oose.  Et  mi  dice  haverli  come  promisso,  benché  non  sia  per  attenderli  se 
V.  Ex.  non  lo  lascia  morir  di  fame  come  l'ha  fatto  fino  adesso,  che  non  conosce 
altro  patron  né  Dio  in  terra  se  non  V.  Ex.,  et  lei  non  si  cura  di  lui  che  gli  è 
più  schiavo  che  di  se  medesimo  et  ha  più  martello  di  lei  che  del  suo  inamorato, 
ma  che  lei  ha  gran  torto  a  tratarlo  così  legermente,  che  elio  nel  suo  libro  lassa 
tale  memoria  di  V.  S.  et  di  la  sua  .casa  che  sempre  sarà  immortale,  ma  che  le 
sue  fatiche  molto  male  sono  state  premiate.  Ma  con  tutto  questo  non  è  per  restare 
di  non  esserli  servitore;  et  che  ha  molto  ben  conosciuto  che  l'invito  fattoli  per 
Monferrato  è  stato  solamente  per  distorlo  che  non  sii  servitore  di  V.  S.  et  per 
deviarglilo  et  forsi  con  speranza  di  servirsi  di  esso  in  qualche  suo  dissegno,  ma 
quando  lo  facci  per  questo  la  può  esser  secura  che  restarà  ingannata.  Et  che  gli 
pare  di  dir  il  tutto  a  V.  Ex.  et  recordarli  che  gli  è  servitore  et  pregarla  ad 
trattarlo  da  servitore  et  non  lassarlo  morir  di  fame.  Et  questi  giorni  fece  intender 
a  V.  Ex.  che  mandandoli  uno  fusto  da  sella  gli  ne  volea  far  fare  uno  che  saria 
stato  singulare  nò  gli  saria  stato  parangone,  et  mo'  il  conte  Guido  ha  voluto 
quello  dissegno  et  la  fa  fornir  a  M."  Valerio,  che  sarà  al  modo  et  foggia  del 
pugnale  che  donò  a  V.  S.  Ma  se  la  gli  manda  uno  altro  fusto  ne  farà  fare 
un'altra  che  sarà  anche  più  bella  del  desegno  predetto.  Il  conte  fa  fare  la  detta 
sella  per  il  Cristianissimo. 

In  summa  m.  Petro  prega  V.  S.  che  il  dono  che  la  intende  de  farli  lo  facci 
presto  et  non  aspettar  che  l'Imperatore  parti  da  Mantoa,  perchè  vi  potria  star 
tanto  ch'elio  patirebbe *) 

Venegia  12  aprile  1580. 


1)  Il  Marchese  faceva  rispondere  al  Malatesta(18  aprile  —  Copialett.,  Lib.  299):  «  Quanto  ne  havete 
«  scritto  di  m.  Pietro  Aretino  ne  è  stato  gratissimo  intendere.  Gli  direte  per  parte  nostra  che  poi  che 
«  l'ha  espetato  tanto  si  contenti  anchor  di  aspettar  un  poco,  perchè  adesso  siamo  molto  occupati  es- 
€  sendo  l'Imperatore  in  procinto  di  partirsi,  et  secondo  mi  ha  detto  S.  M.i*  dimani  si  partirà.  Subito 
«  che  sii  partito  faremo  tal  demostratione  a  m.  Pietro  che  conoscerà  che  gli  volemo  gran  bene,  ricer- 
c  cando  così  li  meriti  suoi.  Circa  la  sella  per  un'altra  nostra  vi  faremo  scriver  l'animo  nostro.  »  - 
Alla  lettera,  poi,  dell'ambasciatore  va  accluso  il  seg^iente  bigliettino  a  lui  diretto  dall'Aretino,  dove  si 
accenna  a  non  sappiamo  quali  grazie  che  questi  desiderava  dall'imperatore   per   mezzo  del  Gonzaga: 

Signor  Imbasciatore 

Mi  è  occorso  scrivere  per  questa  sera  al  Marchese  per  doi  gratie  ch'io  li  chiedo,  una  grande  et  l'altra 
piccola:  la  piccola  è  ch'interceda  a  Cesare  expeditione  buona  o  ria  per  gli  imbasciatori  della  Aquila  (?). 
Et  l'altra  che  cerco  pur  per  suo  mezzo:  che  l'Imperatore  chieda  una  gratia  alla  S.ria  di  Venetia;  et 
si  ottengo  ciò  sempre  gli  sarò  oblig.mo  et  dirò  di  bavere  ricevuti  granbenefitii  da  Sua  Ex.;  se  no,  fa- 
vori et  patroni  non  mancharano  ai  Pietri  Aretini. 

V.  S.  per  sua  gentilezza  gli  scriverà  un  verso  del  desiderio  mio  et  di  quel  ch'io  pur  hieri  vi  dissi, 
et  questa  fia  l'ultima  mia  chiarezza  del  bene  che  sua  Ex.  dice  volermi,  et  della  speranza  c'ho  in  lei; 
et  se  fate  la  lettera  la  mandarò  io,  non  havendo  quella  stasera  per  chi  mandarla,  ma  bora  vorrei  che 
la  scrivessi  et  mandassi,  et  vi  saluto. 

.     Di  V.  S.  ' 

Servitore 
obligmo  P,o  A. no. 


-  94  - 

XXXII. 

P.  Aretino  ni  Duca  di  Mantova. 

Veramente  Mag.'"*^  et  optimo  S/  mio 

Dallo  Imbasciatore  di  V.  Ex.  ho  con  sonjmo  piacere  inteso  che  la  bontà  vostra 
è  mossa  per  se  stessa  in  recordarse  di  me,  et  hammi  detto  per  vostra  parte  che 
partito  Cesare  di  costì  mi  consolareti  con  gratioso  presente;  del  che  mi  con- 
gratulo con  l'animo  mio  quasi  raffreddo  nel  fervore  della  divotione  inverso  V.  S. 
perchè  mi  pareva  esser  servo  con  poca  speranza  di  bene,  poi  che  sì  parcamente 
sin  qui  sono  stato  intertenuto.  Hora  ringratio  Dio  che  senza  mia  importunità 
vi  siate  degnato  in  ralegrarrai  con  qualche  cosa  di  quelle  che  sogliono  venire 
dal  Marchese  di  Mantova;  et  per  chiarirvi  io  havvevo  preso  partito  et  novo  pa- 
trone, si  non  veniva  a  disturbarmi  la  cortese  imbasciata  fattami  dal  Mag.*^'^ 
m.  Joan  Iac.°  Malatesti,  perchè  né  la  fatica  della  mia  virtù,  né  '1  merito  della 
mia  fede  poteva  più  raffrenare  la  necessità  sua.  Et  pensando  che.  X  anni  che  vi 
ho  adorato,  et  per  testimonio  ne  resta  al  mondo  l'opra  dal  mondo  più  desiderata 
che  cosa  che  si  desiderasse  mai,  et  non  bavere  ancho  uscito  d'un  saio  et  d'un 
giubone,  m'ero  disperato:  et  quel  che  più  m'induceva  a  disperare  era  un  dono 
che  m'ha  fatto  di  più  di  VI  cento  scudi  il  Marchese  di  Monferrato,  che  mai  non 
m'ha  visto  si  non  in  Vinetia,  et  apresso  le  grandi  propherte  volendo  ridurmi  seco. 
Et  più  il  Dusi  Andrea  Gritti,  che  anch'egli  non  mi  ha  più  visto  né  parlato  et 
s'è  mosso  con  tanto  amore  inverso  de  i  miei  torti  et  ha  presomi  in  tal  protetione 
che  oltra  che  mi  ha  renduta  la  gratia  del  Papa  mi  farà  de  la  mia  servitù  pagare 
et  presto,  et  ho  più  favore  in  questa  sola  città  che  forestieri  che  ci  fossi  mai 
perchè  il  mio  padre  è  principe  di  Venetia,  et  ben  lo  posso  chiamare  così  poi 
ch'opra  per  me  paternamente. 

Sì  che  essendo  così  che  dovria  fare  il  Marchese  di  Mantua?  Io  vi  predico, 
io  vi  exalto,  et  sempre  v'ho  nella  anima,  et  non  ci  sono  però  cento  Aretini  in 
Italia,  et  se  V.  Ex.  mi  mandava  il  fusto  della  sella  vi  facevo  tal  presente  che  s'arìa 
messo  pensiero  allo  Imperatore  a  farne  un  simile  a  un  altro  imperatore.  Et  non 
crediate  che  il  Marchese  di  Monferrato  mi  vinca  di  cortesia,  che  senza  una  im- 
presa d'oro  et  un  bel  presente  di  profumi  che  gli  ho  donato  qui,  gli  mando 
adesso  uno  specchio  di  gran  quadro  di  cristallo  orientale  nettissimo,  nel  orna- 
mento del  quale  ci  sono  incassati  otto  medaglioni  di  mano  di  m.  Valerio  pure 
in  cristallo  come  sono  quelle  figure  del  pugnale.  Et  a  me  costano  cento  scudi, 
et  fra  l'oro  e  l'argento  et  il  gran  pezzo  del  cristallo  fatto  per  ispecchio  costa 
ducente  altri,  ma  sia  che  signor  si  voglia  non  l'haria  per  cinquecento,  né  in  tre 
anni  saria  finito  et  io  l'ho  già  a  fine.  Sì  che  non  si  po'  la  generosa  natura  mia 
vincere  a  niun  modo').  Le  cose  ch'io  ordino  per  il  N.  S.  saprete  poi').  Ma  la 


i 


')  Questa  lettera  inedita  dell'Aretino  è  stata  già,  citata  dal  Sinioaqlia,  Sa(/gio  di  uno  studio  su  P.  A., 
Boma  1882,  p.  101;  il  quale  rì  permette  di  parafrasarla,  capovolgendone  affatto  il  senso,  di  modo  che 
riferisce  al  Marchese  di  Mantova  i  doni  scambiati  con  quello  di  Monferrato.  «  Pur  beato  ch'io  v'inviai 
«  pugnali,  medaglie  e  doni  per  migliaia  (!)  di  scudi,  chò  almen  conoscerete  la  mia  generosità  non  po- 
«  tersi  vincere  da  alcuno.  »  È  inutile  fare  qualsiasi  commento,  taiito  più  dopo  il  giudizio  da  me  dato 
altrove  (niornale  storico  delUi  lett.  il.,  I,  330)  su  quell'enorme  e  sconcio  pasticcio  del  sig.  Sinigaglia. 

*)  Allude  ai  vetri  ammirabili  per  «  la  foggia  de  l'antiquità  disegnata  da  Giovanni  da  Udine  »  (cfr.  p.  51). 


-  95  — 

somma  del  mio  dire  è  che  ogni  volta  che  voi  me  v^orrete  per  servo  non  affamato, 
io  son  per  lasciare  Papi,  Re  e  tutti  i  principi  del  mondo  per  servirve  pur  discosto 
come  faccio  adesso.  Né  premio  grande  o  grandi  speranze,  nò  grado  mi  corromperà 
mai,  perchè  troppo  è  incarnato  in  l'anima  mia  et  nel  cor  mio  Federico  Gonzaga. 
Et  quando  non  mi  vogliate  honestamente  sovvenire,  vedrete  ch'ò  mille  vie  dd 
vivere:  et  così  cosi  ci  sono  pochi  forestieri  honorevoli  qui  come  sono  io;  tengo 
casa  suso  il  Canal  Grande  comodamente  guarnita,  do  il  pane  a  cinque  servitori 
et  il  vestire  a  me  simile.  Et  sempre  tre  o  quatro  mangiano  meco,  et  sto  in  Ve- 
ne tia  ch'ogni  cosa  è  carissima,  et  già  è  chiaro  il  Papa  che  non  po'  morire  di 
fame  un  Pietro  Aretino,  et  come  io  sia  o  habbia  a  essere  V.  Ex.  è  il  mio  Dio, 
purché  vi  degnate  ch'io  vi  adori,  et  presto  udiranno  gli  huomini  di  che  suono 
sia  Marphisa,  la  quale  viene  a  presentarmi  la  pace  publica  d'ognuno  et  l'utile 
et  la  gloria  sempiterna,  et  mi  ritrovo  con  manco  fastidio  che  fosse  mai,  et  per 
fede  di  ciò  mi  sono  confessato  et  comunicato  Dio  gratia. 

Circa  la  gratia  scrittavi  dallo  imbasciatore,  ve  lo  scrivevo,  ma  la  lettera  non 
deve  esser  comparsa  in  mano  di  V.  Ex.;  et  in  cambio  di  quella  mandatemi  un 
paio  di  calze  da  donna,  d'oro  et  di  seta  delle  più  ricche  che  costì  si  facciano, 
et  ve  ne  prego  per  Dio,  et  se  mai  credete  farmi  ben  ninno  degnatevi  a  farmi 
presto  presto  presto  questo  piacere,  che  lo  aspetto  con  gran  sete,  né  m'importano 
i  colori  purché  siano  belle  et  preste,  et  io  alla  nuova  consorte  di  V.  Ex.  ne 
aparecchio  il  cambio  *).  Honne  presa  somma  consolatione,  et  così  tutti,  nò  meritava 
il  mio  S.  meno  donna  che  una  regina,  né  quella  regina  minor  marito  che  il 
Principe  unico  di  Mantova.  Dio  faccia  tosto  uscire  di  sì  glorioso  seme  un  altro 
a  similitudine  vostra,  acciò  che  Italia  sempre  risplenda  di  tanta  cortese  bontà 
quanto  appare  in  voi  solo  et  senza  exempio.  Et  potria  bene  esser  che  Mantova, 
allora  che  la  menarete,  mi  veggia. 

Parlerò  adesso  di  Cesare  il  quale  adoro,  poi  che  l'à  pur  conosciuto  la  divotione 
portatagli  da  V.  Ex.  et  ha  fatto  il  debito  suo  a  ballare,  a  cacciare  et  a  ban- 
chettare come  se  dice  per  ognuno  che  ha  fatto  contra  natura  sua.  Ho  inteso  da 
molti  che  Sua  Maestà  per  allegrezza  del  haver  toltosi  da  Bologna  dal  babbo 
santo  ha  cantato  in  su  i  vostri  organi  d'allabastro,  et  per  certo  che  molto  é 
piaciuto  a  coloro  che  credevano  che  l'Imperatore  fossi  composto  di  silentio  pro- 
fondo a  tutto  pasto.  Non  altro,  a  V.  Ex.  baso  le  mani. 

De  Vinetia  a  XX  d'aprile  MDXXX. 

Di  V.  Ex."^»  S. 

Oblig.^o  et  divotiss.o  Servo 
P.  Ar.^o. 


>)  Il  principe  faceva  rispondere  al  Màlatesta  (27  aprile  —  Gopialett.,  301):  «  A  m.  Pietro  Aretino 
«  direti  che  facemo  ritrovare  un  par  de  calze  de  la  sorte  che  '1  voria,  che  gli  le  mandaremo  subito, 
«  et  in  brfcye  li  faremo  anche  navere  il  dono  promessoli.  »  —  L'A.  accenna  al  prossimo  matrimonio 
di  Federico  con  Margherita  Paleologa  di  Monferrato. 


—  96 


XXXIII. 
Il  Duca  di  Mantova  a  P,  Aretino. 

{Copialett.  ordin.,  Lib.  301) 

Mag.<=°  m.  Pietro  mio. 

De  piacere  grand.™^  mi  è  stata  la  lettera  vostra  de  xvi  del  presente  che  mi 
havete  mandata  per  Vincenzo  Calcedonio  con  la  copia  della  lettera  del  S^  Turco  ^), 
Et  molto  ve  ne  rengratio,  havendo  gratiss.*  la  memoria  che  veddo  che  tenete  di 
me,  col  scriverme  et  voler  mandare  presenti  et  vostre  compositione,  quali  per 
essere  ingeniose  eleganti  belle  et  delettevoli  mi  piacciono  sempre,  ma  maxime  in 
questi  dì  longhi  et  caldi,  quali  a  chi  non  ha  qualche  buon  intertenimento  sono 
molto  fastidiosi;  et  intertenimento  ninno  né  più  bello  né  megliore  né  di  piìi 
delettatione  si  può  bavere  che  legere  le  vostre  compositioni,  ornate  de  tutto  quello 
che  vi  si  conviene.  Però  con  desiderio  aspetto  el  primo  canto  del  vostro  libro  che 
promettete  de  mandarmi,  quale  tanto  più  mi  sera  grato  quanto  lo  bavero  più 
presto.  Et  finito  che  lo  bavero  di  legere  non  mi  vogliate  laxare  rencrescere  in 
questi  longhi  et  fastidiosi  caldi  *),  et  fate,  vi  prego,  che  continuamente  io  habbia 
qualche  cosa  nuova  del  vostro,  con  che  me  possi  intertenere.  Ad  ogni  altro  veddo 
che  il  provedermi  continuatamente  de  nove  compositioni  seria  troppo  gran  carico  ; 
ma  al  vostro  copioso  ingegno,  quale  anchora  che  habbia  occupatione  de  varie  cose 
non  solo  non  cerca  di  riposarsi  mai  ma  de  continuo  partorisce  qualche  bella  cosa 
di  novo,  so  che  non  sera  difficile  ;  però  liberamente  ve  ne  recerco,  non  dubitando 
de  impuorvi  troppo  gran  peso.  Et  alli  commodi  et  piaceri  vostri  me  oifero  di- 
gpositissimo. 

Da  Mantova  alli  20  de  giugno  1530. 


1)  Uno  cioè  di  quegli  estratti  di  lettere,  che  facevano  parte  del  giornalismo  rudimentale  dell'epoca. 
E  l'Aretino  che  ci  teneva  a  esser  ben  informato  e  si  vantava  d'aver  «  tutte  le  nuove  del  mondo  » 
{Lett.  alVA.,  II,  246),  si  affrettava  a  communicarne  a'  Principi.  —  Nel  cod.  mare,  ci.  XI  it.,  n»  LXVI, 
a  carte  320  r,  trovasi  «  la  lettera  mandata  questo  mese  de  zugno  1530  per  el  S.  Turcho  al  Illmo  Prin- 
cipe m.  Andrea  Gritti  »  che  è  senza  dubbio  questa  stessa  spedita  subito  dall'A.  al  Duca  di  Mantova. 

')  «  La  vostra  Eccellenza  —  rispondeva  l'Aretino  —  ricerca  da  me  qualche  ciancia  per  farne  ven- 
«  taglio  del  caldo  grande  che  arde  questi  dì,  che  si  trapassano  fastidiosamente.  Onde  gli  mando  de  le 
«  stanze  composte  in  honor  de  la  Genealogia  da  Gonzaga...  Hora  io  ho  havuto  la  zamarra  di  velluto  negro 
«  e  i  cinquanta  scudi,  i  quali  di  man  propria  mi  ha  contati  in  casa  il  signor  Benedetto  Agnello  » 
(cfir.  doc.  XXXIV,  disp.  11  luglio).  Questa  lettera  nella  stampa  ha  la  data  del  2  di  giugno  1531  (Let- 
tere, I,  22),  ma  è  evidentemente  errata,  perchè  l'anno  appresso  l'Aretino  era  in  rotta  col  Duca:  e  deve 
perciò  riporsi  al  luglio  1530,  a  cui  conviene  perfettamente.  Gli  errori  di  data  sono  molto  frequenti  nelle 
lettere  a  stampa  dell'Aretino:  e  da  essi,  eruditi  e  biografi  furon  tratti  troppe  volte  fuori  di  strada. 
Basti  dire  che  nessuno  s'è  accorto  che  la  lettera  (I,  4)  a  Francesco  primo ,  con  la  data  di  Roma 
24  aprile  1524,  verte  interamente  sulla  battaglia  di  Pavia  :  e  che  perciò  sono  erronee  tutte  le  dedu- 
zioni del  Mazznchelli  sulla  presenza  dell'Aretino  a  Roma,  in  base  a  quella  lettera  (cfr.  La  Vita  di 
P.  A.,  p.  21). 


—  97 


XXXIV. 

Dispacci  delVamh.  Agnèllo. 

Venezia  1530. 

11  Luglio  {Ai  Duca).  «  Ho  dato  li  cinquanta  scudi  a  m.  Petro  Aretino,  che 
V.  Ex.  m'ha  mandati  *),  li  quali  gli  sono  stati  molto  grati  però  che  sono  venuti 
a  tempo,  che  non  haveva  un  soldo,  et  ne  ringratia  infinitamente  V.  Ex.  Il  mal 
suo  fu  d'un  solo  parosisrao  di  febre  et  hora  sta  sano  et  dice  che  non  mancarà 
di  scriver  spesso  a  V.  S.  m."^^  ». 

6  agosto  {Al  Calandra).  «  L'Aretino  è  amalato,  Dio  lo  togli  nanti  ch'el  peg- 
giori {sic).  Heri  mi  mandò  a  domandar,  et  mi  disse  che  ha  gran  paura  di  morir 
nanti  ch'el  possa  finir  la  sua  opera;  me  ha  instato  ad  voler  pregare  il  S.^  ad  vo- 
lerli mandare  un  scrittor  da  scriver  quella  parte  che  l'ha  finito  qual  dice  esser  di 
tremilia  cinquecento  stanze,  affirmando  che  se  Sua  Ex.  non  fa  questo  assai  dubita 
che  le  sue  fatiche  seranno  invano,  perchè  l'ha  ogni  cosa  sottosopra  senza  ordine; 
et  tanto  mi  disse  che  fai  sforzato  a  prometterli  de  scrivere  ». 


XXXV. 

P.  Aretino  al  Duca  di  Mantova. 

Mag.™°  Principe 

Sin  qui  V.  Ex.  ha  le  necessità  di  me  solo  riparate,  adesso  bisogna  che  la  gran 
bontà  vostra  ripari  al  ultimo  pericolo  di  tutti  gli  Aretini,  i  quali  con  il  medesimo 
fervore  vi  adorano  che  faccio  io.  Et  si  ben  vi  ricorda  la  prima  volta  che  io  fui 
a  Mantoa  per  commessione  di  tutta  la  patria  mia  vi  offerii  tutti  loro  fidelissimi, 
et  di  questo  ne  po'  far  testimonio  l'exercito  cesareo  che  tanta  amorevol  fede  non 
ha  conosciuta  in  tutta  Italia,  nò  per  havergli  mal  sodisfatti  lo  Imperatore  son 
però  mancati,  che  quando  l'havessin  fatto  grandemente  impedivano  alle  sue  genti 


')  Nel  lib.  301  de'  Copiaìett.  ordin.  troviamo  queste  missive  del  Duca  all'ambasciatore  Agnello: 

4  luglio.  «  M.  Pietro  Aretino  per  una  sua  ne  fa  intendere  che  egli  è  malato  et  ne  priega  che  vo- 
«  gliamo  mandarli  cinquanta  scudi  da  curarlo.  Fateli  intendere  che  havemo  havuto  la  lettera  sua  et  ne 
«  incresce  grandemente  del  male  et  che  fra  dai  ^  li  inv faremo  li  cinquanta  scudi.  » 

9  luglio.  «  Se  vi  manda  cinquanta  ducati  per  Scrittine  nostro  cavallaro,  quali  volerne  che  portati 
«  a  m.  Pietro  Aretino,  et  gli  li  diate  da  nostra  parte  visitandolo  in  nostro  nome,  et  dirli  che  goda  questi 
«  per  adesso  per  amor  nostro  et  che  attendi  a  guarir  et  revalersi,  acciò  che  ne  possa  scriver  qualche 
«  cosa  secundo  il  solito  che  ne  dilecta...  —  Direti  a  m.  Pietro  che  non  si  responde  alle  lettere  sue 
«  per  non  affaticarlo  in  legere  essendo  amalato,  ma  lo  certiflcarete  che  ne  sono  state  gratiss.e  come 
«  le  sono  sempre.  » 

Lotio  —  Pietro  Aretino  7 


—  98  ~ 

l'impresa,  anzi  son  restati  più  che  mai  in  la  speranza  che  viii  cento  anni  gli  ha 
tenuti  divoti  di  Cesare,  et  hanno  al  Imperatore  móstro  i  previlegi  de  i  suoi  pre- 
decessori, ì  quali  gli  hanno  solidato  la  libertà  cara  sino  agli  animali. 

Hora,  Signore,  i  poveretti  sapendo  che  non  mio  Signore  ma  sete  mio  Dio,  son 
ricorsi  a  me  et  con  le  mie  parole  vi  suplicano  che  vi  degnate  in  nome  di  V.  Ex. 
jEar  scrivere  a  Don  Ferrante  che  sia  qual  si  voglia  il  fine  che  gli  soprastia  gli 
voglia  pigliare  in  protettione;  et  havendo  in  V.  S.  1\\.^^  la  stessa  servitìi  che 
ho  io  si  gettano  in  le  braccia  di  S.  S.^*,  et  dove  al  fratello  vostro  piacerà  metergli 
ivi  steranno  fedelmente. 

Ma  qual  premio  potrà  la  cortesia  vostra  mai  dare  alle  mie  lunghe  fatiche  che 
pareggi  il  conservare  per  amor  mio  la  mia  patria  intera  ?  Non  un  tesoro,  non  un 
Stato  mi  saria  tanto  caro,  quanto  la  salute  della  patria  ;  et  però,  Signor  ottimo, 
adesso  è  il  tempo  che  V.  Ex.  dimostri  al  mondo  il  qual  sa  che  io  vi  adoro 
quanto  cura  tenete  della  servitù  mia.  Io  vi  chiedo  cose  honeste  et  sante,  et  vi 
ricordo  che  gli  Aretini  sono  antichissimi  toscani,  et  che  Virgilio  confessa  Mantoa 
essere  fondata  da  toscani,  et  chi  sa  che  gli  Aretini  che  aiutare  Koma  a  vincer 
Kartagine  non  aiutassero  a  fondarla! 

V.  Ex.  si  degni,  piacendole  però  de  scrivere  in  benefitìo  nostro,  indirizzar  la 
lettera  a  me,  perchè  voglio  che  gli  Aretini  col  presentarla  a  Don  Ferrante  pre- 
sentino anco  se  stessi,  et  desidereria  anchor  la  copia  per  consolatione  dei  miei 
cittadini,  et  presto  perchè  le  cose  sono  per  terminare  a  corapiacentia  della  fortuna 
tosto.  E  sia  la  lettera  di  V.  Ex.  di  quelle  che  solete  scrivere,  dolci  et  amorevoli 
et  atte  a  ottenere  la  gratia  adimandata,  che  per  dio  non  mi  è  la  vita  tanto  cara 
quanto  mi  sarà  questo  benefitio.  Oltra  di  ciò  V.  S.  111.°^*  mi  dà  tanta  riputatione 
in  la  patria  e  fuora,  che  più  non  ne  desidero.  Ma  a  che  fine  mi  extendo  in  lungo 
dire  se  io  conosco  la  onnipotente  bontà  del  Duca  di  Mantoa?  Al  quale  bascio 
le  mani. 

Di  Vinetia  xviiu  d'agosto  1530. 

De  V.  S.  Ex.°i^ 

Eterno  et  Obb.n^o  Servitore 


XXXVI. 


Il  Duca  di  Mantova  a  Ferrante  Gonzaga. 

(Copialett.  or  din.,  Lib.  300) 


111.°^  ecc.  Io  mi  sento  tanto  obligato  a  m.  Pietro  Aretino  per  le  immortai  lodi 
che  mi  dà  in  li  suoi  dottissimi  scritti  con  il  raro  ingegno  suo,  che  quantunque 
io  cerchi  di  mostrarmeli  grato  in  ogni  occasione  dove  possi  fargli  piacere  et  comodo, 
non  posso  però  satisfare  a  gran  pezza  l'animo  mio;  et  però  non  potendo  io  solo 
far  quanto  vorrei,  et  essendo  V.  S.  in  luogo  e  termine  di  poter  aiutare  il  desiderio 
mio,  m'ò  parso  pregarla  per  questa  mia  a  far  l'opera  che  ricerco  d'altri,  avenga 
che  anchor  ella  sia  in  parte  debitrice  meco  del  ditto  m.  Pietro  per  li  degni  pre- 
conij  per  lui  celebrati  della  casa  nostra  et  di  nostri  111.™^  progenitori. 


Il  p.^  m.  Pietro,  come  sa  V.  S.,  è  de  la  patria  di  Arezzo  di  Toscana,  città 
antiquissima,  la  quale  è  sempre  stata  fecundissima  di  dottissimi  ingegni  così 
antiqui  come  moderni,  et  egli  come  persona  che  ama  la  patria  sua,  da  la  qual 
merita  esser  non  solamente  amato  ma  honorato,  sta  molto  ansio  che,  per  il  comun 
incendio  di  guerre  sono  state  in  Toscana,  quella  città  oltre  li  danni  che  forse  ha 
patiti  non  patisca  ancora  qualche  incommodo  o  detrimento.  Et  perchè  io  vorrei 
che  l'animo  di  m.  Pietro  fosse  tranquillo  et  imperturhato  per  poter  vacar  meglio 
alli  stadi  et  composi tioni,  per  questa  mia  prego  V.  S.  quanto  più  di  cuor  posso 
che  con  l'autorità  sua  la  voglia  proveder  che  li  Aretini  siano  diffesi  et  riservati 
da  ogni  incommodo  militare,  et  havergli  in  quella  protettione  che  la  haveria 
qualunche  terra  del  Stato  mio,  che  in  ciò  mi  farà  piacer  sing.'»».  Et  haverò  piacere 
che  essi  Aretini  intendano  che  tutto  il  favor  che  se  li  fa  e  farà  sia  fatto  ad 
instantia  mia  per  rispetto  et  a  contemplatione  del  ditto  m.  Pietro.  Et  V.  S. 
sappia  ch'essi  Aretini  le  scranno  fideli'et  obedienti,  et  per  quanto  sono  informato, 
et  V.  S.  lo  deve  haver  visto  con  li  occhi,  loro  sono  stati  fedeli  alla  M.^Ces.*  et 
ossequenti  alli  capitani  di  quella,  anchor  che  forsi  la  fede  loro  sia  stata  tentata 
da  li  inviti  de  Fiorentini  allhora  ohsessi  dall'exercito  imperiale  et  da  qualche 
mali  deportamenti  de  soldati.  Se  li  ossi  et  la  memoria  de  poeti  o  philosophi  ha 
mai  reparato  e  diffeso  alcuna  città  da  l'excidio  e  ruina  appresso  a  generosi  vittori, 
il  rispetto  di  m.  Pietro  merita  questo  favor  da  V.  S.  che  la  patria  sua  le  sia 
raccomandata,  et  tanto  più  non  essendo  stata  contumace  né  nemica  ma  ossequente 
e  fidele.  Ma  essa  V.  S.  lo  farà  anche  per  amor  mio  che  gli  ne  restarò  molto 
obligato,  et  a  lei  mi  offero  e  raccomando. 

Di  Mantova  il  xxiiii  di  agosto  1530. 


XXXVII. 


Il  Duca  di  Mantova  a  P.  Aretino. 

[CopiaìéU.  ordin.,  Lib.  300) 

Mag.<^°  et  dottiss.°  m.  Pietro  mio  dilettiss.o 

Havendo  visto  per  la  lettera  vostra  quanto  mi  ricercati  in  favor  et  raccoman- 
datione  della  patria  vostra,  molto  volentieri  ho  fatto  scriver  la  alligata  al  111.°""'  S"" 
mio  fratello,  de  la  sorte  che  vederete  per  la  copia  che  vi  mando  qui  inclusa.  Se 
conoscete  ch'io  possa  far  altro  per  vui,  per  la  ditta  patria  vostra  avisatime  che 
lo  farò  sempre  di  buon  core  per  l'amor  ch'io  vi  porto.  In  questi  dì  prossimi 
passati  ho  havuto  due  vostre  lettere  le  quali  mi  fumo  gratiss.®  e  fumo  lette  da 
me  con  gran."^''  piacer ,  come  facio  sempre  le  cose  vostre.  Et  ve  rengratio  di 
quanto  in  esse  mi  scrivete,  aspettando  qualche  altra  cosa  piacevole  et  arguta, 
che  se  ben  ve  recordate  me  mettesti  in  aspettatione  di  certe  cose  di  nova  inven- 
tione  et  di  bel  sugetto.  A  vostro  piacer  mi  offero  ecc. 

Mantova  24  agosto  1530. 


—  100  — 


XXXVIII. 


Il  Calandra  alTamh.  Agnello. 

{Minute,  1530) 

Havendo  visto  il  S.  111.°^°  quanto  haveti  scritto  ^)  haver  dicto  m.  P.»  Aretino 
me  ha  commisso  che  ve  scriva  che  li  dicati  da  sua  parte  che  S.  Ex.  intende  che 
non  può  pur  abstenerse  de  dir  male  de  suoi  servitori  et  della  sua  corte,  o  che 
minaccia  di  dire  :  che  li  fa  intendere  che,  se  l'apre  da  mo'  inanti  la  bocca  a  dire 
0  la  mano  a  scrivere  pur  del  minimo  non  solo  de  la  sua  corte  ma  di  Mantova, 
che  ne  restarà  tanto  offeso  come  se  '1  dicesse  di  lei  propria;  et  che  al  corpo  di 
Jesù  Chisto  li  farà  dare  dece  pugnalate  in  mezzo  Realto;  che  l'ha  supportato 
assai  la  sua  maledicentia,  ma  che  se  guardi  che  non  è  per  tollerarlo  più.  Et  se 
se  li  manderà  un  scrittore  non  si  li  manderà  perchè  si  extimi  sue  minacce  '). 
Da  Mantova  16  Sett. 


XXXIX. 

P.  Aretino  al  Duca  di  Mantova. 


ni.™o  S"^  mio 


Veramente  io  vi  sono  un  gran  fastidio  alle  spalle  tutto  il  dì,  ma  non  havendo 
altro  dio  per  i  miei  bisogni  che  il   Duca  clementissimo  di  Mantova  è  forza  a 


1)  €  Le  parole  —  scrive  l'Agnello  in  data  12  sett.  —  che  usò  P.  Aretino  perchè  non  si  mandava 
«  Attilio  (V amanuense  richiesto)  furono  queste  :  che  per  miseria  de  due  scuti  si  restava  di  mandarlo  ; 
«  et  acciò  che  il  S.r  non  havesse  questo  danno  che  lui  li  mandarla  al  Thesorero,  dicendo  che  se  '1  si 
«  metteva  a  dir  si  sentirla  belle  cose  de  la  corte  nostra;  ma  che  '1  voleva  haver  rispetto  al  S.r,  mo- 
«  strando  di  observarlo  più  che  homo  del  mondo,  et  in  eftecto  il  parlar  suo  fu  solamente  contra  li 
«  servitori  et  non  contra  il  S.r.  » 

')  L'Agnello  così  compieva  la  sua  missione  (lett.  21  sett.):  «  Ho  fatto  l'ambassata  a  P.  Aretino; 
«  l'è  ben  vero  che  non  li  ho  detto  che  '1  S.r  li  farà  dar  le  pugnalate  in  mezo  Eialto,  ma  li  ho  par- 
«  lato  di  sorte  che  '1  può  pensare  che  '1  S.r  nostro  li  farà  quello  et  anche  peggio.  Lui  al  principio 
«  restò  muto,  né  sappeva  se  fosse  lui  o  altro,  di  modo  che  cognosco  che  è  entrato  in  gran  filo.  La 
«  resposta  saa  fu  questa  che  il  S.r  non  ha  servitore  alcuno  più  affectionato  di  lui  et  che  l'opere  sue 
«  lo  demonstrano;  et  che  '1  non  sa  haver  ditto  alcuna  cosa  di  Sua  Ex.  né  di  alcun  di  suoi,  pur  anche 
«  quando  l'havesse  detto  qualche  cosetta  che  seria  stato  non  per  dir  male  ma  per  la  gelosia  che  l'ha 
«  di  l'honor  di  sua  Sri»  Illma  dolendosi  che  lei  entri  in  tanta  collera  per  cosa  minima.  Io  non  li  ho 
«  voluto  dire  ch'io  babbi  scritto  di  lui  a  Mantua  et  che  per  quella  causa  il  S.r  sii  entrato  in  collera. 
«  M.  Titiano  era  presente  quando  lui  disse  quel  che  scrissi  de  li  dui  scuti.  »  —  In  un  dispaccio  del 
28  settembre  troviamo  poi  la  seguente  nota  :  —  «  P.  Aretino  m'ha  mandato  questa  lettera,  doman- 
«  dandomi  di  gratia  che  la  voglia  mandare.  Io  l'ho  ricusato  la  prima  volta,  ma  lui  non  è  restato  per 
«  qnefeto  di  remandarmela,  usando  le  più  pietose  parole  del  mondo.  Sappi  V.  S.  che  dapoi  che  '1  cognosco 
*  non  lo  vidi  mai  cosi  afflitto  né  in  tanta  paura,  di  modo  che  si  cognosce  chiaramente  che  il  rebuffo 
«  che  li  ho  fatto  da  parte  del  Sr  ha  fatto  bonissimo  effetto.  »  —  È  certo  che  queste  righe  dell'Agnello 
si  riferivano  alla  lettera  non  conservataci  con  cui  l'Aretino  chiedeva  al  Duca  di  ottenergli  quel  bene- 
fldo  in  Arezzo,  di  che  tratta  il  documento  XL. 


—  101  — 

quello  ricorrere.  Io  non  posso  manchare  a  Vincenzo  Bovetto  di  questa  apportatore 
perchè  l'ho  come  sa  ognuno  allevato.  Egli  è  venuto  a  me  aciò  ch'io  ottenga  da 
V.  Ex.  per  lui  un  luogo  de  lancia  spezzata,  del  che  vi  suplico,  che  dando  il  pane 
a  lui  lo  date  a  me.  Che  egli  sia  homo  da  bene  m.  Paulo  Luciasco  et  Scipione 
ne  ponno  far  fede.  Io  non  ricerco  questa  gratia  per  amico  ma  per  me  istesso. 
Et  si  come  mai  non  mi  venne  meno  la  speranza  nella  Ex.  V.  così  son  certissimo 
che  otterò  quanto  de  core  vi  domando;  et  racomandomi  alla  somma  bontà  di 
quella  et  prego  Christo  che  tanto  mi  presti  vita  quanto  io  sia  utile  alla  gloria 
sua  et  per  altro  non  mi  è  cara  la  vita, 

De  Venetia  Settembre  1530. 

Di  V.  111.'"^  S. 

Perpetuo  Oblig.™»  Sei:yo 
P.  Ar.« 


XL. 
lì  Duca  di  Mantova  a  Francesco  Gonzaga. 

{Copialett.  orditi.,  Lib.  301) 

M.cs  Eques,  Petro  Aretino  ne  fa  intender  che  un  hospitale  di  S.**'  Angustino 
juspatronato  della  Comunità  d'Arezzo  molti  dì  sono  è  che  vaca  per  morte,  qual 
la  S.^*  di  N.  S.  tien  in  sé  di  presente,  pregandone  che  lo  vogliamo  impetrare  per 
farlo  caschar  in  mani  sue  et  recercandone  ad  far  sopra  ciò  gran.™*  instantia  per 
obtener  tal  gratia,  perchè  ne  scrive  che  '1  Papa  non  è  per  darlo  se  non  per  forza. 
Noi  che  voluntieri  vederessimo  compiaciuto  il  ditto  m.  Petro  semo  contenti  che 
voi  con  dextro  modo  dimandati  tal  hospitale  per  esso  m.  Petro  interponendogli 
il  nome  nostro,  simpliciter  pregando  Sua  S.  ad  voler  fare  senza  preiudicio  a  cosa 
alcuna,  et  essendo  con  sua  bona  satisfatione,  facendogli  intendere  che  per  il  p.*" 
m.  Petro  semo  recercati  ad  far  fare  questo  officio,  servando  talli  termini  che  la 
p  ta  g  ta  liberamente  possi  risponder  l'animo  suo.  Et  bene  valete.  Mantue  XXVIII 
sept.  1530. 

Post.  In  caso  che  la  S.  di  N.  S.  non  voglia  condescendere  a  dar  tal  benefitio 
a  m.  Petro,  qual  è  d'entrata,  per  quanto  mi  scrive,  di  quatrocento  ducati  re- 
spondetice  che  haveti  fatto  gagliardissimo  officio,  ma  che  '1  Papa  ha  fatto  le 
scuse  che  farà  Sua  S.^*  et  di  manera  che  per  la  ditta  risposta  il  p.^°  m.  Petro 
cognosca  che  l'habbiamo  servito  con  ogni  caldezza  ^). 


1)  L'ambasciatore  rispondeva  subito  al  Duca  (7  ottobre)  che  non  avrebbe  mancato  «  di  far  Toffieio 
con  la  dexterità  et  efficacia  che  si  conviene  »;  ma  il  giorno  stesso  scriveva  al  Calandra:  <  A  dire  il 
«  vero  simili  bocconi  non  sono  per  uno  suo  pare...  S.  B.  non  darà,  un  beneficio  tale  se  è  de  valuta 
«  de  400  ducati  a  molto  maggiore  homo  di  lui...  Ma  egli  è  ben  tanto  impudente  che  non  se  vergo- 
«  gnaria  de  torre  una  simile  cosa;  pazzo  che  gli  è.  » 


—  102  — 


XLI. 


Dispaccio  delVamh.  Agnello  al  Calandra. 

Venezia  1530. 

4  ottobre  «  Poi  che  P.  Aretino  non  può  tacere,  certamente  merita  che  '1  pol- 
trone sia  castigato.  Il  S"*  Abbate  nel  partir  suo  de  qui  me  disse  qualche  cosa  de 
quel  che  l'haveva  inteso  dal  S"^  Conte  Guido  (Rangoni)  et  per  questa  causa  ho 
deliberato  di  non  voler  pratica  nò  comertio  alcuno  seco.  Come  scrissi  l'altro  di  ^) 
a  V.  S.  il  gaiofio  era  venuto  a  retrovarmi,  et  narrandomi  le  sue  desgratie  del 
bardassa  et  de  li  altri  che  li  erano  fugiti  ^)  se  invitò  de  voler  star  meco  fin  che 
s'havesse  provisto  d'altri  servitori,  ma  gli  feci  tal  resposta  che  subito  se  partì  ». 


XLII. 
L'ambasciatore  F.  Gonzaga  al  Duca. 

In  executione  di  quanto  V.  Ex.  mi  ha  imposto  a  questi  dì,  per  le  lettere 

sue  di  XXVIII  del  passato,  questa  matina  mi  sono  appresentato  a  N.  S.  et  con 
quel  più  dextro  modo  che  ho  saputo  ho  exposto  a  S.  S.^  che  havendo  V.  Ex. 
inforraatione  come  ella  ha  in  petto  la  collatione  del  Hospitale  di  S.  Angustino 
iuspatronato  della  comunità  d'Arezzo,  vacato  già  alcuni  giorni  sono,  la  sup- 
plica con  la  maggior  efficacia  che  può  ad  voler  essere  contenta  di  conferirlo  in 
la  persona  di  m.  Pietro  Aretino,  che  oltre  il  gratificare  che  S.  B.  farà  uno  che 
li  è  stato  antico  e  devoto  servitore,  V.  S.  111.°^"  lo  riceverà  in  singular  gratia  et 
le  ne  bavera  molto  obligo  per  l'amor  ch'ella  porta  a  esso  m.  Pietro  et  per  il  desi- 
derio che  la  tiene  d'ogni  bene  et  commodo  suo  :  et  sopra  ciò  mi  son  exteso  quanto 
ho  indicato  in  proposito.  S.  S.**  mi  ha  risposto  esser  vero  che  già  sono  presto 
tre  mesi  che  vacò  il  detto  Hospitale,  il  quale  le  fu  dimandato  da  una  frotta  di 
persone,  et  lo  tenne  sospeso  alcuni  giorni:  finalmente  per  levarse  questo  fastidio 
da  le  spalle,  la  lo  conferì,  di  modo  che  non  è  più  in  arbitrio  suo  de  disporne; 
ma  che  quando  fosse  vero  che  lei  lo  havesse  in  libertà  sua,  la  farla  tal  dimo- 
stratione  in  testimonio  della  extiraa  ch'ella  faccia  delle  reccomandationi  di  V.  Ex. 
che  m.  Pietro  cognosceria  tale  officio  esserli  stato  proficuo.  Io  non  ho  saputo  che 
replicare  altro,   se  non  basare  il  piede  a  S.  B.  per  nome  di  quella,   del  buono 


1)  Manca  questa  lettera  anteriore. 

■)  Su  queste  fughe  di  serTitori,  che  capitarono  spesso  all'Aretino,  e  sempre  con  lo  svaligiamento  com- 
pleto della  sua  casa,  cfr.  la  Vita,  falsamente  attrihuita  al  Berni,  Opere,  ed.  Daelli,  p.  192,  e  Mamu- 
CHZLU,  p.  89. 


—  103  - 

animo  che  la  tiene  di  farle  piacere.  Mi  è  parso  prima  che  si  facci  questo  spazzo 
dar  aviso  di  ciò  a  V.  Ex.  sapendo  ch'ella  sta  in  molta  expettatione  di  questa 
risposta 1). 

Roma  11  ottobre  1580. 


XLIII. 
P.  Aretino  aWamb.  Agnello  '). 

Signor  Imbasciatore 

Dignatevi  di  ringratiar  il  S.  Duca  della  opera  amorevole  fatta  per  me  con 
N.  S.,  che  per  dio  Sua  Ex.  non  manca  mai  della  solita  bontà  verso  i  suoi  servi- 
tori e  n'ho  havuta  quella  allegrezza  che  se  io  havessi  ottenuta  la  gratia,  et  sono 
aricchito  dello  animo  buono  di  Sua  Ex.,  et  dio  mi  conservi  la  gratia  sua  che 
non  mi  mancherà  da  vivere.  Ditegli  che  gli  mandarò  fra  quattro  dì  i  Triomphi 
fatti  a  Milano  ')  che  gli  daranno  più  solazzo  che  chi  gli  ha  visti  in  persona,  ma 
con  patto  che  stieno  secreti,  altrimenti  non  gli  mandarò.  Ditegli  anchora  che  '1 
Duca  Alexandro  de  Medici  d'Augusta  mi  ha  con  grande  amore  scritto  deside- 
randomi ai  suoi  servigi,  et  io  ho  risposto  a  Sua  S."*  M.»  che  finito  l'opra  del 
mio  Duca  di  Mantoa  andrò  a  servirlo  se  il  Duca  di  Mantoa  mi  darà  licentia.  Al 
quale  son  obi™"  in  eterno 

Servitor  P.^  Ar.°o. 


XLIV. 
Dispacci  delVamb.  B.  Agnello. 

Venezia  1531-83. 

5  febbr.  1531  {Al  Duca).  «  Non  beri  l'altro  di  sera  essendose  partito  il  ca- 
vallier  Mainoldo  *)  dal  suo  alloggiamento  per  andare  a  casa  de  Vincentio  Vallente 
al  quale  havea  prestati  alcuni  denari  et  certe  robbe  con  dissegno  di  farsele  resti- 
tuire, il  povero  homo  gionto  ad  un  loco  che  si  chiama  S.^o  Cassano  fu  tolto  suso 


1)  Fa  mandata  subito  copia  conforme  all'amb.  Agnello  perchè  la  comunicasse  all'Aretino  «  con  dirli 
«  che  a  noi  incresce  che  non  sia  stato  compiaciuto;  che  dal  canto  nostro  non  è  mancato  de  far  l'opera 
«  efflcacemente.  »  {Copialeti.,  Lib.  301). 

*)  Acclusa  in  una  lettera  dell'ambasciatore  al  Duca,  con  quest'avvertenza  (Venezia,  24  ott.  1530): 
«  Petro  Aretino  ha  visto  la  resposta  fatta  dal  M'^°  m.  Francesco  Gonzaga  circa  quel  beneficio  :  lui  me 
«  ha  scritto  questa  police  la  quale  ho  voluto  mandar  a  V.  Ex.  acciò  che  la  veda  quanto  esso  Aretino 
«  resti  ben  satisfatto  de  l'opera  che  quella  ha  fatto  per  farli  bavere  il  ditto  beneficio.  » 

')  Il  Duca  di  Milano  entrato  a  Venezia  il  12  ottobre  vi  era  stato  accolto  con  grandissime  feste: 
regate,  battaglie  navali,  ecc.  Su  che  veggasi  V Appendice  IV. 

*)  È  quel  Mainoldo  antiquario  mantovano  che  l'Aretino  deride  più  volte  e  fra  l'altre  in  una  lettera 
al  Duca  Federico  dove  lo  chiama  «  pecora  gioiellata.  »  Lettere,  I,  22. 


—  104  — 

di  peso  et  portato  su  un  ponte,  dal  quale  fu  buttato  gioso  in  canale,  di  modo 
che  è  quasi  miraculo  che  '1  non  se  sii  anegato  overo  che  non  se  habbi  rotto  il 
collo.  Dapoi  essendo  tornato  a  l'hostaria,  entrato  ne  la  sua  camera  per  spogliarse 
et  mutarsi  de  panni,  alcuni  pistoiesi  forausciti  mostrando  d'haverli  compassione 
lo  volsero  aiutare  a  spogliarse,  et  mentre  che  li  erano  d'intorno  li  robborono  la 
medaglia  che  l'havea  suso  la  beretta  et  la  borsa  anchora,  in  la  quale  non  havea 
denari  ma  vi  erano  però  gioie,  le  quali  il  p.^°  Mainoldo  dice  che  sono  di  gran 
valuta.  Se  questo  povero  homo  non  si  leva  de  qui,  dubito  che  una  notte  sera 
suffocato.  La  causa  è  che  '1  si  fa  il  più  richo  homo  de  gioie  et  de  dinari  che  sii 
al  mondo  et  lo  va  predicando  ad  ogniuno.  Lui  dà  la  colpa  di  questo  tratto  che 
li  è  sta' usato  a  quelli  pistoiesi  che  alloggiavano  seco  a  l'hostaria,  perchè  subito 
se  ne  fuggirono,  dicendo  che  l'hanno  fatto  ad  instantia  di  Petro  Aretino  ^).  Io 
l'ho  persuaso  et  pregato  ad  voler  venire  a  Mantua,  ma  il  mio  parlare  è  invano.  » 

23  febbr.  {Al  Calandra).  «  P.  Aretino  si  dole  di  m.  Ticiano  et  di  me,  dicendo 
che  noi  siamo  stati  quelli  che  l'ha  posto  in  disgratia  del  S.""  nostro  111.°^".  Lui 
m'ha  mandato  a  mostrare  una  lettera  del  figliolo  di  m.  Jeanne  Eove,  per  la 
quale  lui  li  scrive  che  '1  matrimonio  tra  il  S.'"  nostro  et  la  figliola  di  M..^^  di 
Monferrato  bavera  effetto  et  lo  invita  alle  nozze  dicendo  che  certa  lettera  che 
esso  Petro  havea  scritto  circa  ciò  era  stata  molto  efficace  et  havea  disposto  molto 
forte  la  p.^  Madama  al  ditto  matrimonio.  Di  novo  esso  Petro  scrive  a  Sua  Ex. 
et  me  ha  ricercato  che  voglia  mandare  copia  de  la  lettera  che  scrive  in  mano  di 
persona  che  la  mostri  al  S."*  nostro.  Cosi  la  indrizo  a  V.  S.  acciò  che  parendoli 
la  possi  farla  vedere  a  Sua  Ex.  » 

31  agosto  {Al  Duca).  «  Mando  a  V.  Ex.  copia  d'uno  scritto  capitato  nova- 
mente  alle  mie  mani  fatto  dal  Aretino:  ho  anche  inteso  alcune  altre  cose  che 
egli  va  dicendo,  de  le  quali  V.  Ex.  sera  informata  dal  111™°  S."^  Aloysi  di  Ca- 
stione.  > 


11  novembre  {Al  Calandra).  «Il  Maraveglia,  comò  dissi  a  V.  S.  venne  qui, 
anco  molto  aspettato  dall'Aretino,  al  quale  pare  che  il  p.^  promettesse  che  il 
Christianissimo  gli  farebbe  un  presente,  né  essendo  reuscito  ha  mostro  volerla 
con  esso  Aretino  et  fattolo  minacciare  con  dire  che  ha  sparlato  del  Re,  et  oltra 
questo  ha  spinto  l'oratore  di  Pranza  in  Collegio  che  si  doglia  che  il  p.^  habbi 
sparlato  et  sparli  del  X."""  et  ha  operato  che  la  Signoria  l'ha  mandato  ad  exhor- 
tare  che  'l  taccia,  tale  che  dove  l'Aretino  de  sua  venuta  expettava  remuneratione 
de  alcune  lettere  che  ad  instantia  del  detto  Maraveglia  havea  scritto  a  quella 
Maestà  ha  riportato  minaccio  con  rinovare  le  cose  vecchie  et  passate  de  molti 
mesi,  le  quali  erano  fori  della  memoria  del  detto  Aretino  che  forsi  farà  pensiero 
de  ripensarci  ').  > 


')  Questo  tiro  birbone  ad  un  suo  suddito  dovè  forse  determinare  la  completa  rottura  del  Duca  con 
l'Aretino,  che  probabilmente  non  a  torto  era  incolpato  dal  Mainoldt». 
*)  La  lett.  ò  di  mano  di  Antonio  Oaratono,  segretario  dell'Agnello. 


—  105  — 

13  die.  1532  {Al  med.).  «  L'Arettino  ha  fatto  un  Juditio  sopra  tutti  li  Principi 
Christiani  et  il  Turco,  mordendo  qualunque  d'essi  al  suo  solito,  salvo  che  '1  conte 
Pietro  Maria  da  San  Secondo  alquanto  lodato,  et  cosi  il  Marchese  del  Vasto  et 
l'Illmo  d'Urbino  cosi  a  mezzo  a  mezzo,  et  inalzando  juxta  suo  "potere  el  R."^°  de 
Medici  i),  ciò  causato  per  li  cento  ducati  donatigli  da  Sua  R°^*  S.  quando  l'era 
qui  nella  visita  che  quella  gli  fece  essendo  esso  Arettino  infermo  del  corpo  et 
redutto  all'extremo  della  borsa » 

12  genn.  1533  {Al  med.).  *  Uno  mio  grande  amico  m'ha  detto  haver  letto 
alcune  stantie  novamente  composte  in  laude  del  S/  nostro  111°^°,  l'authore  delle 
quali  non  s'è  indutto  a  farle  perchè  ne  voglia  premio  alcuno,  ma  solo  per  il  vero 

amore  et  aflfettionata  servitù  ch'egli  porta  a  Sua  Ex Ho  fatto  instantia  per 

intendere  chi  è  questo  poeta,  ma  l'amico  non  me  l'ha  voluto  dire Io  credo  che 

questo  poeta  sii  persona  che  desideri  reconciliarsi  col  S/  nostro  parendogli  d'haver 

fatto  jactura  troppo  grande  a  perdere  la  gratia  de  Sua  Ex So  ben  certo  che 

l'Aretino  ha  tenuto  molte  vie  per  persuadermi  ad  voler  far  opera  de  restituirlo 
alla  bona  gratia  del  S.*"  ').  » 


1)  «  Non  vuole  —  scriveva  Fausto  da  Longiano  all' A.  il  30  die.  1582  —  non  vuole  il  Reverendis- 
«  Simo  Medici  che  '1  giudicio  di  Pasquino  di  quest'anno  si  divulghi,  per  li  rispetti  (come  voi  ben  sa- 
«  pete)  che  sono  infiniti.  »  Leti,  all' A.,  I,  208.  Il  Cardinale  però  aveva  trovato  il  giudizio  «  divino  » 
e  ne  aveva  avuto  a  «  sgangherare  »  (ibid.,  p.  148;  lett.  28  die.  1582  del  Porretto).  Malgrado  il  suo 
desiderio,  il  giudizio  ebbe  pubblicità,  come  appare  dalla  lettera  dell'amb.  mantovano. 

•)  Falliti  questi  tentativi  l'A.  decise  di  vendicarsi;  e  Niccola  de' Maffei,  scrivendogli  da  Mantova 
il  19  maggio  1534,  lo  scongiurava  a  rabbonirsi.  «  Ho  visto  la  littera  di  V.  S.  che  in  vero  mi  duole 
«  fin  a  l'anima  della  terminatione  in  che  la  cognosco,  perchè  il  vendicarsi  centra  un  buon  Principe 
«  come  il  signor  Duca  non  lo  laudarò  mai  e  ne  prìego  quanto  posso  Y.  S.  a  volersi  acquietare.  » 
Lett.  alVA.,  I,  197. 


APPENDICE 


I. 


L'Aretino   pittore. 


n  D'Ancona,  accennando  agli  strambotti  dell'Aretino,  sfuggiti  alle 
sue  ricerche  i),  scriveva  d'aver  rinvenuto  nella  Marciana  una  stampa 
di  poesie  popolari  d'un  Pietro  Aretino  pittore.  Chi  è  costui?  doman- 
dava. Null'altri,  rispondiamo,  che  Pietro  Aretino.  —  La  stampa  ha 
questo  titolo:  Opera  nova  del  fecundissimo  giovene  Pietro  Pictore 
Arretino^  zoè  strambotti^  sonetti^  capitoli^  epistole,  barzellette^  et 
una  desperata;  e  in  fine;  Impresso  in  Venetia  per  Nicolò  Zopino 
nel  MCCCCCXII  a  dì  XXII  de  Zenaro.  Sul  frontispizio  una 
rozza  incisione  vuol  rappresentare,  a  quanto  sembra,  un  poeta  coronato 
da  una  donna.  «  L'auctore  a  li  legenti  »  cifre  in  quattro  righe  di 
prefazione  queste  poche  cose  «  facto  in  uno  quasi  istante  »  ;  consi- 
gliando chi  s'annoiasse  di  vender  pure  il  libretto  «  a  li  salsamentarij 
«  per  involugrarci  »  della  roba;  e  finisce  dichiarando  di  preluder  con 
questo  «  a  un  altro  già  comenzato  opuscolo  ». 

Gli  strambotti,  sonetti,  capitoli,  e  il  resto  non  offron  nulla  di  note- 
vole :  sono  stucchevoli  rifritture  de'  soliti  luoghi  comuni  della  falsa 
poesia  popolare,  una  servile  imitazione  da  Serafino  Aquilano,  che 
viene  appaiato  con  Dante  («  Più  non  vai  Dante  o  il  terso  Serafino  »). 
Ma  il  primo  de'  sonetti  è  importante,  perchè  ci  permette  di  stabilire 
che  l'autore  dev'essere  veramente  il  nostro  Aretino.  Finiti  gli  stram- 
botti, a'  sonetti  è  premessa  questa  avvertenza  ;  «  Alquante  cose  de  uno 
«  adolescente  Aretino  Pietro,  studioso  in  questa  facultà  {sic)  et  in 
«  pictura  ».  E  segue  un  sonetto,  in  cui  l'autore  dichiara  di  perigliarsi 


*)  La  poesia  pop.  it,  Livorno  1878,  p.  135  n. 


—  no  - 

timidamente  col  suo  piccolo  legno  nel  mare  della  poesia,  mosso  a  can- 
tare, non  già  da  speranza  d'alloro, 

Ma  sol  per  satisfar  quel  che  più  deggio 

Francisco  de  Bon  tempi  perusino  *) 

Che  per  altri  occhi  al  mondo  più  non  veggio. 
E  lui  fia  scorta  col  [suo]  terso  latino 

E  fida  tramontana  al  piccol  seggio 

Del  rude  socio  suo  Pietro  Aretino. 

Or  bene,  l'Aretino  nel  1512  era  a  Perugia,  e  giovanissimo.  Chi  altri 
che  lui  do vrebb' essere  questo  adolescente  Pietro  Aretino  Pictore  che 
dedica  le  sue  prime  fatiche  a  un  perugino  e  si  dice  «  studioso  in  questa 
facultà  »  cioè  in  quell'ateneo?  —  Ma,  che  l'Aretino  avesse  cominciato 
come  «  studioso  in  pittura  »  si  rileva  da  altre  più  esplicite  testimo- 
nianze, per  non  dire  di  quella  indiretta  che  viene  dalla  sua  grande 
famigliarità  con  tutti  gli  artisti  più  insigni,  e  dalla  sua  incontra- 
stabile intelligenza  in  materia  d'arte.  Il  Sanudo,  nel  cit.  cod.  marciano 
ci.  IX  it.,  n°  369,  ci  ha  conservato  (a  e.  214  v)  un  «  Capitolo  centra 
«  Pietro  Aretino  posto  sopra  una  coIona  a  Kialto  di  novembre  1532  2)  ». 
È  una  invettiva  atroce  contro  il  povero  Pietro,  che  si  trovava  in  un 
brutto  quarto  d'ora,  pieno  zeppo  di  debiti,  e  costretto  non  solo  a  rin- 
tanarsi in  casa  per  sfuggire  a'  creditori ,  ma  col  pericolo  anche  di 
esser  messo  sul  lastrico  dal  padrone  a  cui  non  pagava  il  fitto.  Tutti 
gli  sono  addosso,  e  il  poeta  lo  sfida  a  venir  fuori:  «  Esci,  Aretin,  di 


*)  Nel  primo  libro  delle  Lettere  dell'Aretino  ve  n'è  una,  del  28  genn.  1536  (p.  48) 
a  un  m.  Francesco  Buoncambi,  che  supponiamo  debba  essere  questo  stesso  Buon- 
tempi. L'Aretino  infatti,  dopo  aver  espresso  «  quale  e  quanta  sia  la  dolcezza  de  le 
prime  amicitie  » ,  parla  delle  condizioni  di  Perugia  e  delle  discordie  ond'è  lacerata, 
dando  generosi  consigli  perchè  «  la  città  vostra  —  dice  al  Buoncambi  —  ...  si  scordi 

<  che  cosa  sieno  parti,  et  uniti  insieme  i  cittadini  suoi  godino  ecc.  »  Abbiamo 
dunque  un  perugino  e  un  amico  di  giovanezza,  cosi  in  Francesco  Buoncambi  come 
in  Francesco  Buontempi.  Non  è  legittimo  supporre  che  sia  avvenuto  nella  inte- 
stazione della  lettera  uno  di  quegli  errori  di  nome,  di  cui  non  mancano  esempi 
nell'epistolario  areti  nesco? 

*)  Ne'  suoi  Diarii,  poi,  il  Sanudo  notava  sotto  il  giorno  29  nov.  1532:  «  In 
«  questa  terra  è  sta  principiato  a  far  cosa  die  non  laudo  et  è  che  volendo  inmitar 
«  quello  si  fa  a  Roma  a  Pasquin  >,  in  Rialto  sopra  coione  vien  la  note  posti  varij 

<  sonetti  et  capitoli;  prima  fu  j»  ìsto  centra  Pietro  Aretino,  el  qual  in  versi  et 
«  prosa  dice  volentiera  mal  di  8Ì;,'nori  et  altri,  et  cusì  io  li  vidi  li  verssi  et  molti 
€  li  copiorono...  »  Citato  dal  Rossi,  Le  lettere  di  m.  Andrea  Calmo;  Torino, 
Loescher  1888,  p.  87. 


—  Ili  — 

«  la  solinga  tana  »,  invocala  tua  Mar  fisa  (l'eroina  del  poema  incom- 
piuto) perchè  ti  difenda  contro  i  creditori  ; 

Non  è  banca 

Non  è  botiga  a  farti  credenza 

Che  non  sia  [al  dì]  d'ozi  dannigiata  e  stanca. 

Ma  presto,  soggiunge,  ti  capiterà  peggio  :  d'essere  cioè,  sfrattato  di 
casa  dal  padrone,  insofferente  di  vane  promesse;  ed  ecco  la  conclu- 
sione : 

0  quanto  ti  saria  più  frutto  e  lodo 
Non  havessi  lassato  il  tuo  pennello, 
Se  pyntor  fustu  un  tempo,  come  io  odo, 

Che  voler  diventare,  o  meschinello 
Di  maestro  poeta 

per  finire  a  morir  di  fame  sopra  un  ponte. 

È  facile  immaginare  perchè  l'Aretino,  così  petulante  nel  parlare 
de'  fatti  propri,  nascondesse  con  geloso  silenzio  questi  tentativi  falliti 
della  sua  giovinezza  nella  pittura.  Avrebbe  avuto  di  certo  ingegno  e  atti- 
tudini non  comuni  per  riuscirvi  eminente,  come  lo  provano  le  sue  let- 
tere artistiche,  ammirate  anch'oggi  da  critici  insigni  ^),  ma  per  raggiun- 
gere il  magistero  dell'arte  occorreva  una  costanza  di  lavoro  e  di  studio, 
troppo  lontana  dal  suo  spirito  irrequieto  e  vagabondo,  e  finì  quindi 
per  trovare  più  agevole  il  darsi  a  scribacchiare ,  mettendo  a  partito  il 
rozzo  ingegno  naturale,  speculando  sulla  potenza  di  una  nuova  forza, 
la  stampa.  Egli  anticipa  il  nostro  giornalista  bohème^  il  nostro  critico 
di  mestiere,  che  avendo  più  o  meno  sporcato  qualche  tela  ha  creduto 
meglio  di  smettere,  e  di  impancarsi  a  giudice  degli  altri;  vive  tra 
gli  artisti,  sfrutta  le  loro  rivalità,  i  loro  interessi.  Da  questi  critici 
d'oggi  all'Aretino,  v'è  la  stessa  differenza  che  dal  nostro  al  suo  secolo 
in  fatto  d'arte;  l'Aretino  veniva  tra  quella  superba  fioritura  artistica 
del  Kinascimento,  e  in  qualche  modo  era  pur  degno  dell'amicizia  di 
Tiziano,  del  Sansovino,  di  Sebastiano  del  Piombo,  del  Sodoma,  di 

Giovanni  da  Udine,  di  Giulio  Komano se  non  dello  stesso  Raffaello 

e  della  grand'anima  di  Michelangelo  ^). 


*)  Basti  nominare  il  Taine,  Voyage  en  Italie,  II,  339. 
')  Cfr.  Dolce,  L'Aretino,  ovvero  Dialogo  della  Pittura,  Milano  1863,   p.  6; 
e  lo  studio  del  Ddmesnil,  Mist.  des  plus  célèbres  amateurs  italiens,  Parigi  1853. 


112 


IL 


Il   sacco   di  Roma 

descritto  nei  «  Bagionamenti  »   dell'Aretino. 


Nella  seconda  giornata  della  seconda  parte  de'  Ragionamenti  «  ne 
«  la  quale  la  Nanna  racconta  a  la  Pippa  i  tradimenti  che  fanno  gli 
«  huomini  a  le  meschine  che  gli  credono  »  l'Aretino  ha  descritto  il 
sacco  di  Koma,  innestando  la  narrazione  ad  una  bizzarra  parodia  che 
ha  voluto  fare  dell'episodio  virgiliano  di  Didone  ;  dove  camuffa  a  suo 
modo  con  sguaiata  destrezza  le  ispirazioni  patetiche  del  cantor  del- 
V Eneide.  È  una  delle  pagine  piti  curiose  de'  Bagionamenti^  che 
amiamo  staccare  da  questo  libro  tanto  vituperato  quanto  mal  noto. 

Nanna.  Un  barone  romanesco,  non  romano,  uscito  per  .un  buco  dal  sacco  di 
Roma,  come  escono  i  topi,  essendo  in  non  so  che  nave  fu  gittato  con  molti  suoi 
compagni  da  la  bestialità  de'  venti  pazzi  al  lito  di  una  gran  cittade,  de  la  quale 
era  padrona  una  signora,  che  non  si  può  dire  il  nome  ;  et  andando  ella  a  spasso 
vide  il  povero  huomo  sceso  in  terra  molle,  rotto,  smorto,  rabbuffato  e  più  simile 
a  la  paura  che  non  è  a  la  furfanteria  la  corte  d'hoggi  dì;  e  peggio  era  che  i 
villani  credendolo  qualche  grande  spagnuolo  gli  stavano  intorno  per  far  di  lui 
e  de'  compagni  quel  che  in  un  bosco  fanno  i  malandrini  di  chi  senza  armi  ha 
smarrito  la  strada.  Ma  la  signora,  cacciatigli  a  le  forche  con  uno  alzar  di  testa, 
se  gli  fece  incontra  e  con  aspetto  gratioso  e  con  atto  benigno  lo  confortò,  et 
adagiatolo  nel  suo  palagio  fece  ristorare  la  nave  et  i  navicanti  più  che  signo- 
rilmente, e  visitato  il  barone,  il  quale  s'era  tutto  rihavuto  stette  ad  udire  il 
proemio,  la  diceria,  il  sermone  e  la  predica  che  le  fece  dicendo  che  egli  si  scor- 
deria de  la  sua  gentilezza  quando  i  fiumi  correranno  a  lo  insù  (huomini  tra- 
ditori, huomini  bugiardi,  huomini  falsi).  E  mentre  frappava  romanescamente,  la 
meschina,  la  poveretta,  la  sempliciotta  se  lo  beveva  con  gli  sguardi;  e  rimiran- 
dogli il  petto  e  le  spalle  stupiva,  fornendosi  di  traboccar  di  maraviglia  nel  con- 
templare l'alterezza  de  la  sua  faccia,  i  suoi  occhi  pieni  di  honore  la  facevano 
sospirare,  et  i  capegli  di  niello  anellato  perdersi  a  fatto  a  fatto:  né  si  potendo 
tórre  dal  vagheggiar  la  sua  gentil  persona,  né  da  la  gratia  datagli  da  quella 
porca  de  la  natura,  stava  tutta  astratta  ne  la  divinità  de  la  sua  cera,  che  raa- 
ladetta  sia  la  cera  et  il  mele. 

Pippa.  A  che  proposito  maladirla? 

Nanna.  Elle  tradiscono  bene  spesso,  elle  ingannano  il  più  de  le  volte,  e  me 
ne  è  testimonio  la  presenza  del  Barone,  la  quale  fece  diventar  corriva  la  signora 


-  113  — 

che  io  dico.  Ella  in  meno  che  non  si  muta  di  fantasia  una  donna  fece  appa- 
recchiar le  tavole,  e  sendo  in  punto  la  realissima  cena  si  pose  a  sedere  col 
messere  a  lato,  e  gli  altri  suoi  e  de  la  terra  di  mano  in  mano  secondo  l'ordine 
di  Melchisedeche.  Intanto  la  magnificenza  de'  piatti  d'ariento  carichi  di  vivande 
son  portati  inanzi  agli  affamati  da  la  moltitudine  de'  servidori,  e  finito  di  satiar 
l'appetito  il  Barone  presentò  la  Signora. 

Pippa.  Che  le  diede  egli? 

Nanna.  Una  mitrea  di  broccatello  che  Sua  Santità  portava  in  capo  il  dì  de 
la  cenere,  un  paio  di  scarpe  con  lavori  di  nastro  d'oro,  le  quali  teneva  in  piedi 
quando  Gian  Matteo  *)  gliene  basciuccava,  il  pastorale  di  Papa  Stoppa ,  volli 
dir  Lino,  la  palla  de  la  Guglia,  una  chiave  strappata  di  mano  al  San  Pietro 
guardiano  de  le  sue  scale,  una  tovaglia  del  tinello  secreto  di  palazzo,  e  non  so 
quante  reliquie  di  santa  santorum,  le  quali  la  sua  prosopopeia,  secondo  lo  sba- 
iaffar  ')  suo,  haveva  scampato  di  mano  de'  nemici.  In  questo  comparse  un  va- 
lente ribichista  et  accordato  lo  stormento  cantò  di  strane  chiacchiere. 

Pippa.  Che  cantò  se  Iddio  vi  guardi? 

Nanna.  De  la  nimicitia  che  ha  il  caldo  col  freddo  et  il  freddo  col  caldo; 
cantò  perchè  la  state  ha  i  dì  lunghi  et  il  verno  corti,  cantò  il  parentado  che 
ha  la  saetta  col  tuono  et  il  tuono  col  baleno,  il  baleno  col  nuvolo  et  il  nuvolo 
col  sereno;  e  cantò  dove  sta  la  pioggia,  quando  è  il  buon  tempo,  et  il  buon 
tempo  quando  è  la  pioggia;  cantò  de  la  gragnuola,  de  la  brina,  de  la  neve,  de 
la  nebbia;  cantò  secondo  me  de  la  camera  locanda  che  tiene  il  riso  quando  si 
piangne,  e  di  quella  che  tiene  il  pianto  quando  si  ride;  et  in  ultimo  cantò  che 
fuoco  è  quello  che  arde  il  culo  de  la  lucciola  e  se  la  cicala  stride  col  corpo  o 
con  la  bocca. 

Pippa.  Bei  secreti! 

Nanna.  Già  la  signoria  de  la  Signora,  che  udì  il  cantare  come  odono  il  chi- 
rieleisonne  i  morti,  si  era  imbriacata  de  la  ciarla  e  de  la  galantaria  del  suo 
hoste,  e  parendole  tanto  vivere  quanto  egli  ciurmava  cominciò  ad  entrare  nei 
Papi  e  ne'  Cardinali;  dopo  questo  venne  a  supplicarlo  che  li  piacesse  contare  in  che 
modo  l'astutia  pretesca  si  lasciò  incappare  ne  le  unghie  di  Malebranche.  Allora 
il  Barone  volendo  ubidire  ai  comandamenti  de  la  sua  supplica,  traendo  uno  di 
quei  sospiri  che  malandrinamente  escono  dal  fegato  d'una  puttana  che  vede  una 
borsa  piena,  disse  :  da  che  tua  altezza,  Signora,  vuole  che  rammenti  quello  che 
mi  fa  portare  odio  a  la  mia  memoria  che  se  ne  ricorda,  io  ti  narrerò  come  la 
imperadrice  del  mondo  diventò  serva  degli  Spagnuoli,  e  dirotti  ancho  quel  che 
io  vidi  di  miseria.  Ma  qual  marrano,  qual  tedesco,  qual  giudeo  sarà  sì  crudele 
che  racconti  cotal  cosa  ad  altrui  senza  scoppiar  di  pianto?  Poi  soggiunse:  Si- 
gnora, egli  è  hora  di  dormire,  e  già  le  stelle  spariscono  via,  pure  se  la  tua  vo- 
lontà è  di  sapere  i  nostri  casi,  se  bene  mi  rinovano  i  dolori  a  dirgli,  comincierò. 

Così  dicendo  entrò  ne  la  gente  che  per  avanzar  dieci  ducati  fa  cassa.  Poi 
venne  a  la  novella  che  udì  Eoma  dei  Lanzi,  e  dei  giuradii  '),  quali  ne  venivano 


1)  Giberti. 

')  Voce  di  conio  aretinesco:  cicalare. 

')  Spagnoli. 

Ldzio  —  Pietro  Aretino 


—  114  — 

a  bandiere  spiegate  per  farla  coda  mundi.  Onde  diceva  l'uno  a  l'altro:  toglie 
garabattulo  tuo  et  ambula  ;  e  certo  ognuno  la  dava  per  le  magesi,  se  quel  bando 
traditore  de  lo  a  pena  de  le  forche  non  andava.  Egli  contò  come  dopo  il  bando 
la  gente  avilita  si  diede  ad  appiattare  i  denari,  gli  arienti,  le  gioie,  le  collane, 
i  vestimenti  e  tutte  le  cose  di  valuta;  contò  come  i  capjjannelli  et  i  cerchi  degli 
huomini  sparsi  e  raccolti  in  qua  et  in  là  dicevano  di  chi  era  cagione  de  la  lor 
paura  quello  che  gli  pareva.  Intanto  i  rioni  et  i  caporioni  e  la  peste  che  gli 
giunga  andavano  zanzeando  con  le  fila  de'  fanti;  e  certo  se  la  valenteria  fosse 
stata  ne'  bei  giubboni,  ne  le  belle  calze  e  ne  le  spade  indorate,  gli  Spagnardi 
et  i  Todescardi  erano  i  malvenuti.  Contò  il  Barone  come  un  Romito  *)  gridava 
per  le  strade  :  fate  penitenza,  preti  ;  fatela,  ladri,  e  chiedete  misericordia  a  Iddio, 
perchè  l'hora  del  vostro  castigo  è  presso,  ella  è  giunta,  ella  suona.  Ma  la  lor 
superbia  non  havea  orecchie,  e  perciò  gli  Scribi  et  i  Pharisei  apparsero  a  la 
croce  di  Monte  Mario  —  diceva  egli  —  e  dando  il  sole  ne  l'armi  loro,  il  lume 
bestiale  che  ne  usciva  faceva  tremare  i  merloni  corsi  su  per  le  mura  con  altro 
spavento  che  non  fa  il  balenar  de'  tuoni.  Tal  che  questo  e  quello  non  pensava 
più  al  modo  di  rompere  chi  gli  veniva  contro,  ma  adocchiava  le  tane  per  na- 
scondersi. In  questo  il  remore  si  lieva  al  monte  di  Santo  Spirito,  et  i  nostri 
belli-in-piazza  nel  primo  assalto  fecero  come  un  che  s'imbatte  a  fare  una  cosa 
che  mai  più  la  fa  sì  buona.  Dico  che  amazzàr  Borbone,  e  guadagnato  non  so 
quante  banderiuole  le  portarono  a  palazzo  con  un  viva  viva  che  assordava  il 
cielo  e  la  terra;  e  mentre  gliene  pareva  haver  vinto,  ecco  rotte  le  sbarre  del 
monte,  e  fatto  pasticcio  di  molti  che  non  havevano  nò  colpa  né  peccato^  ne  le 
battaglie  scorsero  in  Borgo.  Onde  alcuni  de'  nimici  passarono  il  ponte,  et  andato 
fino  in  Banchi  ritornarono  indietro;  et  dicesi  che  la  buoAa  memoria  di  Castello, 
nel  quale  era  scampato  l'amico  ^},  non  gli  sbombardò  per  due  conti  :  uno  per  mi- 
seria di  non  gittar  via  le  pallottole  e  la  polvere,  l'altro  per  non  fargli  adirare 
più  che  si  fossero,  attendendo  a  mandar  giù  corde,  tirando  in  sacrato  i  gran 
baccalari,  i  quali  haveano  la  stipa  al  culo.  Ma  ecco  venir  la  notte,  ecco  le  botti 
guardiane  di  Ponte  Sisto  che  si  sbarVattano,  ecco  lo  esercito  che  di  Trastevere 
si  sparpaglia  per  Roma  ;  già  i  gridi  sì  odono,  le  porte  vanno  per  terra,  ognun  si 
fugge,  ognun  si  nasconde,  ognun  piagne.  Intanto  il  sangue  bagna  lo  spazzo,  la 
gente  si  amazza,  i  tormentati  ràitano,  i  prigioni  pregano,  le  donne  si  scapigliano, 
i  vecchi  tremano;  e  volta  la  città  co'  piedi  in  suso,  beato  è  quello  che  tosto 
muore,  o  indugiando  trova  chi  lo  spaccia.  Ma  chi  potria  dire  il  mal  di  così  fatta 
notte?  I  frati,  i  monaci,  1  cap'ellani  e  l'altre  ciurmaglie,  armati  e  disarmati,  si 
appiattavano  ne  le  sepolture  più  morti  che  vivi;  né  vi  rimase  grotta,  né  buca, 
né  pozzo,  né  campanile,  né  cantina,  né  lato  alcuno  secreto  che  non  fosse  subito 
pieno  di  ogni  sorta  di  persone.  Erano  tambussati  gli  spettabili  vivi,  e  co'  panni 
in  dosso  dileggiati  e  sputacciati;  né  chiese,  né  spedali,  né  case,  né  altro  si  ri- 
guardava, e  fino  nei  luoghi  dove  non  entrano  huomini  entrarono  coloro,  e  per 
dispregio  cacciarono  le  lor  femine  dove  si  scomtìaunica  ogni  femina  che  vi  va. 
Ma  la  compassione  era  a  vedere  il  fuoco  ne  le  logge  d'oro  e  nei  palagi  dipinti, 


V  Frate  Brandano;  cfr.  Greoorovius,  VIII,  643. 
«)  Il  Papa. 


—  115  — 

il  cordoglio  era  a  udire  i  mariti  che  fatti  rossi  dal  sangue  che  gli  usciva  da  le 
ferite  chiamavano  le  mogli  perdute  con  una  voce  da  far  piangere  quel  sasso  di 
marmo  del  Coliseo,  il  quale  si  attiene  senza  calcina.  Il  Barone  contava  a  la 
Signora  ciò  che  io  ti  conto,  e  volendo  entrare  nel  lamento  che  faceva  il  Papa 
in  Castello,  maledicendo  non  so  chi  che  gli  haveva  rotto  la  fede,  lasciò  scapparsi 
tante  lagrime  dagli  occhi  che  l'hehbero  ad  affogare,  e  non  potendo  più  isputar 
parole  rimase  come  muto. 

Pippa.  Come  può  essere  che  egli  piangesse  il  mal  del  Papa,  essendo  nimico 
de'  Preti? 

Nanna.  Perchè  noi  siamo  pur  christiani  et  eglino  son  pur  sacerdoti,  e  l'anima 
dee  pur  pensare  al  fatto  suo  ;  e  perciò  il  Barone  venne  quasi  in  angoscia,  tal  che 
la  Signora  si  levò  suso,  e,  pigliatolo  per  mano  con  istringergliene  due  voltarelle 
lo  accompagnò  fino  a  la  camera,  e  lasciatolo  con  buona  notte  se  ne  andò  a 
riposare. 

Pippa.  Voi  h avete  fatto  bene  a  stroncarla  perchè  io  non  poteva  più  udirvi 
senza  doglia. 

Nanna.  Io  te  ne  ho  racconto  uno  straccio  a  calzoppo,  e  dentane  una  parolina 
in  qua  e  l'altra  in  là,  che  a  dirti  il  vero  io  ho  dato  la  memoria  a  rimpedulare; 
e  poi  non  se  ne  verria  mai  a  capo,  tante  crudeltà  furono  nel  sacco,  e  se  io  ti 
volessi  dire  le  rubarle,  gli  assassinamenti  e  gli  sforzamenti  di  quelli,  ne  le  case 
de'  quali  si  credette  salvar  chi  vi  fuggì,  porterei  pericolo  di  nimicarmi  con 
alcune  persone  che  si  credono  che  non  si  sappia  come  assassinarono  gli  amici. 
Lasciate  andar  la  verità  e  datevi  a  le  bugie  e  metteracci  più  conto. 

Io  lo  farò  un  dì  ad  ogni  modo. 

Pippa.  Fatelo  e  noi  dite. 

Nanna.  Tu  '1  vedrai 


III. 
I  poemetti  osceni  del  Veniero. 


La  Nazionale  di  Parigi  possiede  i  soli  esemplari  conosciuti  di  questi 
poemetti  nelle  edizioni  originali,  che  si  cercherebbero  invano  in  tutte  le 
più  ricche  biblioteche  d'Europa.  Sembra  per  altro  che  vi  siano  adesso 
inaccessibili;  e  mentre  il  Gay  nel  1861  potè  riprodurre  le  due  stampe 
della  Zaffetta,  il  Liseux  nel  1883  per  V Errante  ha  dovuto  ricorrere  a 
copie  manoscritte  ^). 


^)  La  Puttana  Errante,  Poème  en  quatre  chants  de  Lorenzo  Veniero,  gen- 
tilhomme  vénitien  {XVP  siede).  Littéralement  traduit,  texte  italien  en  regard; 


—  116  — 

Anche  queste  ristampe,  tutt 'altro  che  corrette,  e  dagli  editori  accom- 
pagnate di  illustrazioni  confuse  od  erronee,  sono  rarissime:  onde  l'op- 
portunità di  dare  un'analisi  de'  due  poemi,  più  estesa  che  sia  possibile 
—  per  quanto  cioè  l'interesse  storico  si  accordi  con  la  decenza. 

V Errante  ha  una  breve  prefazione  in  prosa,  nella  quale  l'autore  in- 
voca a  suo  nume  il  Boccaccio,  quinto  evangelista,  che  ci  ha  segnato  la 
vera  strada  di  salvazione  contro  le  arti  femminili  con  le  violente  in- 
vettive del  Corbaccio.  Guai  invece  a  chi  si  lascia  ingannare  dalle 
poetiche  menzogne  di  messer  Petrarca!  «  Onde  io  —  soggiunge  — 

<  alluminato  dal  sopradetto  Giovanni  Boccadoro,  alla  barba  di  quel 
«  mariuol  di  Cupido,  porgo  all'imagine  sua  la  presente  opera  della 
«  P.  Errante,  non  da  me  composta,  ma  dalla  scommunicata  vita  d'una 
«  intemerata  poltrona,  il  nome  della  quale  per  non  vituperare  il  mondo 
«  si  tace.  Leggete  dunque  e  leggendo  non  mi  tenete  dishonesto  se  con 
«  parole  dishoneste  bandisco  le  dishoneste  opre  sue,  perchè  io  disho- 
«  nesto  sarei  se  con  voci  honeste  honestassi  la  dishonestissiraa  dishonestà 
«  sua.  Valete.  » 

Segue  un  sonetto  di  Pasquillo  ai  lettori,  che  riafferma  le  intenzioni 
purissime  dell'autore  : 

Non  perchè  sia  il  poeta  dishonesto 
Nò  perchè  sia  di  poca  reverenza, 
0  di  poco  giudizio  0  d'occorrenza 
(Che  così  fusse  tutto  quanto  il  resto  !  ) 

Ma  perchè  vede  dietro  al  sporco  e  incesto 
Puttanil  stuolo,  a  questa  vii  semenza 
Fallir  tutta  la  sciocca  adolescenza 
A  commun  heneficio  ha  scritto  questo 

Ed  entra  ora  in  scena  «  il  divino  Pietro  Aretino  ^  con  un  altro  sonetto 

<  all'authore  »  : 

Se  di  messer  Virgilio  o  mastro  Horaero 
La  poesia  ricamata  e  galante 


Parigi,  Liseux,  1883,  a  150  esemplari.  A  p.  XI  della  prefazione,  si  dice  che 
«  pour  le  réiraprimer  et  le  traduire  on  n'a  pu  s'en  procurer  aucun  exemplaire, 
«  et  OH  a  eu  recours...  à  une  copie  ms.  de  Tricotel,  probablement  prise  sur  les 
«  n.°'  Y'  1445  et  Y'  1455  de  la  Bibliothèque  Nationale  ».  —  Il  Liseux  ha  pure 
riprodotto  la  Zaffetta  nel  1883,  senza  dubbio  attenendosi  alla  ristampa  del  Gay  : 
La  Zaffetta,  Parigi,  MDCCCLXI,  di  soli  .100  esemplari;  sulla  quale  rimandiamo 
al  Virgili  l.  e.  Le  due  edizioni  originali,  confusamente  descritte  dal  Gay,  sono 
appunto  quelle  tuttora  serbate  alla  Nazionale  di  Parigi,  di  cui  il  Liseux  non  ha 
potnto  valersi:  e,  come  è  noto,  i  due  poemetti  vi  si  trovano  uniti. 


—  117  — 

Fosse  in  lo  stil  de  la  Puttana  Errante, 
Gli  farìa  il  mondo  d'inchiostro  un  cristero. 

Perchè  in  dire  ben  male,  idest  ben  vero 
Son  le  Muse  massare  e  Apollo  è  fante, 
E  facchine  le  rime  tutte  quante 
De  lo  stupendo  ingegno  del  Veniero. 

Che  più?  per  esser  io  Pietro  Aretino 
Mi  teneva  un  gigante  e  seco  resto 
Maggior  bestia  che  un  prete  con  Pasquino. 

E  chi  compone  si  meni  l'agresto, 
Come  chi  vuol  convertir  fra  Martino, 
Che  '1  vero  andar  di  fare  i  versi  è  questo. 

Sì  che  imitatel  presto 
Altramente  il  cacar  il  sangue  vostro 
Sarà  de'  ciaratani  il  pater  nostro. 

Il  poema  è  diviso  in  quattro  canti,  di  185  ottave  in  tutto:  un  vero 
fangaio,  nel  quale  a  stento  si  riesce  a  pescare  qualche  altra  citazione 
possibile.  Dopo  l'introduzione  e  l'apostrofe  all'ispiratore  Aretino,  il 
Veniero  tesse  la  genealogia  della  sua  eroina  —  figlia  addirittura  del- 
l'Orco —  e  prende  quindi  a  descriverne  l'infame  odissea. 

Questa  invitta  carogna  un  dì  sentendo 
Che  TAncroia,  Marphisa  e  Bradamante 
Andar  pel  mondo  gran  prove  facendo.... 
Deliberò  farsi  Puttana  Errante 
E  la  foia  a  Venezia  avendo  doma 
Qual  dirovvi  s'armò  per  gire  a  Roma. 

Comincia  dal  dare  un  osceno  torneo  a  Ferrara,  ottenendo  la  palma  : 
passa  poi  a  Bologna,  dove  emula  di  Pasifae  s'accoppia  con  bestie  di 
ogni  sorta;  di  là  va  a  Firenze,  in  Maremma,  a  Siena,  —  e  in  quest'ul- 
timo luogo  sostiene  con  tutto  il  formulario  scolastico  pubbliche  dispute 
di  pornografia,  che  occupano  la  maggior  parte  del  terzo  canto.  Il  Veniero 
spiega  la  grande  dottrina  in  materia  àoiV Errante^  dicendo  che  a  Ve- 
nezia più  che  altrove  è  dovizia  di  cortigiane  :  ed  anche  le  monache, 
mogli  già  solo  de'  frati  hor  son  nimphe  d'ognuno;  l'incesto  è  ritenuto 
come  non  fosse  peccato.  Addottorata  solennemente  a  Siena,  V Errante 
parte  per  Roma  :  città  destinata  alla  sua  finale  apoteosi.  Là  infatti,  dopo 
il  sacco,  ella  serve  a  saziare  tutto  VHispano  essercito  e  'l  Thedesco, 

Onde  parse  che  fosse  honesto  e  degno 
Dopo  tante  vittorie  e  prove  tante 
Dar  il  triompho  in  bel  divin  disegno 
A  l'invitta  real  Puttana  Errante, 


—  118  — 

E  così  s'ordinò  con  strano  ingegno 
Il  carro  triomphal  bello  e  galante, 
Imitando  ser  Cesare  e  Marcello, 
Intendete  ben  ben  ciò  ch'io  favello. 

L'ordine  del  triompho  bora  diviso: 
Prima  venia  la  m andrà  de'  ruffiani 
Dal  Sarraton  guidata  in  festa  e  in  riso 
Per  sfoiar  sbirri,  cingani  e  villani. 
Una  bandiera  bavea  fatta  improviso 
Ov'eran  tutti  i  chiassi  italiani 
Che  corteggiati  havea  con  humiltate.... 

Dapoi  seguon  le  ciurme  che  in  galea 
Ella  satiò  dal  ponente  al  levante. 
Move  il  triompho  per  strada  Giudea, 
Né  altro  s'ode  gridar  che  Errante,  Errante! 
Segue  la  ciurma  una  turba  plebea 
Gaglioffa,  sporca,  poltrona,  ignorante 
La  qual  guidava  il  falsario  Bonfio(?) 
Che  mille  volte  ha  rinegato  Dio. 

Il  traditor  porta  ritratti  in  mano 

Tutti  i  mercati  e  anchor  tutte  le  fiere 
E  Eecanati  e  Foligno  e  Lanciano, 
Ch'ella  honorò  con  sue  bellezze  altere. 
Ecco  uno  stuol  tutto  dolce  et  humano 
Di  streghe  incantatrici  e  di  megere 
Et  ha  ciascuna  in  man  di  queste  arpie 
Ciò  che  bisogna  a  incanti  et  a  malie: 

Unghie,  capegli  e  funi  d'impiccati, 
E  di  non  nato  fanciullino  pelle. 
Ossa  di  morti  dal  vivo  cavati. 
Grassa  di  donne  giovenette  e  belle. 
Vasi  pieni  di  lagrime  e  stillati 
D'herbe  colte  a  splendor  di  certe  stelle 
Che  disperdan  i  parti  et  il  cervello 
Tolgano  spesso  a  quest'amante  e  a  quello. 

Segue  la  schiera  de  le  vecchie  care 
Un  gonfalon  che  tutti  i  tradimenti 
Tenea  dipinti,  che  la  singolare 
Errante  ha  fatti  a  più  diverse  genti: 
Ammazzare,  scannare,  assassinare 
Ivi  si  vede  et  amici  e  parenti, 
Chi  ferito  nel  collo  e  chi  nel  seno, 
Chi  mor  di  corda  o  di  ferro  o  veleno. 

Ecco  un  altro  vessillo  imperiale, 
I  piaceri  del  qual  fatti  ha  il  pennello. 
Ella  stassi  colcata  al  naturale 
E  fassel  far  dal  barba  e  dal  fratello 


—  119  — 

Seguono  poi  alcune  sue  magalde 

Che  picciolette  imagini  in  man  hanno; 

Queste  sono,  signor,  quelle  ribalde 

Che  i  parti  agli  hospedali  a  portar  vanno, 

Invilupati  dei  panni  in  le  falde. 

Che  spedali  dich'io?  anzi  gli  danno 

A  cacatoi,  a  canali,  a  sotterra 

Acciò  che  non  si  sappia  per  la  terra. 

L'ordine  va  seguendo  una  carretta 
La  più  grande  ch'io  mai  vedessi  forse, 
Tutta  piena  di  furti  ch'ella  in  fretta 

Kubò 

agli  amanti,  dormendo  seco, 

Qua!  tolse  a  me  quand'Amor  ferrimi  cieco. 

L'Infamia  appar,  e  tutta  altera  viene, 
Col  volto  invetriato  e  '1  segno  in  fronte, 
Mozze  ha  le  orecchie  e  poco  naso  tiene, 
La  mitria  in  capo  che  par  proprio  un  monte, 
Di  sangue  marcio  le  spallacele  ha  piene, 
Senza  vergogna  di  sue  virtù  conte, 
Un  libello  in  man  porta  ove  è  notata 
De  l'Errante  la  vita  arcisfacciata. 

In  mezzo  a  due  poeti  laureati 
La  diva  Infamia  move  i  sacri  passi, 
Di  bietole  e  di  fave  incoronati. 
Con  gratia  e  privilegio  babbuassi. 
Costoro  li  suoi  gesti  han  celebrati 
Con  rime  ladre  da  banchi  e  da  chiassi, 
Con  quel  poeta*)  che  ha  fatto  immortali 

I  cardi,  le  primere  e  gli  orinali  '). 
Il  goffo  Tinto,  poeta  que  pars  este  '), 

Marcon  buffone  è  un  dei  duo  poeti, 

II  qual  salva  la  loica  ne  le  ceste 

Per  dispensarla  a  putti,  a  frati,  a  preti; 
L'altro  è  ser  Quinto  che  '1  dì  delle  feste 
Ch....  le  muse  sopra  due  tapeti. 
Questi  ser  bestie  con  un  stil  furfante 
Cantan  gli  honor  de  la  Puttana  Errante. 


^)  Deve  forse  correggersi  :  come  il  poeta. 

^}  È  notevole  questa  prima  frecciata  del  Veniero  contro  il  Derni,  attaccato  poi 
apertamente  nella  Z affetta.  —  Quanto  ai  poetastri  e  buffoni  nominati  appresso 
non  mi  fu  dato  precisare  chi  fossero. 

^)  Citazione  latina,  tutta  aretinesca;  cfr.  doc.  IV,  dove  l'A.  deride  «  gli  altri 
poeti  que  pars  est  ». 


—  120  — 

Ser  Quinto  stregghia  il  cavai  Pegaseo, 
Et  il  Tinto  gli  dà  bere  e  lo  strame, 
Et  ha  promesso  a  tutti  duo  Orpbeo 
Donare  le  regaglie  del  letame; 
0  salvatico  Quinto  semideo, 
E  tu  Marcon  nausevolmente  infame, 
Voi  coronarvi  l'Errante  Puttana 
Di  spine  di  carcioffi  e  di  borrana. 

Una  musica  indiavolata  fa  parte  del  corteo  —  che  si  chiude  con  una 
turba  di  degni  congiunti  àelV Errante^  e  con  la  schiera  de'  suoi  vizi  al 
completo.  Il  carro,  dov'ella  siede  in  attitudine  di  Semiramide,  traversa 
tutta  Koma  per  arrestarsi  a  ponte  Sisto  —  la  classica  residenza  delle 
femmine  da  conio  in  quel  tempo.  Là  depone  V Errante  la  corona  pria- 
pesca  decretatale  :  e  poi  se  ne  va  a  Napoli,  a  farvi  nuove  prodezze  che 
le  avrebbero  meritato  un  secondo  trionfo,  s'ella  cosi  tosto  non  parila^ 
per  ricondursi  al  suo  primo  nido,  Venezia.  Il  poemetto  termina  appunto 
con  la  promessa  del  Veni  ero  di  narrare  un'altra  volta  l'accoglienza 
fatta  in  patria  alla  reduce  Errante  :  a  cui  andarono  incontro  le  più 
famose  cortigiane  in  pompa  molta. 

Chi  era  mai  questa  donna  così  atrocemente  vituperata?  —  Parecchi 
bibliografi  hanno  preso  abbaglio,  ritenendo  che  nei  due  poemetti  il 
Veniero  abbia  messo  in  scena  una  stessa  eroina;  mentre  dalla  Zaffetta 
si  rileva  assai  chiaramente  trattarsi  di  due  cortigiane  distinte,  che  il 
poeta  pone  anzi  a  confronto,  scrivendo  : 

Io  non  ho  mai  parlato  a  la  Zaffetta 
E  l'havea  per  signora  alta  e  divina, 
Ma  il  conte  Urluro  (?)  in  ca'  di  Vienna  letta 
M'ha  la  ribalda  sua  vita  assassina. 
Onde  io  tengo  più  buona  e  più  perfetta 
La  mia  Errante  Elena  Ballerina, 
Hor  se  l'Errante  è  più  da  ben  di  lei 
Gran  Dio  Cupido  miserere  mei. 

La  Tariifa  delle  P.  di  Venezia  del  1535  ^)  la  registra  pure  così  : 

Elena  Ballerina  è  cara  e  bella 
Ma  la  sconcia  il  cervel  sciocco  e  leggero 
E  sempre  gelosia  l'urta  e  martella. 


*)  Di  questa  Tariffa  ha  dato  notizia  il  Passano  ne'  Novellieri  italiani  in  verso, 
con  più  indignazione  di  moralista  che  non  accuratezza  di  bibliografo.  Un  estratto 
assai  monco  se  ne  trova  nell'opuscolo  Les  Courtisanes  et  la  police  des  moeurs  à 


—  121  — 

Questa  è  quella  gentil,  per  dir  il  vero, 
Puttana  Errante,  che  di  e...  ingorda 
Già  spogliò  questo  e  quell'altro  hemispero. 

La  pazzarella  volentier  s'accorda 

Per  quattro  scudi  et  a  chi  di  nascoso 
Gliene  dà  due  non  tien  Porecchia  sorda. 

Da  questo  cenno  la  Ballerina  non  appare  così  perversa  quanto  l'ha 
fatta  il  Veniero,  che  s'è  abbandonato  alle  piti  mostruose  calunnie  contro 


I 


Venise,  Bordeaux,  1886,  p.  46  sgg.  —  Ho  presente  la  ristampa  del  Liseux, 
La  Tariffa  delle  P.  di  Venegia  (X  VI^  siede),  texte  itaìien  et  traduction  littérale, 
Parigi,  Liseux,  1883,  a  150  esemplari,  fatta  pure  sopra  una  copia  manoscritta 
del  già  nominato  bibliofilo  Tricotel.  Al  contrario  del  Passano ,  l' editore  di 
questa  ristampa  ritiene  che  la  Tariffa  non  sia  del  Veniero,  perchè  mentre  messer 
Lorenzo  rivendicava  con  tanto  sdegno  la  paternità  ^QÌVErrante  e  apponeva  il  suo 
nome  alla  Zaffetta,  l'autore  della  Tari/fa  si  tiene  anonimo  e  invoca  o  cita  più 
d'una  volta  il  Veniero  come  estraneo  all'opera.  L'osservazione  è  giusta,  però  tro- 
vando molta  conformità  di  stile  tra  la  Tariffa  e  i  due  poemetti  àeìV Errante  e 
della  Zaffetta  —  dei  quali  è  il  coronamento  —  si  potrebbe  supporre  che  nel  1535 
il  Veniero,  meno  sfrenato  e  più  compreso  del  decoro  del  suo  grado,  riputasse  disdi- 
cevole figurare  ancora  come  autore  di  turpi  libelli,  od  anche  ch'egli  temesse  di 
tirarsi  addosso  l'ira  di  tante  cortigiane  tartassate  e  de'  loro  protettori  e  mezzani. 
—  Senonchè  fra  le  lettere  scritte  all'A.  (I,  243)  ve  n'ha  una  di  molta  importanza 
nella  questione.  Antonio  Cavallino  il  25  gennaio  1536  manda  da  Padova  a  Pietro 
certe  composizioni  letterarie,  con  umiltà  di  creato  e  discepolo,  dicendo  che  se  non 
sono  degne  di  «  comparere  inanzi  di  uno  tanto  huomo  la  gentilezza  et  humanità 
«  del  maestro  supplirà  al  tutto  » ,  e  con  questa  fiducia  promette  di  inviare  in  se- 
guito addirittura  «  una  mula  carica  di  scartafacci  > .  E  soggiunge  subito  appresso: 
«  Per  bora  non  mando  la  Tariffa  delle  P.  perchè  non  l'ho  potuta  rihavere,  per 
€  la  prima  mia  la  manderò  » .  Che  il  Cavallino  si  dilettasse  di  poesia  appare  anche 
da  una  lettera  dell'Aretino  (I,  198),  nella  quale  lo  loda  di  essersi  tolto  «  di  mano 
«  a  le  poesie  affamate  dandosi  a  le  leggi  sfamate  ».  Era  dunque  costui  l'autore 
della  Tariffa?  Parrebbe  evidente:  ma  la  sua  lettera  ha,  come  si  è  visto,  la  data 
del  25  genn.  1536,  mentre  la  Tariffa  si  dice  «  stampata  nel  nostro  hemispero 
«  l'anno  MDXXX V  del  mese  di  agosto  » .  Deve  ritenersi  che  nella  lettera  del  Ca- 
vallino sia  incorso  uno  de'  soliti  errori  di  data  che  presenta  la  stampa  marcoli- 
niana?  Noi  incliniamo  a  crederlo;  e  si  spiegherebbe  benissimo  che  la  Tariffa  com- 
posta già  nel  gennaio  1535  uscisse  per  le  stampe  nell'agosto,  sotto  gli  auspici 
dello  stesso  Aretino,  al  quale  appunto  perciò  il  Cavallino  aveva  interesse  di  man- 
darla. —  E  invero  chiunque  sia  il  compilatore,  era  per  certo,  come  il  Veniero,  un 
giovane  scapestrato  cresciuto  alla  scuola  dell'Aretino:  il  quale  è  nominato  più 
volte  non  già  «  con  aggettivi  poco  laudatori  »  —  secondo  pretende  il  Passano  — , 
ma  con  le  sue  favorite  qualifiche  di  flagello  de'  Principi,  e  di  semidio.  Alla  Tariffa 
è  premesso  un  sonetto  «  ridotto  a  proposito  dell'opera  » ,  che  precisamente  parafrasa 
il  proemio  ai  sonetti  lussuriosi  di  Pietro  :  identica  è  la  prima  quartina.  —  Sotto 


—  122  — 

lei solo  perchè,  malcauto  amante,  s'era  una  volta  lasciato  derubare 

dalla  lesta  donnina. 


forma  di  dialogo,  tra  un  gentiluomo  veneziano  e  un  forestiere,  il  primo  informa- 
tissimo  del  mondo  galante  della  città,  l'altro  molto  desideroso  di  entrarvi  con  una 
guida  esperta,  la  Tariffa,  in  parecchie  centinaia  di  terzine,  «  dinota  il  prezzo  e 
«  la  qualità  di  tutte  le  cortigiane  di  Venegia  col  nome  delle  ruffiane  »,  intercalando 
al  catalogo  qualche  sboccata  novella.  I  particolari  più  intimi  e  scabrosi  sono  esposti 
con  nauseante  crudità  di  linguaggio:  e  fra  tante  innumerevoli  cortigiane  nominate 
non  ve  n'è  neppur  una  che  si  sottragga  ai  più  infami  vituperi.  Non  potendo  tener 
conto  della  folla  delle  minori,  accenneremo  alle  prime  che  il  poeta  ci  designa. 
Comincia  da  una  Lombarda,  figlia  di  contadini,  piovuta  a  Venezia  povera  e  scalza, 
e  arricchitasi  d'oro  e  di  terreni. 

Hor  puossi  dir  la  fata  del  thesoro, 
Ma  solo  per  lo  ingegno  suo  sottile, 
Non  per  beltà  che  fosse  in  lei  l'honore. 

Benché  ormai  più  che  matura,  anzi  infracidita  e  vecchia,  ò  quotata  venti  scudi. 
—  Dopo  la  Griffo,  la  Zaffetta,  e  la  Ferretta, 

Quinta  si  pon  la  dea  de  gli  atti  crudi, 

Lucrecia  Squarcia  che  di  poesie 

Finge  apprezzar  e  seguitar  gli  studi. 
Et  ab  antiqua  e  gran  genealogia 

Fa  il  suo  natal,  sì  come  d'un  barbiero 

Che  si  morì  in  spedai  figlia  non  sia. 
Poi  fa  con  gentilhuomini  l'altero, 

Eecando  spesso  il  Petrarchetto  in  mano, 

Di  Virgilio  le  carte  et  hor  di  Homero. 
Spesso  disputa  del  parlar  thoscano, 

Di  musica,  e  '1  cervel  così  le  gira 

Che  pensa  haverne  il  grido  di  lontano. 
Et  a  queste  virtù  cotanto  aspira 

Quanto  al  vero  un  heretico  e  le  intende 

Come  l'asino  fa  '1  suon  d'una  lira. 

Tullia  d'Aragona  è  nominata  soltanto  all'ottavo  posto:  e  il  prezzo  de'  suoi 
faTori  va  da  cinque  a  dieci  scudi  —  aumentando  cioè  a  seconda  che  la  presta- 
zione fosse  più  abbietta!...  Anche  a  Koma  nel  1549,  nella  tassa  imposta  alle  cor- 
tigiane per  la  reparatione  del  Ponte  Santa  Maria  a  giuìij  uno  per  cinqm  de 
quello  che  pagano  o  pagerebano  Tanno  de  pigione  come  per  il  dicretto  fatto  in 
Camera  apostolica  sotto  dì  26  dì  zugnio,  la  Tullia  non  appare  tra  le  prime, 
cioè  tra  le  più  forti  tassate,  in  ragione  della  splendidezza  della  loro  casa.  Abi- 
tava in  Campo  Marzio,  presso  il  palazzo  Carpi,  drietto  a  mona.  Della  Casa, 
pagando  40  scudi  di  pigione:  e  Isabella  de  Luna  p.  e.,  la  cortigiana  celebre  per 
due  novelle  del  Bandello,  no  pagava  100  (Archivio  di  Stato  di  Roma,  Registri 
Camerali). 


-    123  — 

Messer  Lorenzo  —  il  patrizio  che  doveva  piti  tardi  sedere  in  Senato 
e  avere  dalla  Kepubblica  uffici  ed  onori  —  nelle  sue  tresche  giovanili 
era  d'una  ferocia  vendicativa  straordinaria  :  e  come  del  tiro  della  Bal- 
lerina alla  sua  borsa  si  sfogò  con  VErrante^  così  fece  scontare  alla 
Zaffetta  un  rifiuto  offensivo  con  l'altro  virulento  poemetto  del  Trentuno. 
La  malcapitata  cortigiana,  quando  a  Chioggia  è  in  mano  d'una  ciurma 
che  fa  di  lei  lo  scempio  più  turpe,  esclama  piangendo  : 

Hor  sera  pur  contenta  questa  e  quella 
Invidiosa  di  mia  buona  sorte; 
Come  "  Venier  lo  sa,  farà  novella 
Perchè  aprir  non  gli  volsi  un  dì  le  porte. 
Già  già  ogni  barcarol  di  me  favella 
Et  parmi  udir  dai  putti  gridar  forte 
Sul  ponte  di  Rialto  acciò  s'intenda: 
Chi  vuol  della  ZafiFetta  la  leggenda? 

E  lo  stesso  Veniero  in  fine  del  poema,  rallegrandosi  della  vendetta 
compiuta,  in  aria  di  scherno  dice  alla  Zaffetta  : 

Del  mio  burlar  non  pigliate  dolore, 
E  se  '1  pigliate  pur  Dio  vel  perdoni. 
Anch'io  vuo'  la  mia  parte  de  l'honore. 
Son  gentilhuomo  atto  a  donarvi  doni. 
Venni  e  subiai  *)  per  farvi  riverenza, 
Ma  dal  balcon  mi  fu  data  licenza. 

Senonchè  il  Veniero  aveva  anche  un  altro  fine  nello  scrivere  il  Tren- 
tuno: voleva  insorgere  cioè  contro  i  malevoli,  che  attribuivano  all'A- 
retino la  paternità  della  sua  Errante;  e  ferito  nella  vanità  letteraria 
scaraventa  a  costoro  un  nuovo  poema.  Le  prime  stanze  della  Zaffetta  — 
dove  il  Veniero  trova  modo,  per  far  piacere  all'Aretino,  di  colpire  di 
sbieco  anche  il  Borni  —  sono  notissime.  Non  pago  d'aver  apostrofato 
i  denigratori,  il  poeta  rivolto  alla  sua  vittima  prosegue  : 

Per  due  cagion,  Zaffetta,  in  stil  divino 
Vengo  a  cantar  l'historia  de'  tuoi  fatti: 
Una  per  dimostrar  che  l'Aretino 
I  versi  de  V Errante  non  m'ha  fatti; 
L'altra  che  in  far  piacer  son  sì  latino 
Che  è  forza  contentar  parecchi  matti 
Che  mi  stringono  a  dire  in  nova  foggia 
Di  quel  trentun  che  ti  fu  fatto  a  Chioggia. 


*)  Fece  il  fischio  convenuto  perchè  gli  si  aprisse. 


—  124  — 

Ed  entra  senz'altro  in  argomento,  con  una  piccola  requisitoria  sulle 
cortigiane  di  Venezia: 

Signor,  sono  in  Venetia  gratta  Dei, 

Tre  legioni  o  quattro  di  puttane, 

Buina  de'  patritij  e  de'  plebei, 

Parte  in  gran  case,  parte  in  carampane  ^y* 

Ma  fra  tante  migliaia  un  cinque  o  sei 

Per  forza  di  belletti  e  d'ambracane 

Cuopron  sì  lor  bellezza  stomacosa 

Che  le  poltrone  paion  qualche  cosa. 
Fra  queste  poche  ce  n'è  una  sola 

Che  tiensi  prima  in  la  f.....  setta. 

Non  è  la  Griffa,  non  è  la  Bigola  ^) 

Che  le  parole  profuma  e  belletta: 

Aiutatemi  a  scioglier  la  parola, 

La  sua  altezza  ha  nome  la  Zaffetta 


*)  Quai  di  gran  case  e  quai  di  carampane,  - 

è  un  verso  consimile  che  si  legge  nella  Tariffa:  —  carampane  equivale  a  tugurio,  ^ 

bugigattolo. 

')  Cornelia  Griffo  è  la  seconda  nominata  nella  Tariffa: 

Segue  Cornelia  Griffo  che  può  darne 

Fede  d'esser  buon  pasto  e  robba  ghiotta 

Se  pur  ghiotto  mangiar  fa  ghiotta  carne. 
Costei  vi  chiederà  per  esser  dotta 

In  far  l'altera  e  un  puttanesmo  honesto 

Quaranta  e  più 


scudi. 


Quai  sian  le  sue  virtù  vel  dican  quelli 
Che  n'hanno  fatto  prova  di  tal  sorte 
Che  v'han  lassato  insino  a  gli  mantelli. 

La  Bigola  è  la  sesta  della  Tariffa: 

M'era  di  mente  la  Bigola  uscita 

Che  far  col  liscio  a  le  crespe  riparo 

Pensa  e  tornar  la  cara  età  fuggita. 
E  d'anni  a  la  Cumea  può  gir  del  paro, 

Né  vi  giovan  gl'impiastri  e  '1  farsi  i  denti 

Spesso  purgar,  ond'esce  il  fiato  amaro, 
E  i  suoi  capei  già  divenuti  argenti 

Coprir  romanamente  sotto  il  velo 

E  usar  parlando  i  profumati  accenti 

Malgrado  altri  artifici  non  la  si  apprezza  più  di  sei  scudi,  e  spesso  anche  meno. 


—  125  — 

Che  si  tien  nata  di  sangue  reale 
Poi  che  patrigno  l'è  Borrin  bestiale. 

Conta  talhor  la  sua  genealogia, 
Et  fassi  figlia  del  Procuratore 
De  ca'  Griraani,  ch'a  sua  madre  ria 
Già  fece  a  che  Tè  dentro,  a  che  l'è  fuore, 
Ma  viemmi  humore  ne  la  fantasia 
Di  cantar  puntualmente  in  bel  tenore 
Il  suo  gran  grado  in  omnibus  et  come 
S'ha  guadagnato  il  puttanesco  nome  *). 

Noi  vo'  dir  no,  perchè  de  le  puttane 
Sempre  giostran  del  par  principio  e  fine, 
Cominciano  a  ingrandirsi  con  un  pane, 
E  con  un  pan  finiscon  le  meschine. 
Basta  che  la  Zafi'etta  è  in  ambracane, 
In  seta  e  in  òr  con  pompe  alte  e  divine, 
Non  già  per  sua  virtù,  bellezza  o  gratia, 
Ch'ella  nascendo  nacque  la  disgratia. 

Il  caso  del  suo  grande  et  alto  stato 

Che  i  nostri  gentilhuomini  ognhor  soia  ')    ' 

Da  una  sorte  di  corrivi  è  nato 

Che  per  morbezza,  per  gara  e  per  foia 

Cercando  haver  l'un  l'altro  superato  '), 

A  questa  arpia,  che  a  chi  più  l'ama  annoia, 

Han  dato  senza  merito  e  diletto 

L'anima  e  i  soldi  a  lor  marcio  dispetto. 

Perdonatemi,  giovani,  l'amore 

Ch'io  vi  porto  fa  dirmi  ciò  ch'io  dico, 

Sapete  ben  ch'io  vi  son  servitore, 

Non  pur  compagno,  fratello  et  amico. 

Poi  ne  la  lingua  io  ho  quel  ch'ho  nel  core, 

Io  l'ho  detto  et  di  novo  lo  ridico: 

Le  vostre  gare  e  non  gratia  o  bellezza 

Hanvi  abbassati  e  lei  posta  in  altezza. 


*)  La  prima  edizione  della  Zaffetta  legge  invece: 

Ma  viemmi  grizzol  ne  la  fantasia 
Di  cantar  puntualmente  in  bel  tenore 
Il  suo  grado  in  minoribus  et  come 
C'ha  guadagnato  ecc. 

')  Uccella,  inganna. 

')  La  seconda  edizione  legge,  sconvolgendo  il  senso  : 

Cercando  hor  l'uno  hor  l'altro  scioperato. 


—  126  — 

Questa  figliastra  di  birro  era  dunque  diventata  la  cortigiana  di  moda, 
contesa  fra  loro  da'  giovani  patrizi  dissoluti  ;  e  n'aveva  sempre  attorno 
una  gran  comitiva^  ammaliando  e  derubando 

Ciascun  con  la  sua  faccia  artificiosa. 

Più  infatuato  d'ogni  altro  era  un  gentiluomo  amabilissimo,  che  schiavo 
d'ogni  capriccio  della  Zaffetta  si  faceva  mangiare  allegramente  il  suo, 
pur  d'essere  il  prescelto.  Ma  appena  si  sa  beffato  e  tradito,  concerta 
subito  con  due  amici  la  più  crudele  vendetta  :  invita  l'infedele  corti- 
giana ad  una  gita  di  piacere;  ed  essa  accetta,  senza  sospetto,  anzi 
lusingata  dalla  proposta  d'una  allegra  colazione  a  Malamocco.  Là  infatti 
divora  delle  pernici  e  tracanna  della  malvasia  :  e  al  ritorno,  in  gondola 
sorride  e  cinguetta  e  vezzeggia.  Eacconta  le  sue  grandezze;  tuttavia 
insaziabile,  desidera  ancora  le  venga  montata  una  casa  più  ricca  e 
fastosa. 

Voglio,  dìcea  la  gloriosa  alfana 

Che  voi  morosi  mi  facciate  avere 

Per  sempre  a  fitto  la  cà  Loredana; 

Se  no,  mi  morirò  di  dispiacere. 

Poi  cominciò  a  cantar  una  pavana  *) 

Che  già  la  casa  le  parca  godere. 

Vuol  comprare  spalliere  e  rasi  eletti, 

Vuol  far  di  seta  e  d'or  cinque  o  sei  letti. 
Poi  entra  a  dir  di  certi  cavedoni, 

0  capofuochi  che  dica  il  Petrarca, 

Gli  vuol  d'argento  che  sian  belli  e  buoni, 

Vuol  sei  massare,  un  ragazzo,  una  barca. 

Vuol  di  contado  le  sue  provvisioni, 

Sempre  in  canova  vin,  farina  in  l'arca, 

E  alfin  vuol  tante  cose  la  borrina 

Che  non  n'ebbe  mai  tante  una  regina. 
Con  questi  suoi  giardin  fatti  a  sua  foggia, 

Confermati  dal  suo  saij:ace  amante, 

Si  ritrovò  sua  maestade  a  Chioggia, 

E  sbigottì  quando  gl'apparse  innante. 

Dicendo:  mia  persona  non  alloggia 

Stasera  qui;  va,  barcaruolo,  avante, 

Gira  poltron,  diss'ella,  e  piange  e  arrabbia, 

Ma  patientia  al  fin  forza  è  ch'ell'habbia. 


*)  Su  questa  sorta  di  canzoni  cfr.  Rossi,  op.  cit,  p.  419,  n. 


—  127  — 

Non  sapeva  infatti  spiegarsi  come  invece  di  approdare  a  Venezia  si 
andasse  a  finire  a  Chioggia  :  ma  l'amante  la  conforta  e  persuade  con 
promesse  di  nuovi  doni  a  passare  colà  la  notte  ;  e  la  Zaffetta  smonta, 
ignara  ancora  del  tiro  serbatole. 

Corre  la  turba  a  furor  per  vedere 
La  famosa  Zaffetta  d'humor  piena, 
Che  indosso  porta  un  mezzo  profumiere, 
Parla  da  ninfa,  e  '1  passo  muove  appena, 
Hora  su  questo,  bora  su  quel  s'appoggia, 
E  vuol  parer  l'imperatrice  a  Chioggia. 

Era  già  preparata  una  lauta  cena,  a  cui  la  Zaffetta,  posta  a  capo- 
tavola, fa  grand'onore  con  una  voracità  straordinaria  ;  e  stordita  dal 

vino  e  dal  cibo  la  cortigiana  affretta  lei  medesima  l'ora  del  riposo 

che  suona  per  essa  il  principio  d'uno  strazio  abbominevole.  L'amante 
tradito  dapprima,  e  dietro  lui  pescatori,  facchini,  villani,  sfrenano  la 
più  bestiale  libidine  sull'infelice  che  grida  e  supplica  invano. 

Dlcea  la  Zaffaborse  *):  a  una  signora 

Che  in  Venetia  ciascun  la  prima  tiene, 

Ch'è  fanciullina  e  '1  latte  ha  in  bocca  ancora 

A  dar  questo  trentun  non  fassi  bene. 

Oh  Dio,  Dio  mio!  volete  voi  ch'io  mora 

Magnifico  raesser  dolce  e  da  bene?.... — 
Ma  che  vad'io  contando  ad  uno  ad  uno? 

Eccoti  che  sforzata  è  pur  la  porta, 

Chioggia  è  venuta  a  furore  a  communo. 

Per  haver  la  sua  parte  de  la  torta 

Così  la  Zaffetta  multorum  absorbuit  ictus  —  un  apposito  incaricato 
ne  teneva  il  conto  col  carbone  sul  muro  —  ;  e  alle  lacrime,  alle  pre- 
ghiere dell'oltraggiata  il  vendicativo  gentiluomo,  origliante  all'uscio, 
rispondeva  con  ischerno  feroce  : 

Madonna  mia,  il  mondo  è  fatto  a  scale, 
Sempre  non  ride  del  ladro  la  moglie, 
A  Chioggia  scende  chi  a  Venetia  sale 
E  pur  talhor  de  le  volpi  si  coglie. 


*)  La  seconda  stampa  ha  scorrettamente: 

Dicea  la  Zaffa  forsi  a  una  signora. 


—  128  — 

Voi  rideste  di  me  di  carnevale, 

Quando  ch'io  havea  del  vostro  amor  le  doglie. 

Hor  di  quaresma  io  mi  rido  di  voi, 

E  così  pari  il  gioco  va  fra  noi. 

Più  morta  che  viva,  il  giorno  appresso,  sopra  una  barca  da  melloni» 
la  Zaffetta  è  riportata  a  Venezia;  dove  sua  madre  le  appresta  le  ne- 
cessarie cure,  mentre  il  patrigno  sbirro  infuriato  vuol  ammazzare  mezzo 
mondo,  per  vendicarla. 

Lo  sbisao  ^)  bestiai  Borrin  feroce 

Col  pistoiese  in  man,  stringendo  i  denti, 

In  portico  spasseggia  e  ad  alta  voce 

Dice:  mille  vo'  farne  mal  contenti. 

Fa  su  le  dita  il  segno  della  croce, 

E  su  vi  giura  mille  sacramenti 

Che  vuol  far  diventar  sangue  il  suo  rio: 

Ah  mondo  infame!  oh  benedetto  Dio! 

Già  per  Venetia  è  '1  trentun  divulgato, 

Della  Zafifetta  è  pieno  ogni  bordello. 

Né  pur  un  sol  s'è  in  la  cita  trovato 

Che  non  esalti  chi  gl'ha  dato  quello. 

Infino  il  buon  compagno  Gian  Donato 

Et  Lunardo  da  Pesar  buono  e  bello 

Han  caro  ogni  suo  mal,  perch'ella  impari 

Con  le  soie  a  burlar  con  i  suoi  pari.... 
I  signor  cinque  e  i  capi  dei  sestieri 

A  cui  n'andò  la  querela  volando. 

Ridendo  dei  carnefici  cristeri 

Di  far  l'esecution  la  van  solando. 

Onde  i  terrieri  e  tutti  i  forestieri 

Del  bene  merto  suo  vanno  parlando.... 
L'Angela  stassi  peggio  che  romita 

In  cordoglio,  in  silentio,  sobria  e  casta. 

Passan  sei  giorni,  è  presso  che  guarita, 

Altro  non  dice  co'  suspir  che  basta. 

Già  la  vergogna  l'è  di  mente  uscita. 

Non  sentendosi  più  nei  sessi  guasta. 

Più  sfacciata  che  prima,  ladra  e  ghiotta, 

In  su  '1  balcon  fa  la  regina  Isotta  '). 


1)  Stolido,  vile. 

*)  Malgrado  infatti  questa  avventura,  la  Zaifetta  restava  sempre  la  cortigiana 
in  voga:  e  nel  1582  il  Cardinale  de'  Medici,  andato  a  Venezia,  ospite  dell'am- 
basciatore cesareo,  passò  una  notte  con  lei.  cfr.  Molmenti,  La  storia  di  Venezia 


—  129  — 

Forse  che  pensa  diventar  migliore, 
Non  soiar,  non  tradire  et  non  rubbare? 
Forse  che  pensa  al  suo  perdutj  honore 
Ch'ogni  puttana  faria  vergognare? 
Ma  pensa  più  che  mai  cavar  '1  core 
A  quelli  che  la  corron  a  adorare 
Et  per  una  vestura  in  nova  foggia 
Voi  far  la  pace  col  trentun  di  Chioggia. 

L'esempio  invece  è  stato  salutarmente  pauroso  per  le  altre  cortigiane^ 
rapaci  o  infedeli,  che  serratesi  in  casa  non  avrebbero  accettato  qualsiasi 
partita  di  piacere,  né  a  Lio,  né  ala  Zuecca^  o  in  barca,  nel  dubbio  di 
incappare  in  un  tiro  consimile  da  parte  di  amanti  offesi.  11  Yeniero 
prende  a  catechizzarle  tutte,  rimproverando  loro  i  tradimenti  e  l'ingor- 
digia :  e  descrive  con  molta  vivacità  la  condizione  tormentosa  di  chi 
s'abbandoni  alla  mercè  di  cotali  femmine.  Una  sola  eccezione  ha  incon- 
trato finora;  ma  quella  cortigiana-fenice  è  morta,  e  il  Veniero  le  con- 
sacra un  mesto  ricordo  : 

Una  fra  mille  millanta  migliara 
Di  puttane  viventi  a  nostre  spese 
Ho  conosciuta  bella  buona  e  cara 
Et  da  bene  al  possibile  e  cortese: 
Che  Giacoma  chiamossi  da  Ferrara 
0  vogliam  dir  Giacoma  Ferrarese, 
Che  per  esser  da  bene  e  bella  e  buona 
In  questi  giorni  s'è  morta  in  persona. 


nella  vita  privata,  3*  ediz.  Torino,  1885,  p.  274  n.  —  Nella  Tariffa  del  1535, 
il  Veniero  o  chi  per  esso  ribadiva  implacato  gli  ingiuriosi  giudizi  sulla  Zaffetta, 
scrivendo  : 

La  terza  apunto  è  la  Zaffetta,  e  questa 
Per  aver  nome  d'Angiola  a  una  foggia 
Vuol  venti,  a  l'altra  trenta,  se  è  richiesta. 

E  pur  il  mal  di  Francia  seco  alloggia 
E  la  disgratia  che  vi  sta  in  persona, 
Oltra  il  trentun  che  le  fu  dato  a  Chioggia. 

Ma  di  lei  così  a  fil  scrive  e  ragiona 
Il  mio  Venier  nel  suo  sacrato  annale, 
Che  '1  nome  suo  per  tutto  ancho  risuona. 

Ne  taccia  la  grande  superbia,  e  finisce  con  disgustanti  particolari  intimi  sulla 
persona  di  lei. 

Luzio  —  Pietro  Aretino  9 


—  130  — 

L'ultima  stanza  del  poema  è  un  nuovo  monito  alla  Zaffetta,  perchè 
moderi  l'eccessiva  superbia:  persino  il  Doge  e  i  maggiorenti  della  Se- 
renissima sono  cortesi,  affabili  con  tutti; 

Ma  Vostra  Altezza  per  portar  l'insegna 
Delle  puttane,  esser  maggior  si  crede 
Che  non  è  di  San  Marco  il  campanile, 
Però  dato  vi  fu  il  trentun  gentile. 

La  ribalderia  descritta  in  questo  poema  —  nel  quale  anche  il  Virgili 
riconosce  «  molta  energia  di  stile  in  così  infame  soggetto  »  —  fu  com- 
messa il  sei  aprile  del  1531:  e  la  prima  delle  edizioni  della  Zaffetta  re- 
gistra chiaramente  la  data. 

Rimasti  a  Chioggia  quei  compagni  buoni 
Scrisser  per  ogni  muro  e  in  ogni  via 
Come  l'Angela  Zalfa  nel  trentuno 
Ai  sei  d'aprile  habbia  havuto  '1  Trentuno. 

Questo  bisticcio  fra  la  data  e  l'oscena  qualifica  del  fatto  non  fu  con- 
servato nella  stampa  posteriore  ^),  che  reca  invece: 

Come  l'Angela  Zaffa  nel  trentuno 

Ai  sei  d'aprile  habbia  sfamato  ognuno. 

La  qual  variante  ha  lasciato  in  dubbio  qualche  bibliografo:  ma  è, 
parmi,  sicuro  che  non  solo  l'infame  avventura  avesse  luogo  in  quel- 
l'anno,  sibbene  altresì  che  il  poema  fosse  composto  e  pubblicato  subito 
dopo,  a  render  maggiore  lo  scorno  della  superba  cortigiana  e  alimentare 
lo  scandalo  e  il  chiasso  che  il  fatto  aveva  suscitato  a  Venezia.  Il  Virgili 


*)  Un  Alessandro  Zanco  detto  il  Poetino,  scrivendo  da  Padova  il  26  marzo  1536 
all'Aretino,  con  l'ossequiosa  deferenza  d'un  novellino  a  un  maestro  famoso,  si 
diceva  incaricato  di  chiedergli  «  la  Zaffetta  corretta  e  la  Errante  »  {Leti.  alVA., 
I,  300).  In  questa  seconda  edizione  della  Zaffetta,  certo  uscita  su'  primi  del  1536, 
la  lezione  è  generalmente  migliorata,  sebbene  non  manchi,  come  s'è  visto,  qualche 
grave  errore  di  stampa  che  la  prima  non  ha:  però  le  varianti  tra  le  due  edizioni  non 
sono  di  tale  importanza  che  valesse  la  pena  di  dare  il  testo  doppio,  come  ha  fatto 
il  Gay.  —  La  lettera  del  Zanco  può  essere  una  prova  di  più  della  collaborazione 
dell'Aretino  ai  due  poemetti  del  suo  discepolo.  Nella  seconda  giornata  della  prima 
parte  de'  Ragionamenti,  l'A.  descrivendo  alla  sua  volta  un  trentuno  ha  in  molti 
punti  parafrasato  la  Zaffetta,  e  le  somiglianze  sono  così  marcate  da  far  quasi 
vedere  la  stessa  mano  nelle  due  narrazioni. 


—  131  — 

ha  provato  che  nel  1531  il  Berni  teneva  già  pronto  per  la  stampa  il 
rifacimento  àeW  Orlando  innamorato,  e  n'aveva  ottenuto  su' primi 
d'agosto  il  relativo  privilegio  dalla  Signoria  di  Venezia:  e  perciò  quel- 
l'ottava incastrata  dal  Veniero  nel  principio  della  Zaffetta  contro  il 

...  ghiotton  presuntuoso  Berna 
Che  per  haver  Orlando  sconcacato 
Con  rimaccie  da  banche  e  da  taverna 
Il  nome  suo  ci  ha  scarpellato  sopra 
Come  se  del  furfante  fosse  l'opra, 

era  un  attacco  suggerito  certo  dall'Aretino,  diretto  a  screditare  in  anti- 
cipazione l'opera  del  suo  mortale  nemico,  prossima  a  veder  la  luce  i). 

Poi,  la  Zaffetta  nel  poema  si  dà  per  «  fanciuUina  »  che  «  '1  latte  ha 
in  bocca  ancora  »  2):  e  nel  1537  la  vediamo  consumata  e  scaltrita  cor- 
tigiana ricevere  gli  omaggi  dell'Aretino  nel  primo  libro  delle  Lettere. 
Dovevano  dunque  esser  passati  parecchi  anni,  perchè  la  dura  lezione  le 
avesse  tanto  giovato  da  sapersi  meritare  i  più  caldi  omaggi  di  un  giu- 
dice competente  di  quel  genere.  «  Io  vi  do  la  palma  di  quante  ne  fur 
«  mai  —  scrive  Pietro  —  poi  che  voi  più  ch'altra  havete  saputo  porre  al 
«  volto  de  la  lascivia  la  mascara  de  l'honestà,  procacciandovi  per  via  de  la 
«  saviezza  e  de  la  discretione  robba  e  laude.  Voi  non  essercitate  l'astutia, 
«  anima  de  l'arte  cortigiana,  col  mezzo  dei  tradimenti,  ma  con  sì  fatta 
«  destrezza  che  chi  spende  giura  d'avanzare».  Con  sapiente  ripartizione 
dei  suoi  favori,  essa  si  allaccia  e  concilia  gli  amanti,  senza  che  mai 
sorgano  conflitti  spiacevoli  :  non  è  ingorda  nell'esiger  doni  ;  non  ricorre 
alle  commedie  e  agli  ingannuzzi  delle  cortigiane  volgari.  «  Il  vostro 
«  saper  donnesco  procede  a  la  reale,  né  vi  vanno  a  gusto  le  ciancette 
«  femminili,  ne  vi  si  raggirano  intorno  frasche  ne  milantatori  :  pratiche 
«  honorevoli  godono  de  la  gentil  bellezza,  che  vi  fa  splender  rarissima- 
«  mente;  ferme  son  le  speranze  de  lo  stato  in  cui  triomphate  degli  or- 


\ 


*)  Virgili,  op.  cit,  pp.  240,  251. 

')  L'Aretino  in  una  curiosissima  lettera  alla  cortigiana  Angela  Sarra  (IV,  284) 
in  data  del  giugno  1548  parla  di  Cornelia  del  Marchese,  Angela  Zaffetta  e  Ma- 
rina Basciadonna  come  belle  tuttora  ne'  loro  sei  lustri.  La  Zaffetta  avrebbe  avuto 
appena  quattordici  anni  all'epoca  del  trentuno!  —  A  quell'Angela  Sarra  l'Aretino 
vuol  rifare  addirittura  una  verginità,  e  la  paragona  alla  luna,  candida  com'essa, 
e  ombrata  solamente  da  qualche  piccola  macchia.  La  Tariffa  del  1535  era  invece 
assai  dispregiativa  verso  la  Sarra:  le  concedeva  per  degnazione  il  prezzo  di  due 
scudi  «  benché  sia  la  disgratia  e  la  bruttezza  » .  La  Sarra  fu  poi  celebrata  anche 
dal  Calmo  (cfr.  Rossi,  op.  cit.,  p.  243  sgg.). 


—  132  — 

«  dini  che  esseguite  (?).  La  bugia,  l'invidia  e  la  maldicenza,  quinto 
«  elemento  de  le  cortigiane  non  vi  tengono  in  continuo  moto  l'animo  e 
«  la  lingua.  Voi  accarezzate  le  vertù  et  honorate  i  vertuosi,  cosa  fuor 
«  del  costume  e  de  la  natura  di  coloro,  che  compiacciono  ai  prezzi  de 
«  l'altrui  volontà  ^).  »  Perciò  l'Aretino  con  questa  lettera  —  che 
arieggia  un  articolo  di  giornalista  compiacente  per  qualche  odierna 
orizzontale  in  voga  —  le  dava  il  primato  delle  cortigiane  di  Venezia , 
la  risarciva  ampiamente  della  gogna  che  le  avevano  inflitta  i  versi  del 
Trentuno  e  della  Tariffa;  ed  anche  dieci  anni  più  tardi  chiamava  la 
Zaffetta  a  compagna  delle  sue  allegre  cene  con  Tiziano  ^). 


IV. 
Feste  veneziane  nel  1530. 


Delle  feste  di  Venezia  nell'ottobre  1530,  in  onore  del  Duca  di  Milano, 
che  l'Aretino  si  proponeva  descrivere  con  tanta  vivezza  al  Duca  di  Man- 
tova, da  fargli  provare  più  sollazzo  di  chi  le  aveva  viste  in  persona^ 
l'ambasciatore  Agnello  die  alla  sua  volta  estesi  e  curiosi  ragguagli, 
che  riportiamo  per  supplire  alla  relazione  dell'Aretino,  o  non  più 
mandata,  o  perduta.  —  Sin  dal  giorno  dell'entrata  solenne  dello  Sforza 
a  Venezia  (12  ottobre)  i  giovani  della  Calza,  scrive  l'Agnello,  armarono 
«  otto  bregantini,  con  li  quali  scorrevano  il  mare,  che  era  bella  cosa  da 
4.  vedere  »  ;  e  quantunque  stringesse  il  tempo,  perchè  la  venuta  improv- 


i)  LeUere,  I,  243. 

')  L'A.  scrive  infatti  al  compare  Tiziano,  nel  dicembre  1547:  «  Un  paio  di  fa- 
*  giani  et  non  so  che  altro  vi  aspettano  a  cena  insieme  con  la  signora  Angela 
<  Zaflfetta  ed  io;  sì  che  venite,  aciò  che  dandoci  continuamente  ispasso  la  vec- 
«  chiaia,  spia  della  morte,  non  gli  rapporti  mai  che  noi  siamo  vecchi,  imperochè 
€  trasformandola  tutti  due  con  la  mascara  della  gioventù  non  è  per  si  presto  ac- 
«  corgersi  del  carico  nostro  degli  anni,  i  quali  di  maturi  tornano  acerbi,  quando 
«  gli  attempati  gli  vanno  vivendo  piacevolmente.  Venite  via  adunque,  et  se  lo 
€  Anichino  vi  vuol  far  compagnia  mi  sarà  caro  carissimo.  >  Lettere,  IV,  133. 


-  133  — 

visa  dell'ospite  illustre  li  aveva  colti  impreparati,  disegnavano  di 
«  voler  fare  chiostre,  balli,  caccie  di  tori  et  battaglie  navali  ^)  ». 

Infatti  il  20  ottobre  l'invitarono,  per  assistere  ad  una  regata,  sul  Bu- 
cintoro «  et  havendo  retrovato  ivi  da  circa  100  bellissime  gentildonne... 
«  andarono  per  il  canale  ballando  fin  alla  casa  di  Foscari  ».  Eran 
là  le  regate,  a  cui  presero  parte  anche  delle  donne,  con  premi  spe- 
ciali: si  diedero  de'  sontuosi  rinfreschi  al  palazzo  della  Signoria,  «  et 
«  dapoi  la  colatione  si  fecero  alcune  momarie  (rappresentazioni)  che 
«  così  le  chiamano  ^)  ». —  La  grandiosa  battaglia  navale,  che  ebbe  luogo 
il  23  ottobre,  è  ben  rappresentata  nella  seguente  lettera  dell'Agnello  : 

IlWo  et  Ex°^°  S""  patrone  mio  obser"^» 

Hoggi  s'è  fatta  la  battaglia  navale  de  la  quale  ho  voluto  dar  aviso  a  V.  Ex. 
parendomi  così  esser  mio  debito,  anchor  che  mi  persuada  che  meglio  la  intenderà 
la  cosa  dal  Peveraro  et  da  altri  che  si  sono  retrovati  a  vedere  il  tutto.  Quella 
adunche  sapperà  come  a  l'incontro  del  palatio  del  Gran  Consilio  in  meggio  del 
Canal  Grande  è  sta'  fabricato  sopra  alcune  zatte  un  castello  de  legnami,  quale 
compareva  molto  bene  sì  perchè  era  tutto  finto  di  marmore,  sì  anche  perchè  era 
formato  a  guisa  d'una  bellissima  forteza  con  quattro  torrioni  uno  per  ogni  can- 
tone et  con  un'altra  gran  torre  nel  meggio.  Et  essendo  munito  il  ditto  castello 
d'artegliaria  grossa  et  minuta  et  de  diverse  altre  cose  necessarie  alla  deffensione 
d'una  terra,  il  cap°  Gattino  tolse  il  carrico  di  guardarlo  con  quaranta  compagni, 
et  così  entratovi  dentro  con  essi  la  matina  a  l'alba,  essendosi  radunato  numero 
infinito  di  persone  a  vedere  la  festa,  circa  le  deceno  ve  bore  da  la  banda  del 
Kesanala  si  scopersero  trenta  bregantini  armati,  et  come  quelli  di  dentro  li 
videro  buttorno  fuori  da  li  merli  duoi  puoni  '}  fingendo  quelli  essere  soldati  che 
havessero  voluto  tradire  la  forteza,  poi  cominciorono  a  scarricare  gran  numero 
de  artegliaria,  del  che  mostrando  li  bregantini  haver  timore  stavano  da  la  larga, 
et  andando  intorno  del  castello  in  foggia  di  scaramutia  tiravano  anche  essi  la 
loro  artegliaria:  et  scaramuzatosi  così  per  un  pezo  Tarmata  deliberò  di  expu- 
gnare  il  castello,  donde  che  quindeci  bregantini  si  ridussero  da  un  canto  del 
castello  et  li  altri  quindeci  da  l'altro,  et  scarricando  molte  volte  la  loro  arte- 
gliaria in  la  quale  non  ponevano  altro  che  polvere  et  paglia  mostravano  di  far 
due  battarie:  et  dapoi  che  hebbero  fatto  questo  per  un  pezzo  si  appresentorono 
alla  battaglia  accostando  le  schale  al  castello  et  attacando  fochi  artificiati  in 
alcuni  lochi  di  esso,  ma  quelli  di  dentro  combattendo  gagliardamente  con  spade 
di  legno  buttando  fora  pegnatte  legnami  et  ciò  che  li  veniva  alle  mani  si  def- 
fendevano  benissimo  et  buttavano  in  acqua  quanti  volevano  ascendere  le  schale, 
di  modo  che  era  cosa  assai  bella  da  vedere,  ma  molto  più  bella   seria    stata  se 


^)  Disp.  dell'Agnello  12  e  14  ottobre. 

')  Il  raed.,  20  ottobre.  —  Sulle  momarie  cfr.  Molmenti,  op.  cit,  p.  298. 

')  Fantocci. 


—  134  — 

la  fosse  durata  più,  però  che  in  spatio  di  meza  bora  dapoi  principiata  la  bat- 
taglia il  castello  fu  preso  essendovi  entrato  dentro  quelli  de  l'armata  per  la  via 
fatta  dal  foco  artificiato;  et  anchor  che  poi  presa  la  prima  cinta  del  castello  la 
torre  di  raeggio  si  deflfendesse  pur  anch'essa  durò  poco  che  in  un  tratto  si  perse. 
Expugnato  il  castello  furono  scarricati  infiniti  pezzi  d'artegliaria  in  la  piazza 
del  palazzo,  che  era  segno  de  la  colatioiie  che  veniva,  la  quale  fu  portata  da 
quattrocentosessanta  schuderi  guidati  da  23  gentilhomini  de  la  Calza  havendo 
cadauno  d'essi  vinti  schuderi  a  sua  obedientia,  et  cadaun  schudero  portava  o 
piatto  0  taza  d'argento  con  dentro  cose  fatte  di  zucharo,  alcuni  haveano  un 
Cupidine,  altri  una  Venere,  molti  un  Neptuno  et  un  Mercurio,  et  altri  altre 
diverse  figure  così  de  Dei  comò  de  homini  et  de  diversi  animali  di  modo  che  fu 
cosa  molto  delectevole  da  vedere.  Questa  colatione  fu  portata  parte  alla  S.ria, 
al  S.r  Duca  di  Milano  et  a  quello  di  Ferrara  che  stavano  sopra  il  portico 
del  palazzo  a  vedere  la  festa,  parte  fu  presentata  a  centosei  bellissime  gentil- 
donne et  a  molti  gentilhomini  che  erano  sopra  un  palcho  fatto  dinanzi  al  ditto 
palazzo  et  coperto  di  panni  di  color  celeste  con  ornamenti  de  finissimi  tapeti  et 
di  bellissime  spallere  di  seta  et  d'ogni  altra  sorte,  di  modo  che  questo  palcho 
per  l'ornamento  che  haveva  cosi  de  le  donne  le  quali  erano  state  invitate  perchè 
superano  di  belleza  tutte  le  altre  de  la  città,  come  anchor  de  li  altri  apparati 
è  stato  indicato  la  più  bella  cosa  che  abbia  havuto  tutta  la  festa.  Fornita  la 
colatione  si  cominciò  a  ballar  sul  palcho  et  ballatosi  tre  balli  comparsero  li  trenta 
bregantini,  quindeci  per  ogni  parte,  li  quali  andarono  con  gran  furia  ad  inve- 
stirse,  et  li  galleotti  et  soldati  che  vi  erano  sopra,  poi  che  hebbero  gettato  l'un 
centra  l'altro  pegnatte  et  altri  fochi  artificiati  venero  alle  mani  con  le  spade  et 
altre  arme  d'hasta,  le  quali  erano  però  di  legno  et  havevino  usato  d'esse  ne  la 
battaglia  del  castello,  di  sorte  che  demostravano  una  vera  battaglia  navale,  et 
se  la  notte  non  li  havesse  dispartiti  molto  più  presto  di  quello  che  conveniva  a 
un  tal  spectacolo  certamente  si  haveria  havuto  assai  bel  spasso;  ma  come  ho 
detto,  la  notte  interroppe,  et  retiratosi  li  bregantini  ognuno  partite  salvo  quelli 
che  volsero  veder  ballare.  Il  ballare  durò  fin  alle  tre  bore  di  notte,  che  poi  ogniuno 
andò  a  casa  sua,  et  a  questo  modo  la  festa  hebbe  il  suo  fine,  la  quale  è  sta 
laudata  da  molti,  molti  anche  la  biasmino  dicendo  che  si  poteva  fare  assai 
meglio  di  quello  che  è  sta'  fatto.  Io  l'ho  scritta  come  l'è  non  aggiungendoli 
né  minuendoli  cosa  alcuna.  Me  raccomando  in  bona  gratia  di  V.  Ex. 
Da  Venetia  ali  23  di  octobre  1530. 
D.  V.  Ex. 

Humil'^^8  gor 

B.  Agnello. 

Di  altri  divertimenti  offerti  al  Duca  di  Milano  non  si  ha  memoria. 
—  Certo  è  che  le  compagnie  della  Calza  si  trovavano  allora  nel 
maggior  splendore,  e  concorrevano  a  rendere  straordinariamente  solenni 
le  feste  così  pubbliche  come  private  di  Venezia  *).  Essere  accolti  da 


')  Cfr.  MoLMENTi,  op.  cit,  p.  308  e  sgg. 


-  185  - 

quelle  società  brillanti  di  gentiluomini  era  un  onore  ambito  da'  perso- 
naggi più  cospicui,  e  non  sempre  facilmente  concesso.  Al  qual  pro- 
posito l'amb.  Malatesta  scriveva,  in  questo  stesso  anno  1530,  del 
4  maggio  al  Duca  di  Mantova: 

«  Una  compagnia  nova  de  questi  gioveni  che  si  nomina  imortali  boggi  ac- 
cettano in  la  compagnia  il  S.  Principe  di  Salerno  et  gli  fanno  una  festa  et 
convito  alla  foggia  che  fu  fatto  a  V.  Ex.  quando  la  entrette  in  una  simile. 

Danserano  per  Canale  suso  le  piate  con  le  gentildonne,  le  quali  sinhora  non 
hanno  potuto  ottenere  de  vestirse  a  loro  modo  come  fu  concesso  al  detto  convito 
de  V.  Ex.  Quando  il  Marchese  di  Monferrato  fu  qua  un'altra  compagnia  de  gli 
floridi  invitate  Sua  S.ria  ad  entrare  in  essa,  poi  ad  accettarlo  gli  compagni 
furono  discordi  et  non  intrette,  ma  solamente  gli  fu  fatto  il  convito  ». 

E  il  giorno  appresso  annunziava  che  la  festa  al  Principe  di  Salerno 
era  riuscita  meschina  :  la  colazione  aveva  costato  poco  più  di  venti 
ducati,  e  in  tutto  non  se  n'eran  spesi  quattrocento;  mentre  pel  suo 
padrone  non  bastarono  i  tremila.  Federico  Gonzaga  infatti,  andato 
a  Venezia  nel  febbraio  del  1520,  vi  aveva  avuto  eccezionali  accoglienze 
da  un'altra  compagnia  degli  Immortali  ^). 

A  queste  fiorite  e  distinte  società  di  pa^m^  poteva  già  essere  aggre- 
gato nel  1530  un  avventuriero  come  l'Aretino?  Se  si  considera  che 
egli  era  ormai  cresciuto  di  influenza  e  di  fama,  protetto  dal  Doge, 
camerata  del  Tiziano,  maestro  del  Veniero,  non  è  improbabile:  —  e 
sta  di  fatto  che  alcuni  anni  più  tardi  troviamo  come  la  Taìanta  fosse 
«  composta  a  petitione  dei  magnifici  signori  sempiterni  e  recitata  dalle 
lor  proprie  magnificentie  con  mirabil  superbia  d'apparato  »  ;  apparato 
descritto  per  filo  e  per  segno  dal  Vasari  '^\  che  ne  fu  l'ordinatore, 
espressamente  chiamato  a  Venezia  da  Pietro,  cui  stava  a  cuore  di 
far  conoscere  e   ammirare  l'artista  concittadino. 

Anche  nel  1530,  s'è  visto  (doc.  XXVI)  che  l'Aretino  si  faceva  ri- 
mandare da  Mantova  il  Marescalco  «  con  dire  che  era  richiesto  da 
«  assai  gentilhomini  ». 


^)  MoLMENTi,  op.  ciL,  p.  316,  e  Rossi,  op.  cit.,  p.  XX. 
-)  Vasari,  Opere,  ed.  Sansoni,  Vili,  283. 


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